CHICAGO BLOG diretto da Oscar Giannino 2010-10-01T23:46:00Z WordPress /feed/atom/ Giovanni Boggero http://www.facebook.com/pages/Germanynews/85938485215?ref=ts <![CDATA[Il declino (annunciato) dei liberali tedeschi]]> /?p=7188 2010-10-01T23:46:00Z 2010-10-01T23:19:49Z Quando, esattamente due mesi fa, abbiamo pubblicato questo post sul futuro dei democristiani tedeschi, la bolla in casa FDP non era ancora esplosa. E sì perché, nel partito liberale, dopo il grandioso risultato di un anno fa, tira oggi una brutta aria. In meno di dodici mesi i Freidemokraten hanno letteralmente polverizzato il consenso, che aveva permesso loro di tornare sui banchi dell’esecutivo dopo 11 anni di opposizione: dal 14,6% giù in picchiata fino al 4-5%, ormai quasi fuori dal Bundestag. Non passa giorno senza che la leadership di Westerwelle venga criticata o messa in discussione, tanto che egli stesso pare abbia già pensato alle dimissioni da presidente dell’FDP. Ma anche la carica di Ministro degli Esteri e Vice-Cancelliere gli sta molto stretta. A differenza del suo predecessore, il socialdemocratico Steinmeier, Westerwelle non ha infatti tratto alcun beneficio dal ricoprire una posizione di alto profilo. Nella mente dei tedeschi c’è sempre il Guido delle campagne elettorali un po’ esuberanti e patetiche o il Guido che strilla contro i sindacati. Le elezioni del settembre 2009 non sono state altro che un’illusione ottica per chi- come noi- credeva che Westerwelle si sarebbe finalmente lasciato alle spalle una carriera fino ad allora magra e deludente.

D’altra parte i tedeschi che si recarono a votare per l’FDP lo scorso anno volevano meno tasse subito. Steuersenkungen. Questo era il motto semplice e trasparente dei liberali. Fin dalla distribuzione dei Ministeri tra le varie forze politiche, è parso tuttavia chiaro che il motto non avrebbe avuto seguito alcuno. Quando si seppe che al Ministero delle Finanze si sarebbe accasata l’eminenza grigia Wolfgang Schäuble (CDU) e non il Principe Hermann Otto Solms (FDP), molti elettori si resero conto che il Governo era giallo-nero, ma solo sulla carta. Al timone c’era sempre e solo una persona: Angela Dorothea Merkel.

In un anno di legislatura è difficile fare un bilancio delle cose fatte. Non una manovra è stata condivisa dall’opposizione: il pacchetto fiscale per “l’accelerazione della crescita” (!) dello scorso anno fu anzi l’inizio della fine. Come può un partito come l’FDP, che programma la rivoluzione fiscale, che urla “fate l’amore e non la dichiarazione dei redditi”, pensare che il cambiamento possa passare dall’aliquota IVA agevolata per ristoranti ed alberghi? Per carità, ogni riduzione fiscale, tanto più se l’imposta grava sul consumo, è sempre da accogliere con favore. Ma l’elettorato liberalconservatore, quello che non aveva gradito il quadriennio interventista della signora Merkel, si aspettava ben altro. A Westerwelle è mancato il coraggio. Ha sistemato i suoi in Ministeri di dubbia rilevanza, ad esempio quello per gli “aiuti allo sviluppo del Terzo Mondo”, la cui abolizione l’FDP aveva propagandato fino al giorno prima delle elezioni. Per non parlare degli aiuti alla Grecia e del cd. fondo di stabilizzazione; una figuraccia per un partito che si era opposto alle enormi iniezioni di denaro pubblico per le banche soltanto un anno prima. Guido è stato capace di fare la voce grossa solo con i giornalisti inglesi che parlano inglese in Germania, non con Angie. L’attacco ai costumi da “decadenza tardoromana” che regnano nell’era dello Stato sociale non è stato che un lampo retorico in un buio programmatico. Dopodiché Guido si è inabissato definitivamente, perdendo quel poco appeal che ancora gli restava. Neanche il fatto di essere omosessuale, leader di una “destra moderna” (come piace dire oggigiorno), lo ha aiutato. In Germania, a differenza che in Italia, delle sue tendenze sessuali si parla il meno possibile e queste non rappresentano né un’arma contro né un’arma a favore.

In questo declino che sa molto di tragedia greca, si inserisce il Liberaler Aufbruch (Risveglio liberale), un’iniziativa di un gruppuscolo di parlamentari, insoddisfatti da una FDP fiacca e arrendevole, che non trova “il coraggio di essere liberale”. Il manifesto della corrente, guidata dall’ormai noto esponente libertario Frank Schäffler, lo si è potuto leggere nelle scorse settimane sulle principali testate tedesche. Tra i riferimenti principali F.A. Von Hayek. E scusate se è poco. “In questi anni abbiamo fatto troppe concessioni al collettivismo”, si legge nel testo dei deputati. La reazione di molti liberali all’interno del partito e dello stesso Westerwelle è stata a dir poco scomposta. “Un collettivo di frustrati”, dice un membro del consiglio di presidenza del partito. “E’ solo un ritrovo di euroscettici, negazionisti del global warming e liberisti radicali. Dubito che ciò sia liberalismo”, soggiunge un altro. L’unico che invece potrebbe accogliere con favore un movimento del genere è Nigel Farage, leader dell’UKIP, il quale proprio l’altro giorno tornava a spronare i tedeschi a fondare un partito critico verso l’attuale costruzione europea.

In conclusione due previsioni sul futuro. Se è vero che un movimento liberista spinto in Germania rischia di avere il fiato corto, esattamente come un partito liberale senza nè arte nè parte come quello attuale, si può dire che l’unica speranza liberalconservatrice che non emani polvere e muffa nel centrodestra, al di là del giovane segretario generale dell’FDP Christian Lindner (molto svelto con la parola ma ancora troppo legato all’attuale dirigenza), si chiama Karl-Theodor Zu Guttenberg, un cristiano-sociale bavarese di ampie vedute, che vuole chiudere con la coscrizione obbligatoria in un partito tendenzialmente contrario, sensibile alle ragioni del mercato e abile stratega in politica estera, riuscito a cavarsi d’impaccio con maestria dall’imbroglio del raid di Kunduz e attualmente politico tra i più amati dagli elettori. Wait and see.

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Francesco Ramella http:// <![CDATA[Inquinamento: la diagnosi è sbagliata e la terapia non funziona]]> /?p=7183 2010-10-01T12:13:50Z 2010-10-01T12:04:37Z L’inquinamento atmosferico? È in aumento. Ne è convinta la stragrande maggioranza dei cittadini europei. Non potrebbe essere altrimenti. Siamo in grado di dire per esperienza diretta se fa caldo o freddo, ma non possiamo valutare autonomamente come si evolve la qualità dell’aria. “Sappiamo” ciò che apprendiamo dai mezzi di informazione. E questi, tranne rare eccezioni, ci ripetono da anni che la situazione volge al peggio.
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Giordano Masini <![CDATA[Ogm: la Conferenza delle Regioni e la dittatura della maggioranza]]> /?p=7177 2010-10-01T05:10:19Z 2010-09-30T17:19:16Z Mentre è già arrivata (ieri pomeriggio) la trebbia mandata dal Gip di Pordenone a raccogliere il mais del campo di Fanna di proprietà di Giorgio Fidenato (il racconto di Giorgio è sul sito del Movimento Libertario), mais che è stato essiccato e verrà custodito in un magazzino in attesa che si concluda l’iter giudiziario, oggi si sono riuniti gli assessori all’agricoltura della Conferenza delle Regioni e hanno ribadito che loro di linee guida per la coesistenza tra colture Ogm, biologiche e convenzionali non vogliono proprio sentir parlare, nonostante l’approvazione di queste linee guida sia necessaria per adempiere alle direttive comunitarie.

