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Esportare lo Stato in Africa è stato una follia. Nota sulla Costa d’Avorio

6 agosto 2009

Anche se il mondo è sempre più piccolo e globalizzato, è pur vero che le distanze permangono: e basta trascorrere una settimana in Costa d’Avorio per percepire con nettezza come il nostro abituale modo di vivere non sia affatto normale (ma proprio per nulla) nell’Africa sub-sahariana.

Da una decina di anni, la Costa d’Avorio è un paese al centro di difficoltà particolarmente gravi, poiché la ribellione scoppiata nella parte Nord del Paese rende quasi impossibile il ristabilimento di un’esistenza ordinaria. Dopo mezzanotte, ad esempio, per entrare ed uscire da Abidjan (la capitale, che conta circa 6 milioni di abitanti) è necessario disporre di speciali autorizzazioni. Non bastasse questo, chi deve muoversi in questa parte del mondo è costretto a superare vari posti di blocco, dove ogni volta è costretto a mettere mano al portafoglio. In un Paese in cui il reddito medio annuo si aggira intorno ai mille dollari, non ci si può stupire se questo taglieggio è divenuto parte della quotidianità.

Se sono stato in Costa d’Avorio è perché tra fine luglio e inizio agosto l’Institute for Economic Studies ha deciso di organizzare a Grand Bassam (antica capitale coloniale, a breve distanza da Adidjan) un seminario di introduzione ai temi del liberalismo, a cui hanno preso parte una cinquantina di studenti provenienti - oltre che dalla Costa d’Avorio - dalla Guinea, dal Burkina Faso e dal Camerun. A volere con forza questa iniziativa e a sostenerla personalmente in tutti i modi è stato Mamadou Koulibaly, economista uscito dalla scuola di Aix-Marseille e ora presidente dell’Assemblea Nazionale: uno studioso di limpidi convincimenti liberali, che sta in tutti i modi sforzandosi di fare il possibile per strappare l’Africa dal fatalismo pessimista che ne ostacola lo sviluppo e dallo statalismo che è all’origine di tanti suoi problemi. (Qui è possibile ascoltare un’intervista, in lingua francese, all’economista ivoriano.)

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Ancora sui think-tank…

2 luglio 2009

Ricevo da Pasquale Annicchino e volentieri pubblico:

Il fiorire di iniziative think-tankistiche, o presunte tali, ha aperto un importante dibattito che l’Italia affronta da una posizione di assoluta retroguardia.

Negli interventi precedenti Alberto Mingardi ha giustamente messo in evidenza l’importanza che i think tank americani hanno nel “calare nella realtà concreta idee a livello di policies“. Si domanda ancora Mingardi: “Da noi (…) quand’è che si parla nei vari centri studi?”. La risposta di Mingardi (con sua buona pace) è simile a quella che avrebbe dato il marxista eterodosso Bordieu. Nei think tank italici si parla “quando si fa salotto”.

Strategie di investimento sociale che gli agenti sviluppano per trarne profitti materiali e simbolici. Il capitale sociale diventa così la base del capitalismo di relazione.

La realtà americana, presa a modello, è stata invece caratterizzata dalla presenza di veri e propri intellectual enterpreneurs capaci di investire nel valore delle idee e di coordinare gruppi di intellettuali e di network enterpreneurs spesso lontani l’uno dall’altro. La traduzione di questa “ricerca di base” in opzioni di policy è stato successivamente il compito dei political enterpreneurs. La differenza con la realtà italiana è che alla “dimensione non elettorale dell’attività politica” (Teles, 2008) è stata sempre garantita ampia indipendenza. Questo ha permesso il formarsi di centri studi autorevoli ed in concorrenza fra loro nel dibattito pubblico.

Se si osserva il paesaggio italiano nulla di nuovo appare sotto il cielo. Strani ircocervi si affacciano all’orizzonte e sembrano convergere nel nuovo mantra: l’esperienza doxica di Stato e di partito. Se le “idee hanno delle consequenze”, i pochi che lavorano su quelle e non dal “Bolognese” hanno poco da temere.

