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Archivio per 9 maggio 2009

Attenti al nuovo mantra: la crisi da materie prime…

9 maggio 2009

C’era qualcosa nell’aria che avvertivo istintivamente ma la cui precisa nozione mi sfuggiva da tempo. Ora ho capito meglio di che cosa si tratti, letto l’intervento di Pietro Modiano sul Sole, in risposta a Guido Tabellini. Vado per le spicce, come al solito ipersemplificando questioni molto più complesse. Premessa uno, finanziaria: gli Usa e il mondo intero hanno il massimo interesse a consolidare il più possibile la ripresa di fiducia dell’intermediazione finanziaria (e dei mercati, cominciata dalla prima settimana di marzo, e massicciamente sotenuta da acquisti senza precedenti da parte della mano pubblica, nonché da un’accorta politica di comunicazione dei dati). Premessa due, politica: gli elenchi di nuovi princìpi di regolazione finanziaria, capital ratios, omologazione delle architetture regolatorie (vedi Mingardi nel suo post precedente) et simila decadono dall’agenda di comunicazione pubblica quotidiana (avevano anche annoiato, in verità, visto che dalle chiacchiere ancora non si passa ai fatti), per tornare dove sono sempre stati, cioé nell’agenda riservata di un pugno di regolatori e banchieri centrali. Anche gli stress test Usa servono più a sostenere i mercati, che a fare pulizia. Premessa tre, gnoseologica: ma siamo proprio sicuri, di aver capito che cosa è successo negli anni precedenti la crisi dei subprime e il fallimento di Lehman? O è stata un lettura affrettata, quella che ha iniziato ad accumularsi in centinaia di papers e convegni e migliaia di articoli, intorno ai famosi eccessi della “finanza per la finanza”‘?
Dopo queste tre premesse, le strade secondo me si dividono nettamente.
Ce n’è una che ci riguarda (nel senso: chi la pensa come noi). Abbiamo le idee chiare sull’instabilità ingenerata da politiche monetarie lassiste, siamo disposti ad approfondire - coerenti all’imperfettismo di cui cui nutriamo - serie analisi sulle conseguenze dei modelli Var autogenerati dagli intermediari, dei bassi capital ratios per asset assunto o intermediato, la necessità di tener distinti gli intermediari bancari da quelli non bancari, e via continuando su tutti i diversi capitoli “tecnici” alla base di un sistema in cui il 50% dei profitti delle quotate Usa era attribuito a chi pesava il 10% del valore aggiunto del Gdp, da attività di puro trading ma il più possibile “esterne” al proprio recinto patrimoniale. Siamo vieppiù disposti ad approfondire, perché temiamo molto gli interventi iper regolatori, pervasivi e omologanti di chi sogna improbabili rivincite dei giuristi sulla finanza, e della politica sull’autonomia d’impresa.
A questa via del dubbio, aderisco.
Ma ce n’è un’altra che dichiara di partire da premesse analoghe, per giungere a conclusioni molto diverse. Chiamiamola la via bancaria: non solo non possiamo essere ben sicuri della causa vera, in realtà banchieri e intermediari non hanno sbagliato nulla (e nemmeno politica e regolatori che avevano congegnato le norme del gioco, come diremmo noi). I banchieri non hanno nessuna colpa, e la crisi è semplicemente esplosa perché è stata l’impennata delle commodities e del petrolio fino a 147 dollari, a determinare panico nell’economia reale, facendo saltare le griglie che sostenevano prezzi al presente e ritorni al futuro.
Non so come la pensiate voi: ma io alla conclusione autoassolutoria non mi sento proprio di aderire. Non desidero rinfrescare a tutti gli hearings al Congresso Usa in cui fior di esperti del mercato delle commodities esposero la ben nota tesi sul motivo per il quale, in mesi che vedevano il restringersi della forte leva e degli acquisti allo scoperto, i futures su petrolio, grano e mais subirono impennate che non avevano alcun giustificabile proporzionato “sottostante”, quanto a variare della domanda mondiale o a improvvisi blocchi dell’offerta.
Sento puzza di bruciato. Non mi piace, la faccia tosta dei signori banchieri. Mi sbaglio? Che ne pensate?