In realtà nei mesi scorsi una bozza di regolamento era stata presentata: le associazioni di categoria (tra le quali figurava, non si sa bene per quale ragione, anche Legambiente) l’hanno ricevuta il 16 di luglio perché presentassero le loro osservazioni in merito entro il 20 dello stesso mese (!). Il documento era abbastanza surreale, dato che si parlava solo di Ogm (nonostante dovesse tracciare le linee guida per la coesistenza di tre tipi di pratica agricola tutte egualmente legittime) e perché in realtà si preoccupava di vietare, in modo più o meno surrettizio, più che di disciplinare.

Distanze di sicurezza per il mais calcolate in chilometri (in Europa si arriva attorno ai 150 metri, in Spagna zero), corsi e patentini da conseguire, piani e registri aziendali da compilare, tasse regionali da pagare, e questo solo per la parte burocratica. Poi, andando avanti, (e ne tralascio molte) sarebbe previsto l’obbligo di usare macchinari e magazzini appositi dedicati esclusivamente agli Ogm e di rispettare un periodo di conversione di tre anni per chi volesse tornare dagli Ogm al convenzionale (anche semplicemente per normali cicli di rotazione colturale) nei quali il prodotto dovrebbe essere sottoposto ad analisi prima della commercializzazione, sarebbe considerato convenzionale ma dovrebbe rispettare le prescrizioni per gli Ogm.

E non è finita: le sanzioni per chi omettesse di seguire anche solo una di queste regole sarebbero calcolate nell’ordine delle decine di migliaia di euro, e, chicca finale, gli agricoltori che fossero tanto impavidi da cercare di seguire un regolamento del genere apparirebbero in un registro pubblico consultabile online, in modo da poter essere meglio individuati dagli amici di Zaia e di Greenpeace.

Il giochino del documento presentato all’ultimo momento non deve essere riuscito, qualcuno le sue osservazioni critiche deve essere riuscito a mandarle in tempo, quindi la Conferenza delle Regioni, nonostante la fretta iniziale, è andata avanti di rinvio in rinvio sperando che la cosiddetta direttiva Barroso, quella che consentirebbe ad ogni paese membro dell’UE di decidere in autonomia se ammettere o vietare gli Ogm, arrivasse in tempo per togliere le castagne dal fuoco. Ma la direttiva ancora non arriva, anzi aumentano su di essa le perplessità di quasi tutte le parti in causa a livello europeo, dato che in ballo c’è il rischio di dar vita ad un’Europa agricola a due velocità, e quindi oggi la Conferenza delle Regioni qualcosa doveva pur dire.

Abbiamo votato un ordine del giorno attraverso il quale chiediamo al ministro delle Politiche agricole di esercitare la clausola di salvaguardia ai sensi dell’articolo 23 della direttiva europea 18 del 2001.

La clausola di salvaguardia è ammessa solo in caso di evidenze scientifiche che dimostrerebbero la nocività di un prodotto per la salute umana o per l’ambiente, sembra dimenticare Dario Stefano, assessore all’Agricoltura della Puglia e coordinatore della Commissione agricoltura della Conferenza delle regioni, che continua

Allo stesso tempo abbiamo richiamato il ministro e quindi il governo a rispettare la posizione delle Regioni italiane, che hanno la delega all’Agricoltura, che è unanimemente contraria alla produzione di Ogm.

Evidenziando quindi come le dilazioni e i tatticismi dei mesi scorsi servivano solo ad uno scopo, riuscire a vietare anche in presenza di un diritto comunitario che non consentirebbe di vietare, ma solo di disciplinare. In tutto ciò le parole di buon senso di Galan, ribadite anche oggi nel question time a Montecitorio, sembrano essere destinate a rimbalzare su un muro di gomma: il principio secondo il quale una maggioranza sarebbe legittimata a mortificare le libertà fondamentali degli individui, arrivando a stabilire ciò che è legittimo e ciò che non è legittimo produrre (basandosi esclusivamente su valutazioni di carattere economico, e come tali assolutamente arbitrarie) sembra essere ormai sufficientemente consolidato.

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Carlo Stagnaro http:// <![CDATA[Fincantieri. Non sappiamo né il giorno né l’ora, ma sappiamo che quel giorno e quell’ora arriveranno]]> /?p=7175 2010-09-30T08:08:40Z 2010-09-30T08:08:40Z Tra smentite, richieste e mezze promesse di nuove commesse pubbliche, dietrofront, rassicurazioni e manifestazioni, l’unica cosa certa per Fincantieri sono i conti. Nel primo semestre 2010 i ricavi sono scesi del 10,7 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In flessione sono pure tutti i principali indicatori finanziari, e se il portafoglio ordini non è vuoto, non è neppure pieno abbastanza: gran parte degli impianti restano sotto utilizzati e la parola più ricorrente dentro le fabbriche è ancora “cassa integrazione”. Non tutti i rischi, dunque, sono stati scongiurati: forse perché non potevano essere scongiurati.

All’origine di questa tempesta ci sono le indiscrezioni – smentite – sul Piano industriale 2010-2014 che, per far fronte a una crisi che è contemporaneamente strutturale e congiunturale, avrebbe previsto 2.500 esuberi, la chiusura di due stabilimenti (Riva Trigoso e Castellammare di Stabia) e un’accelerazione nel graduale processo di riposizionamento del baricentro del gruppo dalla sponda tirrenica a quella adriatica (compresa l’accentuazione dei poteri decisionali a Trieste). Le interpretazioni più politiciste leggono in questa vicenda un “carotaggio” voluto dal management per saggiare le reazioni a una serie di provvedimenti che, almeno in parte, tutti sanno essere inevitabili; altri ancora vi vedono l’ennesima prova dell’influenza leghista, determinata a attirare o trattenere investimenti pubblici nelle zone elettoralmente più generose.

Può esserci del vero in queste interpretazioni, ed è sicuramente politica la scelta (se sarà fatta e nella misura in cui è già stata fatta) di portare la testa e il sistema nervoso di Fincantieri da Genova a Trieste. E’ politica anche la decisione – posto che si debbano chiudere degli impianti – di farlo a Riva e Castellammare anziché, poniamo, ad Ancona. Ma dietro queste scelte politiche c’è una razionalità industriale che è difficile negare: se la si nega, le cose non potranno che andare peggio. Soprattutto per quei lavoratori che continueranno a cullarsi nell’illusione di un posto per la vita.