Bibliografia “think-tankista” minima:

Weidenbaum M. L., The competition of ideas: the world of Washington think tanks, New Brunswik, NJ, Transaction Publishers, 2009

Teles S. M., The rise of the Conservative legal movement, Princeton, Princeton University Press, 2008

Stone D.,  Denham A., Think tank traditions: policy research and the politics of ideas, New York, New York Universityb Press, 2004

Ricci D., The transformation of American politics: the new Washington and the rise of think tanks, New Haven, Yale University Press, 1993

Smith J.A., The idea brokers: think tanks and the rise of the new policy elite, New York, Free Press, 1991

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Perché non sempre è meglio prevenire che curare

2 luglio 2009

Commentando su “L’Occidentale” la condanna inflitta a Madoff per la truffa colossale messi in piedi negli scorsi anni, Salvatore Rebecchini rileva giustamente che ora bisogna evitare

la facile ricetta che vuole regole più severe come soluzione del problema. Certamente una riflessione su eventuali fallacie del sistema si impone, ma la lezione più importante da trarre è che occorre massimizzare l’incentivo da parte degli investitori a verificare la reputazione dei soggetti a cui affidano i loro risparmi. Come d’altra parte occorre che i soggetti affidatari siano incentivati a promuovere e a investire in reputazione. Purtroppo il rischio di nuova e ulteriore regolamentazione è di obnubilare tali incentivi e indurre i soggetti all’acquiescenza, rifugiandosi nella più facile e meno onerosa strategia del tipo: “Adesso ci sono nuove regole e queste ci assicurano correttezza e onestà”.

Rebecchini riprende e opportunamente attualizza una lezione tenuta nei giorni scorsi da Jonathan Macey, persuaso che quanto più la regolazione invade lo spazio economico e sociale, quanto meno è avvertita la necessità di farsi una reputazione e – di conseguenza – di tenere comportamenti corretti: tali da dare effettive garanzie ai nostri interlocutori.

È un altro modo per dire che la moralità si sviluppa nelle società più libere e che la pretesa interventista di chi vuole prevenire ogni errore con una limitazione della libera iniziativa (e quindi con l’adozione di meccanismi regolatori) finisce per depotenziare quelle regole spontanee dell’interazione umana su cui maggiormente possiamo fare affidamento se vogliamo affrontare non del tutto disarmati la dimensione sempre strutturalmente aleatoria del futuro.

In talune circostanze si può affermare che “prevenire è meglio che curare”, ma questo non vale sempre. In particolare non vale dinanzi alla pretesa dei pianificatori della vita sociale di eliminare ogni rischio ed ogni errore attraverso una crescente compressione degli spazi di libertà.

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Krugman, Reagan e i tagli alle imposte

15 giugno 2009

Qualche ora fa, sul suo frequentatissimo blog Paul Krugman ha preso per i fondelli i repubblicani e contestato quanti attaccano il piano di stimoli predisposto da Barack Obama poiché non avrebbe prodotto i risultati annunciati, soprattutto in tema di occupazione. Con una certa abilità retorica, Krugman si limita ad esibire un grafico che mostra come durante la presidenza Reagan a seguito dei tagli alle imposte per più di un anno si ebbe un incremento del numero dei senza lavoro.

La polemica di Krugman, che da intellettuale “militante” ed insider di primo livello è uso a schierarsi con una parte e contro l’altra, non sarebbe così interessante se non offrisse l’occasione per considerazioni più generali.

Su un punto l’economista americano ha sicuramente ragione: e cioè che le buone scelte politiche non si giudicano nell’arco di pochi mesi. Non a caso il formidabile crollo della disoccupazione che caratterizzò in America gli anni Ottanta del reaganismo fu ben successivo alla fase ricordata da Krugman.

