CHICAGO BLOG http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Mon, 21 Nov 2011 20:52:56 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.2.1 In piazza sabato a Milano: – Stato, + Libertà /2011/11/21/in-piazza-sabato-a-milano-meno-stato-piu-liberta/ /2011/11/21/in-piazza-sabato-a-milano-meno-stato-piu-liberta/#comments Mon, 21 Nov 2011 20:46:57 +0000 Annalisa Chirico /?p=10570 “Meno tasse, meno Stato, più Libertà”. All’insegna di questo slogan si terrà la manifestazione convocata dal Tea Party Italia a Milano il prossimo 26 novembre.
In Italia, converrete con me, il tè non è popolare. Noi preferiamo il caffè. Quello napoletano poi ci piace assai. In questo caso, però, il tè è soltanto la rievocazione storica della rivolta americana contro l’ennesimo balzello imposto dalla madrepatria inglese. Gli organizzatori bevono grandi dosi di caffè, e prediligono slogan semplici e immediati. Vogliono parlare al “popolo”, e vale la pena ascoltarli.I ragazzi del Tea Party vanno in jeans, adorano il rock. Sono libertari di strada. Detestano il politichese così come l’autoreferenzialità di una certa politica. Quello che chiedono è un passo indietro da parte dello Stato. Più semplice di così?
Basta con l’invasione dello Stato nelle nostre vite – spiega con un inconfondibile accento toscano David Mazzerelli, coordinatore nazionale, appassionato di cultura e storia americana – Chi avrebbe dovuto fare la rivoluzione liberale negli ultimi diciassette anni, non l’ha fatta. E oggi c’è il rischio che il governo dei tecnici proponga ancora tasse e solo tasse”.

David è un under 30, come molti dei “partisans”, che arriveranno da diverse Regioni d’Italia. “Partiranno pullman dalla Liguria, Toscana, Emilia Romagna, Veneto…Vogliamo fare una grande festa colorata, allegra, pacifica. Una cosa diversa da quelle cose tristi cui ci hanno abituato gli indignados o quelli che occupano Wall Street”. I ragazzi del Tea Party hanno ben chiaro che la risposta al fallimento dello Stato non è “più Stato”. Ad alcuni potrà suonare come una bestemmia, ma la realtà dimostra che hanno ragione loro.
I pullman ovviamente se li pagano gli aderenti. Tutto è rigorosamente autofinanziato, cosa non dappoco per un’organizzazione che è nata soltanto un anno e mezzo fa. “È iniziato come un gioco (nel maggio 2010, ndr), quasi per scherzo, con un evento tra amici in una sala a Prato”. Sull’onda della mobilitazione americana, dove si coagulano oltre settecento movimenti eterogenei tra loro (dalle schegge anarchiche, per intenderci, agli evangelici conservatori). Il Tea Party Italia pone al centro l’urgenza della battaglia contro il fisco opprimente e anticrescita; nel contempo non esita a difendere il diritto della persona a scegliere per sé, in ogni ambito, senza esclusione.
Sabato a piazza San Babila ci saranno, tra gli altri, Carlo Stagnaro e Carlo Lottieri dell’Istituto Bruno Leoni, Alessandro de Nicola del Sole24ore, Giancarlo Pagliarini. I protagonisti però saranno i cittadini. Un microfono per una sorta di Hyde Park Corner, dove ognuno ha diritto di parola. In un grido corale per la libertà. Chissà che l’alternativa non possa partire proprio da qui.
Io ci sarò. Tu non mancare.

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8 ragioni contro la patrimoniale /2011/11/18/8-ragioni-contro-la-patrimoniale/ /2011/11/18/8-ragioni-contro-la-patrimoniale/#comments Fri, 18 Nov 2011 19:25:49 +0000 Ugo Arrigo /?p=10559 Dalla Cgil alla Confindustria, dalla sinistra radicale al Financial Times, l’ipotesi di un’imposta patrimoniale in Italia ha ottenuto crescenti e insospettate adesioni da parti sociali e commentatori solitamente molto distanti tra loro. Vi sono invece molte e valide ragioni contro la patrimoniale, le più rilevanti delle quali ho analizzato in dettaglio in un intervento sul Sussidiario, al quale rimando per chi volesse approfondire (*):

1 – Se costruita col vincolo dell’equità la patrimoniale non è praticabile, e, in conseguenza:

2 – Si può realizzare solo in maniera non equa. Inoltre:

3 – Non è risolutiva, né realizza miglioramenti significativi per i problemi della finanza pubblica.

4 – I vantaggi che apporterebbe alla finanza pubblica sono conseguibili con provvedimenti alternativi non dirompenti.

5 – La patrimoniale è recessiva.

6 – La patrimoniale aumenta l’incertezza e (probabilmente) anche lo spread.

7 – La patrimoniale distoglie da una corretta via di riforme.

8 – La patrimoniale ricapitalizza uno stato “good company” (per riaffidarlo a una classe politica tradizionalmente spendacciona), trasferendo la “bad company” ai contribuenti.

Rimando al Sussidiario per l’analisi dei singoli punti e riporto invece le osservazioni conclusive:

Una riforma basata su estese privatizzazioni avrebbe il vantaggio di sottrarre cospicue risorse a chi sinora ha effettuato scelte inefficienti senza subirne conseguenze (classe politica e dirigenza pubblica a essa sottoposta) e di ridarle ai cittadini i quali hanno un forte incentivo, l’interesse personale, a usarle in maniera corretta e a non sprecarle. I sostenitori della patrimoniale vanno invece nella direzione opposta: la “ricapitalizzazione” di una classe politica impreparata e inefficiente. Probabilmente senza rendersene conto stanno proponendo una “soluzione Alitalia” da applicarsi a tutto lo Stato attraverso la creazione di una “bad company” che verrebbe spalmata sui contribuenti attraverso la maxi-patrimoniale e di una “good company” che verrebbe riaffidata alla stessa classe politica. Non è difficile prevedere che l’aggettivo “good” sarebbe destinato a svanire in pochissimo tempo. Basta guardare agli effetti delle ricapitalizzazioni Alitalia attuate nel decennio 2000: dopo ognuna di esse la compagnia ha ripreso in maniera consistente ad aumentare le perdite.