La razionalità, dicevo, sta nel contesto di una crisi che è congiunturale per la cantieristica, e strutturale per Fincantieri. L’effetto della congiuntura è evidente nel bilancio 2009 (che del 2010 è solo l’antipasto): gli ordini sono in calo del 30 per cento rispetto al 2008, gli investimenti di un quarto, i margini dell’11 per cento. In crescita, soltanto indebitamento (più 135 per cento), passivo di cassa (circa raddoppiato), e il personale: che cresce del 15 per cento a causa dell’acquisizione di Fincantieri Marine Group ma, se si considera la sola capogruppo, è anch’esso in lieve calo. Per questo è alquanto bizzarro che la classe politica ligure (e, suppongo, anche quella campana) abbia accolto le indiscrezioni sul (falso?) piano industriale come un fulmine a ciel sereno. Il fulmine può esserci stato, ma il cielo era burrascoso da almeno quarant’anni.

Del possibile accorpamento degli stabilimenti liguri di Riva Trigoso e Muggiano si parla da decenni. E’ un tormentone che si ripresenta ogni volta che il barometro economico internazionale segna cattivo tempo. Finora, la baracca si è mantenuta in piedi grazie all’uso delle commesse militari in funzione anticiclica, non senza che nel periodo più recente si siano superati un difficile processo di efficientamento e lo sviluppo di produzioni di nicchia (navi da crociera e super yacht). Durante le crisi precedenti, il calo congiunturale veniva controbilancianto con le commesse pubbliche. Oggi questo non è più possibile, perché l’Italia non è in procinto di muovere guerre (e dunque se la può cavare con la flotta che ha), e soprattutto perché sono venute meno le due fondamentali leve attraverso cui il meccanismo veniva finanziato. La sovranità monetaria si è spostata a Francoforte, sicché non esiste più il bottone dell’inflazione; mentre i vincoli del bilancio pubblico impediscono di incrementare il deficit, e dunque per costruire nuove navi militari dovremmo rinunciare ad altre spese che comunemente sono considerate più importanti, come quelle per la sanità, l’istruzione e le pensioni. Per giunta, molti interventi strutturali sono stati già portati a termine, come il trasferimento della sede per la cantieristica da Genova a Trieste negli anni Ottanta e il feroce taglio dei costi. Questi si sono ridotti di circa il 40 per cento, nell’ultimo decennio, soprattutto attraverso il ricorso massiccio ad appalti esterni e l’ingresso di manodopera straniera.

E’ in quest’ottica che vanno visti anche i bilanci degli esercizi precedenti, nei periodi di vacche grasse. Le commesse pubbliche non sono mai mancate, e hanno fatto da base – anche per la, uh, chiamiamola disponibilità della Difesa a ritirare le navi in ritardo e senza troppe pretese – per un rilancio che è avvenuto soprattutto grazie alla capacità di Fincantieri di re-inventarsi come soggetto capace di stare al passo coi tempi. Venendo meno il driver di mercato, il gruppo si è istanteamente ritrovato in un passato non troppo remoto. Venendo meno – complice il rigore tremontiano – il supporto pubblico, la bolla Fincantieri è, se non scoppiata, quasi. Così, siamo allo stesso punto in cui ci trovavamo negli anni Novanta: l’azienda non regge e, dato l’outlook macroeconomico, rischia di non avere il fiato per arrivare alla ripresa.

La peculiarità del 2010, rispetto alle crisi precedenti, è appunto questa: il danno della recessione non può essere tamponato né con misure di efficienza (perché in buona parte già implementata), né facendo appello al buon cuore del Tesoro, né liberandosi di lavoratori prossimi alla pensione (già congedati tra prepensionamenti normali, speciali, e all’amianto). Se queste sono le condizioni al contorno, le mosse previste dal piano industriale “fantasma” sono, almeno in prima approssimazione, una risposta possibile.

In questo senso, c’è oggettivamente poco da fare. E’ sempre meglio un’azienda più piccola ma viva, di una grande, grossa e morta. Se i politici liguri e campani e i rappresentanti dei lavoratori non si schiodano dall’ostinata difesa dell’esistente, il crollo potrà forse essere rimandato, ma non evitato – almeno se il management è davvero convinto che questa sia la strada da percorrere. Meglio, allora, concentrarsi sui margini negoziali veri, che riguardano essenzialmente due aspetti: le modalità e i tempi del ridimensionamento. Senza dimenticare, però, che la proprietà pubblica è anche in questo caso un impaccio, perché finisce per politicizzare una scelta tecnica e industriale, fa sì che tutto venga sempre buttato in un indistinto “tengo famiglia”. E’ un’illusione, e lo è sempre più, ma è un’illusione difficile da sconfiggere. Dunque: privatizzare è necessario, come premessa per un ordinato svolgimento delle razionalizzazioni.

Partiamo dalla tempistica: forse, Fincantieri sarebbe disposta a barattare la pace sociale con un allungamento delle scadenze, per esempio rimandando il D-Day dal 2014 al 2016 o 2018. In questo modo, si potrebbe contenere l’emorragia occupazionale, sia accompagnando i dipendenti più anziani (quelli che restano) alla pensione, sia trovando soluzioni per trasferire gli altri verso gli stabilimenti più promettenti, sia incentivando uscite volontarie (sulla falsariga dell’accordo Telecom di agosto). Si potrebbero, così, minimizzare i licenziamenti unilaterali: ma, dati i numeri, è possibile che alcuni restino, senza contare l’impatto sui fornitori e l’indotto.

Qui si aprirebbe uno spazio dove una politica responsabile vedrebbe esaltato il proprio ruolo non già in quanto colonna reggente, ma crepata, dello status quo, bensì come soggetto incaricato di gestire la transizione. Qualche suggerimento, di cui il ceto politico dovrebbe far tesoro, sta nel programma elettorale di Filippo Penati, candidato del centrosinistra alla regione Lombardia. In quelle pagine, il giuslavorista e senatore Pd Pietro Ichino, adatta alla normativa vigente la sua proposta di riforma del mercato del lavoro. All’azienda viene chiesto di destinare una parte del vantaggio economico ottenuto con la maggiore flessibilità di fatto (seppure a diritto vigente) alla copertura del costo sociale derivante dalle loro scelte. Essa, cioè, dovrebbe impegnarsi a erogare servizi per la riqualificazione del lavoratore licenziato e la ricerca di un nuovo impiego (col contributo della regione); interamente a carico dell’impresa sarebbe, invece,

un congruo indennizzo economico al lavoratore licenziato e un congruo trattamento complementare di disoccupazione, che costituirà anche un potente incentivo all’efficienza dei servizi di ricerca e riqualificazione mirata: più sarà rapida la rioccupazione dei lavoratori, minore sarà il costo del trattamento complementare.

La logica di questo approccio è difendere i lavoratori, creando per loro degli “scivoli” e aiutandoli trovare una nuova, e più produttiva, occupazione. Al contrario, la tentazione di salvaguardare gli attuali stabilimenti senza riguardo alla competitività può avere costi sociali assai più consistenti dei benefici. Infatti, per mantenere livelli occupazionali altrimenti insostenibili, si rischia o di dissestare le finanze pubbliche (come nel passato), oppure di trovarsi a gestire un crollo improvviso. Il conflitto lascia solo macerie. Quella della responsabilità e della lungimiranza è una via stretta e irta di ostacoli, ma almeno non porta dove finiscono i sentieri lastricati di buone intenzioni. La smentita del piano industriale 2010-2014 non cancella le ragioni di una riorganizzazione. Bisogna augurarsi che politici e sindacalisti usino bene il tempo a loro disposizione, senza farsi trovare impreparati a un appuntamento di cui non sappiamo né il giorno, né l’ora. Ma che sappiamo prima o poi ci sarà.