Oscar Giannino Senza categoria , , ,

Abolire le Province

9 maggio 2009

L’ostilità preconcetta per una riforma degli Enti locali che comporti l’abolizione delle Province può essere spiegata solo in due modi: con la fiducia cieca e talvolta inconsapevole verso le istituzioni e il loro operato da parte di onesti, ancorché ignari cittadini oppure con la difesa di rendite di posizione da parte di gruppi di interesse politico-clientelari. Tertium non datur. Meglio di noi l’ha spiegato in un agile libercolo pubblicato di recente per la casa editrice Rubbettino il team capitanato da Silvio Boccalatte. Eppure, proprio in questi giorni di “febbrile” attesa per le consultazioni del 6 e 7 giugno prossimi, si sente spesso ricordare (almeno questa è la mia esperienza) che le Province sono e restano indispensabili, perché, tra i notevoli compiti cui sono preposte, v’è quello, imprescindibile, di varare il piano territoriale di coordinamento. Ebbene, questa vitale competenza di livello urbanistico è in realtà stata attribuita alle Province nel 1990 con lo scopo conclamato di conferir loro un qualche ruolo (!). Come dire: in Italia prima si creano gli enti e solo dopo si decide quali funzioni essi debbano ricoprire. Il piano territoriale di coordinamento è lo specchio di questo modus operandi. Si tratta infatti di un ulteriore livello di pianificazione urbanistica del quale non si sentiva affatto il bisogno e che in buona sostanza si sovrappone a quello delle Regioni, ingolfandone l’attività e accrescendo il garbuglio normativo. Il piano provinciale, infatti, una volta redatto, deve essere rimesso alla Regione, la quale ne accerta la conformità agli indirizzi regionali di programmazione (ottimo, ma allora non ne basterebbe solo uno?) e stabilisce le procedure di approvazione garantendo la partecipazione dei Comuni interessati. I Comuni, in pratica, non dovranno soltanto attenersi alle disposizioni dei piani urbanistici regionali, ma dovranno fare riferimento anche a quelli provinciali. Talora, però, i piani di coordinamento provinciale sembrerebbero poter essere approvati in deroga a quelli regionali. Si pensi al caso degli strumenti di pianificazione paesaggistica, i quali, prima di una legge del 2004, avrebbero dovuto essere inglobati nei piani di coordinamento provinciale a seguito di intese con le amministrazioni locali. La legge del 2004 ha scombussolato il quadro, dando la precedenza agli strumenti di pianificazione paesaggistica regionale su quelli adottati a livello provinciale. Insomma. L’estrema confusione e incertezza del quadro normativo imporrebbe un ripensamento del ruolo di un ente, sotto più punti di vista, davvero pletorico e sovrabbondante. Ecco perchè, cara Claudia Porchietto, non possiamo che storcere la bocca di fronte ad un programma che si propone di tagliare gli sprechi, ma che non ci dice nulla di certo sul futuro delle Province. Almeno il suo avversario è stato chiaro: le Province non si toccano.

Giovanni Boggero Senza categoria , , , , ,

Ma siamo proprio sicuri che l’armonizzazione sia la strada migliore?

9 maggio 2009

Sul Sole 24 Ore, è in atto un interessante dibattito sulle cause della crisi e, quindi, anche sulle possibili soluzioni. Partecipano economisti di rilievo, come Guido Tabellini (che ha distillato un sobrio quadro d’insieme di quanto avvenuto negli scorsi mesi) e Nouriel Roubini (che ha auspicato un po’ di “ordinata” distruzione creatrice). Sono scampoli di una discussione ovviamente più ampia, che da mesi appassiona e coinvolge un numero sterminato di studiosi, e rispetto alla quale non verrà certo messa la parola “fine” nei prossimi mesi. Le cause della crisi resteranno, giustamente, materia di studio per gli anni a venire.

In questo quadro, vorrei segnalare un interessante (e leggibilissimo) paper di Arnold Kling per il Mercatus Center, The Unintended Consequences of International Bank Capital Standards. Il testo è sintetico ma accenna a più questioni, sottolinea per esempio il difetto pro-ciclico dei coefficienti patrimoniali imposti alle banche (Basilea I e II), ma ha soprattutto il merito di porre un tema che non è per nulla secondario.

La stragrande maggioranza di coloro che auspicano innovazioni normative, per rispondere alla crisi ed evitare che essa si ripeta, le vorrebbero internazionalmente concertate e globali quanto a spazio d’applicazione. Crisi globale, risposta globale: lo slogan dei governi è questo, ed ha senso politico. “Consorziarsi”, cartellizzarsi, serve per condividere i rischi connessi all’emanazione di nuove norme, e schermarsi contro l’eventuale effetto-boomerang che nuove norme inadeguate, o sbagliate, potrebbero provocare (se sbagliamo tutti, non sbaglia nessuno).

Non troppo diversamente, e questo è l’aspetto su cui Kling si ferma, si vorrebbe un’altra “armonizzazione”: fra veicoli finanziari diversi (banche e non-banche). L’ipotesi è abbracciata entusiasticamente dai più, ma è necessario riflettere su due aspetti. Primo, come spiega bene Kling, un sistema di regole pone in essere una struttura di incentivi. Servono gli stessi incentivi per realtà intrinsecamente diversissime, come una banca e un hedge fund? Secondo, anche il regolatore deve “imparare” dalla realtà - ed avere una pluralità di regimi regolatori consente di vedere man mano quali sono quelli che si comportano meglio, e perché. Nei vasti dibattito sul senso della crisi e come uscirne, l’ampiezza dell’ambito su cui insisteranno le nuove regole è troppo spesso in ombra. Invece, dal prevalere di un sistema pluralistico e basato sulla concorrenza istituzionale, rispetto ad uno fondato sul valore dell’armonizzazione, potrebbe dipendere non poco, di quanto è in gioco al tavolo dei regolatori.

Alberto Mingardi mercato , , , ,