C’è però un altro elemento, assai più meritevole di attenzione. Bisognerebbe cominciare a ragionare su questi temi senza infatti cadere vittima di troppe ingenuità metodologiche. In una realtà complessa quale è quella dell’economia americana o di qualsiasi altro Paese, non è possibile attribuire ad una scelta politica (sia esso uno “stimolo” keynesiano o il taglio delle imposte) ciò che succede successivamente (ad esempio, l’aumento della disoccupazione). Solo una buona teoria può dirci quale relazione c’è, ceteris paribus, tra una scelta di politica economica e le sue conseguenze sul sistema della produzione e della distribuzione. L’empirismo dei puri fatti non porta da nessuna parte.

In secondo luogo, bisognerebbe capire che è davvero molto sbagliato sposare l’occupazione per se: e che certo questo è tanto più curioso se a farlo sono intellettuali che costantemente dichiarano di farsi ispirare solo dalla realtà, rigettando ogni prospettiva di ordine ideologico e/o morale. D’altra parte, nella vecchia Ddr o nell’Urss d’antan la disoccupazione proprio non esisteva. C’erano invece i lavori forzati.

Non solo. Chi scrive è tra coloro che sarebbe davvero felice di veder crescere di colpo la disoccupazione in Italia grazie a massicci licenziamenti nel settore pubblico. È un’ipotesi del tutto irrealistica e certamente sarebbe una medicina amara (molto dolorosa, in particolare, per chi finirebbe per trovarsi sulla strada), ma aiuterebbe la crescita effettiva del Paese, che ha bisogno di più privato e meno spesa pubblica, più imprese e meno uffici parastatali.

Per sviluppare una qualsivoglia analisi sociale, bisogna insomma evitare non soltanto l’ingenuo positivismo che oggi domina larga parte degli studi economici, ma saper anche includere - con la massima consapevolezza, e con il coraggio di esporre le proprie tesi alle altrui critiche - quelle opzioni culturali ed etico-politiche che comunque sorreggono ogni interpretazione della realtà. Anche quelle di economisti avversi - a parole - ad ogni ideologia e fedeli sacerdoti di un positivismo che si vorrebbe oggettivo e senza partiti.

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Se l’ingegner Capra si muove da politico consumato…

30 maggio 2009

Nei giorni scorsi si erano alzate molte voci sdegnate dopo la decisione del comune di Brescia di revocare i propri rappresentanti del consiglio di rappresentanza di A2A. Si era detto – e le cose stanno così – che si era trattato di una decisione “tutta politica”, conseguente al fatto che l’ing. Renzo Capra e i suoi fedelissimi sono uomini lontani dai nuovi equilibri cittadini determinati dall’elezione del nuovo sindaco, Adriano Paroli.
Soprattutto si era molto agitata una parte della grande stampa nazionale, che però – alle solite – ha introdotto una contrapposizione risibile: i tecnici (da una parte) contro i politici (dall’altra). Quasi sottacendo che la distanza tra Capra e il centro-destra era conseguente, è ovvio, alla storica collocazione dell’ingegnere piacentino nel centro-sinistra: e in particolar modo nella Dc montiniana. Perché non si resta per decenni alla testa di un’impresa municipalizzata altamente lottizzata se non si hanno agganci politici solidissimi.
Il comportamento davvero disinvolto – limitiamoci a questo aggettivo – tenuto ieri dall’ingegner Capra nel corso dell’assemblea di A2A (durante la quale ha rilevato errori formali nella pubblicazione dei patti parasociali e quindi ha negato il diritto di voto alla maggioranza, composta dai comuni di Milano e di Brescia), ha fatto cadere la maschera. Ormai è chiaro che siamo dinanzi ad una guerra, antica, tra due parti politiche che in vario modo cercano di legittimarsi: vantando di avere competenze che altri non hanno, di rappresentare i veri interessi delle città interessate, di essere i più vicini ai “migliori” o al popolo, e via dicendo.
Perfino il “Corriere della Sera”, stavolta, ha sostenuto che “la sensazione diffusa è che si stia consumando una vendetta”. Non siamo insomma di fronte ad un’analisi costi-benefici sul futuro dell’azienda, né ad un progetto per modernizzare la multi utilities. No: politica, solo politica, vecchissima politica.
Nel frattempo il lavoro passa ai legali (li pagheremo noi contribuenti, statene certi), mentre il titolo perde il 4% e la credibilità degli attori molto di più. Una cosa è curiosa: Capra è nato nel 1929 e quindi è riuscito per ottant’anni della sua vita (fino a ieri, in poche parole) a far credere a taluni – compresi vari autorevoli commentatori della grande stampa – di essere un tecnico. Fino a ieri, appunto.
Impossibile, allora, non concordare con quanto affermato da Basilio Rizzo, “storico” esponente comunale della sinistra milanese: «Quando i gruppi di potere giocano sulle società come fossero cosa propria, ne fanno le spese l’azienda nel suo complesso e in particolare i piccoli risparmiatori, e si dà spettacolo squallido».
D’accordo. Ma allora, a quando una bella privatizzazione, la quale apra al mercato i servizi ora egemonizzati da A2A e quindi dagli uomini di partito?