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Guest http:// <![CDATA[La grammatica dell’oro]]> /?p=7171 2010-09-29T10:09:52Z 2010-09-29T10:09:52Z Riceviamo da Gerardo Coco e volentieri pubblichiamo

Le politiche di stimolo all’economia americana, la generale instabilità delle valute, la crescita dei debiti sovrani e la persistenza della crisi economica sono i fattori che hanno portato la quotazione dell’oro sopra 1300 dollari. Poiché questi fattori perdureranno il prezzo dell’oro è destinato ad aumentare inesorabilmente. Ricordiamo che negli ultimi dieci anni il suo prezzo è quasi quintuplicato ed è raddoppiato dall’inizio del 2008 ad oggi, cioè da quando sono iniziate le politiche inflazionistiche per i salvataggi finanziari e bancari sia negli USA che nell’eurozona. Il prezzo del l’oro è il voto di sfiducia  nei confronti di governi che spendendo, indebitandosi e creando inflazione provocano l’inarrestabile deprezzamento delle valute. A questo riguardo l’ascesa dell’oro può essere interpretata considerandolo come moneta ombra e il suo prezzo come un tasso di cambio rispetto alle valute officiali. In altre parole l’oro, nonostante la sua completa demonetizzazione avvenuta quaranta anni fa, rappresenta ancora il denaro vero, lo strumento di pagamento e di estinzione definitiva dei debiti. Sta qui la forza del metallo giallo. Se in questi ultimi anni le aziende e i privati avessero convertito i propri bilanci in oro avrebbero avuto l’immediata e drammatica rivelazione dell’annacquamento che ha subito la ricchezza espressa nelle proprie monete di conto.

Quando una volta si parlava di “moneta” si faceva riferimento ad un bene economico, cioè ad una ricchezza prodotta.

Infatti al fine di misurare il valore dei beni economici e dunque di qualsiasi ricchezza, occorre necessariamente produrre un bene dotato di valore che diventi lo strumento di valutazione di tutti gli altri beni. L’oro era quel bene economico che raccogliendo in più larga misura i requisiti più importanti dello scambio divenne l’unità pecuniaria di riferimento e la misura di tutti valori. Questa sua funzione non sorse per convenzione o per intervento dello Stato ma fu il libero mercato, in un lungo processo storico, a selezionare questo metallo come il mezzo più idoneo e razionale per stabilire l’equivalente di ogni scambio, una misura sempre uguale e uniforme dei valori dei beni che la permuta o baratto nelle economie individuali, non permetteva. Affinché un sistema economico basato sulla divisione del lavoro si doti di una misura certa e stabile della ricchezza che produce, bisogna che ne consacri una parte alla circolazione e tale porzione deve possedere oltre alla caratteristica della utilità (ad es., industriale), quella della rarità. Così funziona la teoria del valore.

L’oro è quella forma di ricchezza utile e rara, rispetto alle quale tutte le altre ricchezze ancora oggi possono essere valutate e quotate.

Che sia stato l’oro ad assolvere in modo ottimale la funzione di mezzo di scambio fu dovuto alle caratteristiche di questo metallo: divisibilità, incorruttibilità, trasferibilità, riconoscibilità e infine un alto valore specifico poco variabile. L’oro è il metallo eterno portavalori nel tempo e nello spazio. Altri beni rari avrebbero potuto svolgere un ruolo monetario, ad esempio i diamanti, ma se essi si spezzano perdono il loro valore e non si possono dividere o fondere. Metalli come rame e nickel pur avendo requisiti monetari mancano di quello della rarità. La caratteristica più importante dell’oro è la stabilità del valore, il suo potere d’acquisto rispetto a tutti gli altri beni: esso non cambia la posizione reciproca dei contraenti e questo e tanto più importante quando ci si riferisce a contratti a lunga scadenza. 

E’ chiaro che tutti questi requisiti non possono essere la prerogativa delle monete fiduciarie in quanto esse non sono beni economici, cioè ricchezza prodotta, ma pezzi di carta a corso forzoso riproducibili senza limiti e pertanto, non superando il test della rarità, il loro valore è destinato ad evaporare come l’alcol.

Quando Nixon nel 1971 decise di sganciare il dollaro dall’oro, Milton Friedman predisse che il prezzo del metallo sarebbe crollato perché, pur permanendone la domanda per usi industriali, in assenza di una domanda monetaria, l’enorme stock d’oro esistente accumulatosi nei secoli ne avrebbe depresso il prezzo. Naturalmente si sbagliava e, negli anni 70 fu il dollaro a crollare mentre l’oro mantenne il suo valore. Friedman commise l’errore di credere che l’oro derivasse il suo valore dal dollaro mentre è vero proprio il contrario, perché il dollaro come qualsiasi altra valuta non è un bene economico ma una semplice unità di conto il cui valore è determinato dalle autorità monetarie e non dal mercato. L’oro, dunque ha conservato nel tempo la sua funzione di moneta anche se non in modo ufficiale.

Tuttavia, per quanto l’oro sia stata l’unità di valore di riferimento monetaria più stabile, non è un valore assoluto perché essendo un bene economico, il suo valore corrente è soggetto alle oscillazioni della domanda ed offerta. Ma esso differisce rispetto agli altri beni perché il supremo regolatore del suo valore è il suo valore normale, cioè l’elevato costo di produzione necessario per ottenerlo e verso cui tende sempre a ritornare. Il suo valore corrente, pertanto non può discostarsi in modo permanente dal suo costo di produzione. Infatti, in un contesto di circolazione metallica, se il valore dell’oro fosse superiore ai costi necessari per ottenerlo, una parte del capitale attratta dai profitti eccezionali si dirigerebbe verso l’industria di estrazione del metallo, ma facendone aumentare l’offerta, ne ribasserebbe il valore al livello del costo di produzione. Se, al contrario, risultasse inferiore a questo costo, nell’industria mineraria non si otterrebbero guadagni e l’offerta del metallo subirebbe una contrazione che ne farebbe risalire il valore. In sostanza in un regime aureo le variazioni del valore corrente dell’oro non avrebbero conseguenze diverse da quelle delle variazioni di qualsiasi delle migliaia di beni la cui produzione non è controllata dagli Stati ma è determinata dal libero mercato.

Tuttavia essendo costoso ad estrarsi, l’oro rappresentava un capitale distolto da altri usi produttivi più utili ed urgenti per l’economia per cui l’ideale era ottenere il massimo degli scambi con la minima quantità possibile di metallo. Per questo motivo nel passato si creò il biglietto di banca che fungeva da titolo di credito per il portatore nel senso che la banca si obbligava a pagargli oro dietro presentazione della banconota. Era ovvio che la banca per fronteggiare le richieste di conversione dovesse tenere una proporzione adeguata di riserva in metallo. Per cui la banconota pur non essendo il mezzo di pagamento definitivo, caratteristica esclusiva dell’oro, assolveva comunque alle sua funzione monetaria. Quando questo sistema di riserva aurea fu eliminato gradualmente al solo scopo di permettere allo Stato di espandere senza limiti la spesa pubblica e di indebitarsi per poi estinguere i debiti con denaro svalutato, ebbe inizio l’era dell’inflazione permanente, del deprezzamento delle valute, delle crisi e della distruzione del potere d’acquisto. Il denaro divenne l’attributo della sovranità degli Stati e non più del mercato e lo stock di moneta senza un valore intrinseco fu gestito monopolisticamente dalle Banche Centrali. Si volle far credere che l’oro era un relitto storico, che non dava garanzie di stabilità, che provocava deflazione e che il mercato monetario sarebbe stato più efficiente se guidato dai burocrati. Ma i fatti hanno dimostrato esattamente il contrario. L’oro è stata la moneta più stabile nella storia altrimenti non avrebbe svolto questa funzione per 3000 anni permettendo lo sviluppo della civiltà (l’impero bizantino durò 1000 anni e fu il più lungo periodo di stabilità monetaria della storia umana dopo che nel III secolo  l’impero romano d’occidente aveva tolto l’oro dalla circolazione, crollando poi nel IV secolo). L’apice del gold standard dell’era moderna durò cento anni dal 1815 dalla fine delle guerre napoleoniche, al 1914, all’inizio della prima guerra mondiale quando le banche commerciali sospesero la convertibilità in oro perché si doveva finanziare la guerra attraverso l’inflazione. Questo periodo è noto come la seconda rivoluzione industriale finanziata, per così dire, dal sistema aureo. Infatti i grandi incrementi di produttività che non furono vanificati dall’inflazione, consentirono la discesa dei prezzi e lo sviluppo di capitali. Pertanto la deflazione, che viene confusa, con conseguenze drammatiche, con la discesa dei prezzi, e che significa invece crollo dei profitti, riduzione della liquidità, incapacità di ripagare i debiti, è proprio quel fenomeno che l’uso dell’oro monetario ha sempre contrastato.

Ma questo non verrà mai ammesso dagli stati, dalle banche centrali e dalle burocrazie internazionali cioè a coloro a cui interessa il mantenimento dello status quo e che vedono nell’oro una minaccia: la restrizione del proprio potere e della capacità di spesa per prosperare alle spalle di chi produce.

Le crisi ormai sono un fenomeno endemico perché si vuole ignorare la scienza economica e il suo cardine, la teoria del valore.

Voltaire una volta disse che, fino a che le persone crederanno alle assurdità, continueranno a commettere atrocità. E lo scenario atroce che si profila non è solo la progressiva perdita del potere d’acquisto del denaro che si accompagnerebbe anche alla progressiva restrizione della libertà economica culminante con la confisca degli attivi e dei risparmi privati de jure and de facto a seguito dei default dei governi. L’altro aspetto sinistro dello scenario è che ormai il debito degli stati è così elevato che può essere risolto solo con un default. In altre parole il debito non può essere più pagato perché non esiste il mezzo di pagamento per estinguerlo. Si ha dunque urgentemente bisogno che il denaro torni ad essere prodotto dal mercato perché l’ipertrofia e la disfunzione dei governi sono incompatibili con le valute forti e “oneste”.

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Leonardo Baggiani www.ideashaveconsequences.org <![CDATA[Studiare per lavorare… o far lavorare]]> /?p=7163 2010-09-29T07:08:41Z 2010-09-29T07:08:41Z Tra poco scade l’appuntamento con l’Agenda di Lisbona, e vedremo quanti Paesi hanno davvero fatto dei passi avanti verso un’Economia della Conoscenza, in cui è considerato essenziale l’aumento della quota di laureati in quanto segno di incremento di capacità lavorativa ad alto livello; è plausibile che una tale “superiore” capacità lavorativa sia più remunerativa per l’economia intera, permettendole di rispondere alla potenza manifatturiera degli “emergenti” puntando su settori diversi. Intanto L’OCSE divulga un po’ di dati che riguardano anche parte del 2009: i laureati aumentano, guadagnano più dei non-laureati, e risentono meno dell’aumento della disoccupazione; questo ovunque, tranne che in Italia.

A quanto si legge, un po’ in tutto il mondo l’istruzione terziaria ha aperto canali para-universitari professionalizzanti. In Italia invece tale formazione è “dispersa” tra le riforme dell’istruzione secondaria (istituti tecnici) e titoli triennali universitari. Dobbiamo quindi pensare che fino a pochi anni fa, a parte la buona volontà di singoli docenti, non ci fosse niente di “professionalizzante” (sensazione che ogni mio collega ragioniere e parte dei miei colleghi universitari ha avuto). Personalmente non so quanto debba essere professionalizzante l’università, ma pretenderei lo fossero sicuramente le varie “specializzazioni” e corsi “post-laurea” così come un istituto tecnico che pretende di formare “periti”. In Italia si è di fronte, pare, ad un incremento di lauree di dubbio valore scientifico e poco apprezzate sul mercato del lavoro; l’incremento dei laureati non rappresenta pertanto un effettivo “valore” per il Belpaese, che quindi resta e resterà indietro nello sviluppo economico. È con questo che l’OCSE spiega l’anomalia italiana sulla disoccupazione: solo in Italia la crisi ha mietuto più vittime tra i laureati che tra i non-laureati, perché in Italia il disallineamento tra titolo conseguito e aspettative occupazionali è massimo.

L’OCSE non lo dice, ma lo dico io: in Italia praticamente si studia di più e si creano più indirizzi per favorire il lavoro solo degli insegnanti. La colpa di questo non può essere (solo) di un Ministro dell’Istruzione: c’è dentro tutta la gerarchia e struttura scolastica, l’insipienza non sanzionata di molti insegnanti, il controllo centrale sui programmi, ma pure la disonestà di dipingere un’Italia come potenza tecnologico-scientifica mondiale quando tutto quel che realmente viene sostenuto è la bassa manifattura.

Le classi più mature non sono facilmente recuperabili sul piano dell’istruzione. Politicamente è un grosso problema dir loro “arrangiatevi”, e così lo Stato vede di tutelarle, il che si è tradotto in Italia con il permettere loro di continuare a fare lo stesso lavoro proteggendo e salvando i settori interessati. Direi che questa è un’ottima ragione per la “stasi” indotta in Italia da subdole politiche industriali (si parla tanto dell’assenza di una politica industriale ma, come ho sostenuto qui, se ne può rintracciare per fatti concludenti una che da decenni mantiene invariata la struttura industriale). D’altra parte la “stasi” di una struttura economica imperniata su certa manifattura implica la non-necessità di alti livelli di istruzione, e da questo deriva anche il deprezzamento del merito a favore della pratica e della relazione (qui il ragionamento più in esteso). L’istruzione così perde una forza “trainante”, la “domanda di competenze”, e finisce per avvilupparsi su se stessa cedendo alle logiche burocratiche. È per questo che dico che in Italia si studia non per il proprio lavoro futuro ma per far lavorare gli insegnanti (e magari finendo anche per far lavorare i Paesi esteri che sanno accogliere le capacità di ex studenti italiani).