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Abruzzo: con gli espropri di Bertolaso, si ricostruisce sulla sabbia

14 maggio 2009

Quando un’area viene colpita da un terremoto o da qualche altra calamità naturale, alle rovine materiali rischiano sempre di aggiungersi gravi danni di altro genere. Chi ricorda quanto avvenne in Irpinia, ad esempio, sa bene come le morti e le distruzioni causate dai movimenti tellurici introdussero – a causa delle scelte politiche compiute – ad una crescita esponenziale del potere e di conseguenza all’imbarbarimento della vita sociale. Dopo il disastro naturale, insomma, si è avuto il disastro “artificiale” indotto dai finanziamenti pubblici e dalle spartizioni correntizie.
È di queste ore l’annuncio che per la costruzione delle case provvisorie il capo della protezione civile, Guido Bertolaso, ha predisposto una ampio programma di espropri. Come ha detto Bertolaso stesso, “gli elenchi sono stati esposti nell’albo pretorio e ne abbiamo dato comunicazione attraverso il nostro sito e i quotidiani locali, in quanto sono moltissimi e quindi non potevamo raggiungerli uno per uno”.
Così, però, non si ricostruisce nulla, perché non si rimette in piedi una società minando ancor più il pilastro fondamentale di ogni ordine civile: la proprietà privata. Colpire la proprietà vuol dire “terremotare” i principi fondamentali del diritto e proiettare un’idea di società in cui la realtà è a disposizione dell’Imprenditore per eccellenza: lo Stato.
Purtroppo, fin dall’inizio l’intera gestione del terremoto è stata basata sulla centralità della politica e di un apparato burocratico che si autorappresenta efficiente, invece che sulla valorizzazione dell’autonoma iniziativa delle imprese e delle famiglie della zona. Mettere in discussione in questo modo il diritto di proprietà, così che nessuno possa disturbare il “manovratore”, proietta ombre lunghe sul futuro della provincia aquilana.
Non c’è nessuna voce liberale che voglia farsi sentire?

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Trento, provincia discount, e i candidati allo scranno

13 maggio 2009

Se di Zurigo fu detto (da Karl Kraus, se non erro) che era grande solo la metà del cimitero di Vienna, ma noiosa il doppio, che si potrebbe dire di Trento? La città è graziosa, con un decoro che ti fa dubitare di essere in Italia, ma talvolta dà l’impressione di essere ormai una realtà parastatale (a causa della “specialità”) in ragione di una spesa pubblica abnorme che ha smorzato lo spirito d’iniziativa e politicizzato ogni cosa. Per tutta una serie di ragioni, verrebbe da pensare che a Trento ci si possa andare solo a riposare e ricaricare le batterie.
E invece – grazie all’assessore provinciale al Commercio, Alessandro Olivi (del Pd) – la città potrebbe diventare un paradiso del consumismo per l’intero Nord Est, a seguito della saggia decisione di liberalizzare sconti e promozioni, sottraendo ogni limite temporale.
La scelta è appropriata e produrrà buoni risultati, incrementando la concorrenza. Svincolare quanto più è possibile l’azione di negozi e altri centri vendita significa infatti favorire lo scambio, che è sempre un’interazione vantaggiosa per tutti i partecipanti (almeno ex ante: perché poi qualche volta ci si può pentire).
È interessante rilevare come stampa e opinione pubblica, in fondo, abbiano reagito bene. Anche sul sito del TG 1, che ha lanciato un sondaggio sul tema, la maggioranza dei visitatori si è espressa favorevolmente. Il mercato sarà pure “fallito” e la crisi sarà pure da addebitarsi alla libertà economica come vuole la vulgata, ma una certa ragionevolezza elementare ancora alberga nella testa di molti, persuasi che ricevere uno sconto anche a novembre e non solo a dicembre non sia qualcosa da demonizzare. E se i commercianti sono divisi, questo si deve al fatto che alcuni di loro temono che i grandi centri commerciali coglieranno l’occasione per scatenare una concorrenza ancora maggiore: a nostro vantaggio.
Secondo l’assessore Olivi, altre province – a partire da quelle limitrofe – copieranno il modello. Può darsi. Ma dato che in moltissime realtà si vota proprio per il rinnovo di queste (sostanzialmente inutili, anche se assai costose) amministrazioni provinciali, perché non pretendere dai candidati un chiaro impegno a seguire le orme di Trento?