A corollario va ricordato che in una fase di crisi tendenzialmente (cioè a parte la non perfetta selettività del bust e le solite distorsioni statali) tendono a uscire dal mercato le competenze meno importanti e essenziali; dalla tradizione economica austriaca, o da qualsiasi teoria che non ragioni in termini di “valori oggettivi”, sappiamo che un qualsiasi bene ha un valore in relazione all’impiego che ne può essere fatto nell’economia, pertanto un fattore produttivo che è utilizzato per produzioni di poco valore (o che non è affatto utilizzato) avrà conseguentemente un valore basso (o nullo). Ad esempio, se la struttura produttiva è basata sui braccianti, una laurea in economia dei mercati finanziari o in fisica nucleare non vale nulla, ma vale molto la forza fisica. Per tornare a quanto detto dell’istruzione italiana, se questa è (come non le rimane che essere) subordinata a logiche diverse dall’assecondare l’economia, chi è “forte” di istruzione è il primo a restare disoccupato perché appunto “forte” in qualcosa di “inutile”. Che poi questo si traduca soprattutto in disoccupazione giovanile è logico, perché i più istruiti e con meno esperienza (e l’esperienza è una delle cose più importanti in un contesto “statico”) sono i giovani, che quindi sono quelli che “valgono meno” e i primi a venir scartati. Così io mi spiego i dati OCSE in un modo che nessun canale di informazione ufficiale avrà mai il coraggio di fare.

Il modo in cui è letta l’Agenda di Lisbona, per lo meno in Italia, è “create gente istruita, ché loro faranno crescere il Paese”. La realtà è che il mondo sta avanzando, prima il solo occidente ora sempre più anche gli emergenti, verso attività a crescente contenuto di informazione e conoscenza su cui l’istruzione ha un ruolo decisivo, un livello industriale da “occupare” perché gli altri, i più “labour-intensive”, vengano naturalmente (per la teoria dei vantaggi comparati) coperti da Paesi meno sviluppati; per questo far crescere l’istruzione è necessario. E questo è vero in un Paese che è disposto a cambiare. Ma l’istruzione è un fondo, a livello di Paese, una necessità che viene espressa con l’avanzare stesso dell’economia (che deve essere economia “aperta” alle innovazioni anche dall’esterno). Mille ingegneri in più non sono mille brevetti, ma 999 persone capaci di gestire un brevetto da cui emergono mille aziende che hanno bisogno di gente capace. L’imprenditore traina, l’istruzione asseconda, e come una corda tira dietro l’economia. Ma in Italia, si è visto, non c’è vero spazio per l’innovazione o per mettere in discussione l’esistente, e quindi per una vera imprenditoria.

E non si può spingere una corda.

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Oscar Giannino http:// <![CDATA[Il silenzio sul patto di stabilità europeo]]> /?p=7161 2010-09-28T17:23:59Z 2010-09-28T17:23:59Z L’Italia ufficiale ha la testa a quanto domaniaviene in parlamento, dopo due mesi di rodeo che ha dissipato gran parte di quel po’ di credibilità che questo governo aveva conquistato evitando quanto meno all’Italia di finire sulla graticola nella crisi dell’eurodebito. La vicenda non mi appassiona, ho sin qui anche per radio praticamente evitato di occuparmene. E’ un raro ma emblematico caso di totale mancanza di consapevolezza di quali possano essere le serie priorità di un Paese. E, per quanto mi riguarda e qualunque sia la verità sui 40 metri quadri a Montecarlo, mostra che qualunque sia la forma di governo da noi la storia della Fronda francese è un eterno classico, principi  in lotta contro re nella convinzione di dover ereditare il regno, ma a costo di rovinare il regno una volta che si smarrisce il senso delle proporzioni e della misura. Ai nostalgici della Prima Repubblica, ricordo che era l’esatto copione della lotta tra correnti Dc, e che di quella inedia di governo sono figli debito e discredito italiano. Forse è anche per questo, che in Italia stamane solo il 24 ore come giornale finanziario, e la Stampa, dedicavano attenzione all’Ecofin fuor da ristretti articolini nelle pagine di economia. L’Europa non è affato uscita dall’allarme della crisi che ne ha attanagliato significato e futuro da febbraio a maggio, eppure quasi nessuno s’interessa al nuovo Patto di stabilità europeo che dovrebbe fissare le nuove regole comuni per evitare di precipitare nel baratro. Penso sia un grave errore. E non mi convince affatto la posizione assunta dall’Italia. Da mesi abbiamo lasciato qui sulla vetrina del blog un videoeditoriale sul patto di stabilità, in cui sottoloineavo che l’Italia faceva bene a puntare i piedi perché nel calcolo del debito fosse compreso non solo quello pubblico ma anche quello delle famiglie. Detto questo, puntare insieme alla Francia a sanzioni deboli e discrezionali significa non capire quanto debole resti la capacità decisionale della poitica italiana, in asenza di vincoli stringenti, su deficit e debito pubblico.

Prima di entrare nel merito, una semplice questione di metodo. Perché Comuni, Province e Regioni hanno giustamente – dopo molte riottosità- dovuto sottoporsi alle decisioni assunte dal governo in materia di rispetto del patto di stabilità interno, con norme nuove come il rientro coatto del deficit sanitario e il relativo comissariamento, e norme stupide come il divieto ai Comuni virtuosi di riutilizzare nell’esercizio successivo per opere pubbkiche  gli avanzi di bilancio ristornati? Perché o Tremonti faceva così, oppuire la finanza pubblica italiana continuava a fare acqua in periferia malgrado le toppe poste alle paratie dello scafo centralista, e la pressione fiscale elevatissima. La domanda è allora: perché le Autonomie devono ccettarlo dal centro, mentre il governo centrale non deve accttare una disciplina altrettanto ferma e automatica imposta dall’Europa?

Ho due risposte secche. Nel merito, non accettare norme europee di correzione automatica di deficit e debito  è un errore. Nel metodo, penso anche che sia sbagliato, battersi insieme alla Francia contro Germania, Olanda, Regno Unito e BCE a favore del fatto che la discrezionalità delle sanzioni dipenda da maggioranze politiche in sede di Consiglio europeo.

Credo che l’Italia avrebbe dovuto coraggiosamente fare una scelta diversa. Abbracciare l’idea di ssere pronta a far scendere il proprio debito pubblico anche di 3 o 4 punti l’anno come regola standard per diversi anni: avrebbe imposto nuobve dismisisoni di patrimonio pubblico, e operazioni straordinarie sul debitop che sono assoluitamente necessarie oltre che più che possibili, senza ricorrere a finanza creativa. Le operazionidi dismisisone sono le classiche manovre di accompagnamento necessarie a conforto di un cambio di sistema fiscale – come quello comunque in corso atribuendo autonomia impositiva e responsabilità di spesa alle Autonomie – e vieppiù lo sarebbero qualora si andasse a una seria manovra di ridimensionamento delle aloiquote marginalie  e mediane e del totale reale di spesa pubblica sul Pil come noi pensiamo necessario per avere più crescita, più libertà e meno Stato corrotto e corruttore. In più, l’alleanza coi Paesi seri e rigorosi avrebbe levato argomento alle pretese tedesche di essere unico pivot di quest’Europa senz’anima, che con regole deboli resterà ancor più debole e con minor crescita, peggio esposta ai venti del’instabilità e priva ancor più di una politica di stabilità non solo comune, ma, soprrattuto, davvero operante.

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Carlo Lottieri http:// <![CDATA[Tre ragioni per dire “no” al rinnovo degli incentivi]]> /?p=7157 2010-09-30T07:31:06Z 2010-09-28T14:43:33Z Pare che i soldi che la scorsa primavera lo Stato ha messo a disposizione quali contributi a una serie di settori produttivi (motocicli, nautica, gru, macchine agricole ecc.) non sempre abbiano attirato i consumatori, a cui gli incentivi certamente piacciono, ma non per questo sono pronti a disfarsi del vecchio elettrodomestico solo perché c’è un finanziamento pubblico. Insomma, in qualche settore le risorse sono scomparse in pochi giorni (come nel caso dei motorini), mentre in altri casi (i macchinari ad alta efficienza energetica, ad esempio) si è ben lungi dal raggiungere un pieno utilizzo dei finanziamenti. Ma invece che limitarsi a prendere atto della cosa, il governo sembra intenzionato a rilanciare, destinando il denaro risparmiato ai settori che si sono “comportati meglio”.

Non vorrei farlo, e mi vergogno un poco, ma sono proprio costretto a ripetere le solite argomentazioni che ogni persona di buon senso (non c’è bisogno di essere liberali) richiama dinanzi a una scelta tanto irrazionale come quella di stanziare incentivi a favore di questo o quel settore produttivo. Tra i molti argomenti che si potrebbero toccare ne ho scelti tre: uno di ordine morale, uno economico e uno politico.

1. Sul piano etico, gli incentivi al consumo rappresentano una sottrazione di denaro ad alcuni (i contribuenti nel loro insieme) a favore di altri (i produttori di quei beni specifici e i consumatori che li acquistano). Molto semplicemente, si tratta di una rapina legalizzata che non ha alcuna giustificazione. Se vi è chi sia persuaso dell’esistenza di una qualsivoglia eticità in tutto ciò, sono ovviamente pronto a prestare attenzione alle sue parole, ma mi pare difficile che i suoi argomenti possano riuscire persuasivi.

2. Dal punto di vista economico, poi, la scelta è disastrosa per una serie di ragioni. In primo luogo, gli incentivi alterano il sistema informativo dei prezzi e quindi inducono a compiere scelte che, in loro assenza, non si sarebbero fatte. Un esempio può essere utile. Immaginiamo che, in assenza di distorsioni, io sia orientato a comprare un motorino usato. Potrei destinare anche più risorse e comprare un moto di grossa cilindrata e nuova, ma in realtà (per le mie esigenze) un piccolo ”due ruote” motorizzato e di seconda mano va benissimo. Al tempo stesso, però, se un ente pubblico è pronto a darmi altri mille euro in voucher affinché compri una moto nuova, il comportamento muta immediatamente. Sebbene non abbia bisogno di destinare tante risorse in quella direzione, siccome solo una quota viene da me sarei davvero economicamente irrazionale se non ne approfittassi.

L’esempio è triviale, ma l’alterazione per via politica dei comportamenti economici individuali (nel caso specifico: incentivando taluni consumi e disincentivando il risparmio) produce conseguenze rilevanti che abbiamo tutti sotto gli occhi. Pensate a un’azienda edile che avrebbe bisogno al tempo stesso di una scavatrice e di una gru, ma della prima più della seconda. Se però acquistando una gru una parte significativa della spesa è sostenuto dai contribuenti, è possibile che l’impresa faccia la scelta “sbagliata”. Moltiplicate tutto questo per mille o per un milione e avrete il caos irrazionale prodotto dalle innumerevoli interferenze fiscali, normative e politiche che gravano sull’economia del nostro tempo. (Perfino talune quotazioni di borsa, poche ore fa, ha subito alcuni sommovimenti che hanno la loro origine nell’attivismo governativo, con il titolo Piaggio schizzato in alto dopo gli annunci del rinnovo dei fondi per i motocicli).

3. L’ultimo rilievo riguarda la politica, poiché la devastazione in tale ambito derivante dalla logica degli incentivi è chiara a tutti. Quello che viene meno è il confine tra impresa e legislazione, tra economia e potere, con il risultato che se si è alla testa di un’azienda diventa assai più ragionevole investire tempo, risorse e attenzioni nell’influenzare le decisioni del governo, invece che nel curare la qualità delle produzioni stesse.

Ecco: i politici possono farsi belli elencando le oltre 70 mila cucine componibili vendute anche grazie agli incentivi, e poi gli oltre 20 mila motorini, i 1.300 prodotti per la nautica (tra motori e stampi per scafi) e via dicendo. A ben guardare, è solo un insieme di errori morali, economici e politici, che non hanno certo aiutato l’Italia, ma hanno solo aggravato una situazione complessiva tutt’altro che facile.

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Oscar Giannino http:// <![CDATA[L’invettiva di Penati sul caso Rep-Prof]]> /?p=7153 2010-09-27T10:51:44Z 2010-09-27T10:45:38Z Ogni tanto ci vuole. Una sana invettiva che svuota i polmoni e scarica le meningi, collassa le endorfine e ripristina l’equilibrio metabolico. Tipo quella diAlessandro Penati oggi su Repubblica, che purtroppo non lo linka se non a pagamento, dunque se non l’avete letto qui solo una sintesi. E’ una replica invettivista all’intervista che Cesare Geronzi ha rilasciato a Massimo Giannini di Repubblica, dopo che questi aveva romanzato la vicenda della defenestrazione di Profumo come una resa all’asse Berlusconi-Letta-Geronzi. L’allineata delle tre botte mediatiche di Repubblica  Giannini-Geronzi-Penati dice molto , per me, di come si seguano in Italia le vicende finanziarie.

Prima lettura della vicenda Profumo: tutta politica – nella parte del male il centrodestra, naturalmente, della famigerata macchina occupapotere che è il centrodestra, ci mancherebbe – presentata come master&commander della finanza.  Polvere negli occhi ai lettori intribaliti, i molti che se anche parli del colore degli occhi dicono che la colpa è tutta di Silvio oppure tutta di pierluigi: la politica pagherebbe se fosse vero e andasse davvero così, ma con questo bel modo i media scaldano gli spalti calcistici di una politica ridotta a circo.

Seconda lettura: si cede una pagina intera a chi viene attaccato in prima lettura come fosse un incrocio tra Belzebù e Astarotte, e Geronzi obiettivamente ha buon gioco nel rispondere alle panzane della prima lettura con considerazioni che appaiono talora addirittura di elementare buon senso, tipo quelle dedicate all’evoluzione involutiva delle fondazioni.  Con questo artificio i rapporti di Repubblica con Geronzi restano in realtà ottimi, perché il giornalista che ha dato una prima lettura tanto forzatamente lontana dalla replica, per quanto sia bravo esita a reggere il fronte e dunque ecco la nostalgia delle sane fondazioni di un tempo, ché quelle sì difendevano stabilità banche e non facevano politica (tradotto, se la facevano per la Dc e per i post Dc non è politica, se in Intesa Bazoli le spiana quando pensano di avanzare candidati propri fa bene, perché “difendere la stabilità della banca” significa “difendere i banchieri  che guidano le banche”, di conseguenza fondazioni autoreferenziali e banchieri autoreferenziali uguale Eden in Terra: ma si può dico? io mi sbellico in solitudine… ho considerato l’intervista di Geronzi qualcosa da ritagliare e appendere al muro per la sua bravura, a conferma del fatto che chi nei decenni ha creato Capitalia e l’ha poi dissolta negli attivi di Unicredit poco prima della crisi insegna che il miglior banchiere italiano è appunto quello relazionale, un evocatore di realismo magico, uno strepitoso psicologo di politici malretti e imprenditori malgestiti, perchè quel che conta è la visione “sistemica” come si suol dire  e non i numeri; gli incroci azionari e i relativi semafori e non le strade fluide del mercato; gli intrecci e le rotatorie di potere e mai i viadotti su livelli diversi in cui ciascuno, banche, assicurazioni, imprese, segua la sua strada senza inchinarsi a logiche improprie diverse da sana crescita, stabilità patrimoniale e massimizzazione del risultato….: ha torto Geronzi? sui libri e nella teoria noi diciamo di sì, ma nella realtà italiana lui ha ragione, ragionissima, ragionissimissima da ven de re.., e capisco da molto tempo che rida sorrida e derida, chi crede in cose diverse )