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Non siamo figli della Thatcher, ma del Ventennio

4 maggio 2009

Nonostante una certa cultura sembri talora dimenticarsene, la storiografia è per definizione revisionista. Non c’è quindi nulla di sorprendente nel fatto che ora, a vent’anni dal concludersi di quell’esperienza, vi sia chi punta il dito contro il decennio reaganiano e thatcheriano e contro l’antistatalismo che aveva animato quelle esperienze politiche. Ovviamente tali giudizi sono in larga misura la conseguenza di presupposti culturali: ed in questo senso non è difficile comprendere per quali ragioni i fautori di una società variamente tecnocratica non provino alcuna simpatia per la ventata di libertà che ha segnato il mondo anglosassone durante gli anni Ottanta.

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Debutta il federalismo. Anzi, no

1 maggio 2009

Era necessario approvare il tutto prima delle elezioni europee, perché Bossi doveva incassare il dividendo di maggioranza. Ma non si creda che la nuova “legge quadro” sul federalismo fiscale cambi qualcosa, perché non è così.
Si tratta di un testo nato da mille compromessi, dato che durante l’estate Calderoli ha girato tutte le parrocchie per ottenere il loro placet, e alla fine ha messo insieme un progetto che accontenta il Sud e il Nord, le province e i comuni, le regioni e lo Stato centrale, la destra e la sinistra. Insomma, un pasticcio.
Anche la decisione di passare dai costi storici a quelli standard sarà, nel migliore dei casi, un modo per passare da una gestione centralista confusa ad una gestione centralista un po’ meno confusa. Sempre che la definizione dei costi standard non metta in moto un meccanismo infernale e non finisca quindi per moltiplicare il caos.
Resta che, se proprio saremo fortunati, avremo avuto una razionalizzazione dell’esistente, dato che nel contorto catalogo di possibilità messe sul tavolo dal testo della riforma vi è un netto prevalere di tributi decisi dal centro e in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale.
Quella che sembra mancare, in primo luogo, è la scelta di innescare una competizione tra territori che permetta a comuni e altri enti di “manovrare” le aliquote e anche di elaborare autonomamente tributi propri. Ma senza lo sviluppo di un’intensa concorrenza tra governi locali non ci può essere alcun federalismo.
Eppure non è lecito essere del tutto pessimisti, dato che quello che prende il via – di tutta evidenza – è un processo destinato a conoscere tappe che oggi non possiamo immaginare. Come è stato immaginato e prefigurato fino, il disegno dell’Italia di domani non ha nulla di federale. Ma nulla esclude che cammin facendo l’introduzione di qualche tributo davvero affidato all’arbitrio degli enti locali e quindi tale da mettere in concorrenza le differenti realtà non inneschi qualche circolo virtuoso e non educhi un po’ alla volta una popolazione ancora del tutto digiuna di ciò che è veramente il federalismo competitivo.
Roma non fu fatta in un giorno, e neppure la Svizzera.

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