Terza lettura: solo dopo e solo alla fine, contando sul fatto che per i lettori quel che continuerà a contare è la prima sceneggiata tutta politica rappresentata da Repubblica a cadavere di Profumo ancora caldo; solo dopo e solo alla fine, numeri e considerazioni di mercato lasciati ad Alessandro Penati, sempre più nella veste di lupo solitario che ulula alla luna nella steppa. E così, ooplà, chi propone letture deformate e devianti si copre il sedere sia con chi il potere lo esercita davvero e ne sorride, sia con la sparuta minoranza di noi mercatisti che vorrebbero a contare fossero solo numeri e bilanci e attivi, sia soprattutto con coloro che Profumo lo hanno cacciato davvero, cioè i tedeschi di Rampl e i signori delle fodnazioni Crt, Cariverona e Cassamarca e Carimonte.

Palle in politica, rinculi di potere, e parole vane di mercato: che cosa questa triade c’entri con far capire come e perchè Profumo sia andato a casa, o sono scemo io oppure spiegatemelo voi.

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Carlo Stagnaro http:// <![CDATA[Bp. L’epilogo]]> /?p=7148 2010-09-26T09:24:40Z 2010-09-26T09:24:40Z Ora che “quel maledetto buco” è stato ufficialmente tappato, è il momento di interrogarsi sulle cause dell’incidente, e sull’eredità che esso ci lascia. Due post sul mio blog energetico preferito aiutano a porre la questione in una prospettiva “ampia”, astraendo per un attimo dal redditizio business delle compensazioni, e guardando alla lezione di Macondo. Dunque, cosa è andato storto?

L’esplosione nella piattaforma Deepwater Horizon ha una serie di cause prossime: la sfiga e la cultura industriale di Bp, anzitutto. Ma ha anche cause remote che hanno creato un humus fertile perché le cause prossime scatenassero il disastro.

Partiamo da due situazioni estreme: nella situazione A la proprietà del sottosuolo (e delle risorse minerarie in esso contenute) è “pubblica”, nella situazione B è ”privata” (non mi interessa definire come e chi ne ha diritto allo sfruttamento, è sufficiente che sia un soggetto privato e che i suoi diritti siano chiari e riconosciuti da tutti). Nella situazione A mi aspetto fenomeni di sovra- o sotto-sfruttamento, dovuti al fatto che il governo ritiene di dover spremere la rendita mineraria oppure, all’opposto, che pensa che non sia opportuno turbare l’ecosistema con le trivelle. In entrambi i casi il risultato è socialmente inefficiente. Nella situazione B, invece, mi aspetto che le risorse vengano sfruttate nella misura in cui ciò è conveniente (dati i prezzi relativi delle risorse minerarie e dei beni ambientali, naturali e paesaggistici che, per estrarle, possono essere compromessi). Guillermo Yeatts, già manager di diverse imprese attive nella filiera petrolifera e autore dello splendido Subsurface Wealth: The Struggle for Privatization in Argentina, spiega molto bene i vantaggi di B rispetto ad A. Da un lato, in A la rendita mineraria viene sovente utilizzata per puntellare regimi corrotti e dittatoriali, mentre beneficia poco e/o male le popolazioni direttamente coinvolte dalle attività estrattive. In B, è vero il contrario. Incidentalmente, questa è la ragione per cui la scoperta di un giacimento è un dramma sociale con tinte da Guerra di Troia nella foresta Amazzonica, mentre è una bella notizia, chessò, in Oklahoma. Dove le risorse minerarie sono di proprietà pubblica, l’intero beneficio è catturato dal governo e dalle sue clientele (senza contare che i mezzi di produzione sono normalmente inefficienti). Dove invece esso è privato, il benessere tende a estendersi in un clima di relativa pace sociale.

Cosa c’entra tutto questo con Bp? In fondo, ho appena scritto che gli Usa sono più simili a B che ad A. In realtà, come spiega Rob Bradley, un po’ perché l’estensione delle terre di proprietà pubblica è enorme, un po’ perché le aree offshore ricadono sicuramente (attraverso concessioni e altre diavolerie) in questa categoria, un po’ perché la regolamentazione ha fatto il resto, negli stessi Stati Uniti è in atto un processo di surrettizia “pubblicizzazione delle risorse minerarie”. In questo contesto, il ruolo del governo centrale e del Bureau of Ocean Energy Management (l’ex Minerals Management Service) diventa sempre meno di regolazione tecnica, e sempre più di pianificazione centrale. Quel maledetto buco non ci ha lasciato solo un costoso bando sulle trivellazioni offshore: lascia anche una mole di regolamentazione in crescita, che rischia di andare ben oltre la definizione di requisiti di sicurezza più o meno stringenti (che può incentivare o disincentivare l’assunzione di rischio minerario, aumentando o riducendo i costi di ingresso, ma almeno è relativamente meno distorsiva e relativamente meno arbitraria).

Come spesso accade, insomma, la risposta a un disastro è irrazionale e sbagliata: anziché rimuoverne le cause, essa finisce per ingigantirle. Di fatto, il modo in cui l’amministrazione Obama (e altri governi in giro per il mondo) sta gestendo la faccenda lascia prevedere che, se nell’immediato avremo un giro di vite sulla ricerca ed estrazione petrolifera e quindi una produzione subottimale nei paesi Ocse, nel lungo termine potremmo incrementare il disallineamento tra gli incentivi delle compagnie petrolifere e gli interessi “pubblici” (comunque definiti). E avremo una maggiore dipendenza delle decisioni di investimento dal parere, variamente definito e variamente raggiunto, degli uffici pubblici, con l’inevitabile creazione di azzardo morale (se ho tutte le carte bollate a posto, posso fare cose che altrimenti non farei).

Ci troviamo, cioè, di fronte a un doppio effetto Peltzman: c’è un effetto Peltzman “di primo ordine” in virtù del quale imprese e governi reagiranno ai bandi occidentali spostando produzioni e investimenti nei paesi da cui, ogni giorno e ogni ora del giorno, si dice dovremmo dipendere di meno (non lo dico io, che non me ne frega niente: rilevo che quelli che diventano isterici per il petrolio iraniano e il gas russo, non dovrebbero sostenere bandi e vincoli sulle risorse Ocse…). Poi, c’è un effetto Peltzman di second’ordine in virtù del quale chi ottiene permessi si sentirà “blindato” e dunque agirà prestando relativamente meno attenzione ai rischi reali, e relativamente più attenzione agli obblighi burocratici (come è in parte successo a Bp, in fondo, seppure con una serie di aggravanti).

In breve, per minimizzare la probabilità di incidenti spiacevoli bisognerebbe privatizzare in senso proprio le risorse minerarie (cioè il sottosuolo), ridurre le regolamentazioni alla mera definizione di standard tecnici operativi, e cancellare ogni norma che possa collettivizzare i rischi (come il ridicolo limite alla responsabilità civile delle compagnie petrolifere).

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