Si può sostenere in conclusione che ricostituire uno Stato “good company” attraverso la patrimoniale sia come ricapitalizzare il figliol prodigo pensando che questa scelta possa essere un buon viatico sulla strada della frugalità e della parsimonia. E’ un errore intellettuale imperdonabile.

(*) Nel pezzo vi è in realtà una piccola licenza matematica dato che, essendo i primi due punti dell’elenco alternativi, le motivazioni totali contro la patrimoniale sono sette e non otto (ma direi più che sufficienti).

P.S.: Manuel Seri analizza efficacemente nel post precedente le conseguenze negative sul contribuente e l’iniquità del provvedimento. Purtroppo, se le mie considerazioni sono valide, esso non giova neppure alla finanza pubblica e anzi la danneggia. Si tratta allora di un ‘pessimo paretiano’, in cui tutti perdono, e ci troviamo in conseguenza nel quadrante degli stupidi di ‘Allegro ma non troppo’ di Carlo Cipolla? Può essere, non c’è da stupirsi e non sarebbe la prima volta (vedasi ad esempio il patriottico salvataggio di Alitalia). Però un candidato a guadagnarci c’è: le banche dalle quali lo stato ricomprerebbe con i proventi della patrimoniale i titoli pubblici che attualmente zavorrano il loro stato patrimoniale. Si tratterebbe in tal caso di un bel risultato: un regalo insperato ai c.d. poteri forti servito su un piatto d’argento dalla sinistra radicale in associazione con le parti sociali all’uopo coalizzate!

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Ancora sulle ragioni del no alla patrimoniale /2011/11/18/ancora-sulle-ragioni-del-no-alla-patrimoniale/ /2011/11/18/ancora-sulle-ragioni-del-no-alla-patrimoniale/#comments Fri, 18 Nov 2011 15:41:29 +0000 Manuel Seri /?p=10569 Infervorarsi sulla possibilità che venga introdotta una “patrimoniale” sui valori (immobiliari, mobiliari, finanziari…) posseduti dagli italiani come se fosse chissà quale novità significa volersi nascondere la realtà; siamo infatti già sottoposti da tempo a tributi di vario genere che, nella sostanza, hanno quella natura.

Ad esempio, per citare i più noti e diffusi, l’ICI che grava sul possesso dei beni immobili di qualunque genere (per ora fa eccezione solo la prima casa) (art. 1 del D.Lgs. 504/1992), le Imposte di Bollo recentemente aumentate e rimodulate sulle comunicazioni degli intermediari finanziari (banche, poste, …) riguardanti i depositi di titoli dei risparmiatori (art. 23 c. 7 del D.L. 98/2011), l’IRPEF sui redditi fondiari “virtuali” che si deve assolvere anche se sfitti (dunque improduttivi di qualunque arricchimento) (artt. 25 ss. del D.P.R. 917/1986), la TARSU che si applica anche sulle superfici coperte e scoperte libere oggettivamente improduttive di rifiuti (art. 62 del D.Lgs. 507/1993), …. Si tratta di tanti prelievi di carattere tributario imposti a tutti i Cittadini per il solo fatto che possiedono quel tipo di beni, anche se non conseguono alcun reddito, anche se sono il frutto di anni di sacrifici o di risparmi derivanti dal conseguimento di redditi già tassati, anche se sono stati semplicmente ereditati o ricevuti in donazione … e nessuno ha mai protestato!

Certo è che ipotizzare oggi un ritorno dell’ICI sulla prima casa è un motivo di preoccupazione in più per i tanti Italiani che vanno avanti con fatica e che magari non riescono ad arrivare a fine mese: in un momento in cui i guadagni si riducono o addirittura vengono a mancare, il costo della vita e del mantenimento di una famiglia aumenta sensibilmente, i risparmi si assottigliano, i finanziamenti sono difficilissimi da ottenere, le prospettive per il futuro (almeno quello più prossimo) non rassicurano, un ulteriore prelievo anche solo di qualche centinaio di euro potrebbe avere effetti piuttosto pesanti; se poi si considera che saranno rivalutate anche le rendite catastali (forse un +25%?) sui cui si calcola la relativa base imponibile, il prelievo è destinato a lievitare in brevissimo tempo.

Per quanto riguarda la patrimoniale a carico dei ricchi invece, siccome dovrebbe riguardare grandi valori, come al solito si pensa che la questione riguardi solo gli altri e pochi eletti, trascurando il fatto che possedere delle ricchezze mobiliari o immobiliari non è affatto sinonimo di evasione tributaria o accumulo illecito; anzi, fino a prova contraria, si dovrebbe ritenere che ognuno possiede il frutto di leciti e legittimi guadagni che hanno già scontato la tassazione cd. redistributiva, assolvendo con ciò al proprio dovere di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) e pertanto qualsiasi ulteriore prelievo forzoso è sostanzialmente ingiusto. L’introduzione di una patrimoniale, così come da più parti adombrata, sembra dunque piuttosto assumere i connotati di una tassa basata sull’invidia o, cosa ancor più grave, una tassa basata sulla presunzione di pregressa evasione: chi possiede tanto non può essere che l’ha accumulato virtuosamente, per cui la patrimoniale rappresenta una sorta di parziale restituzione; il ché sarebbe (anzi, è) palesemente iniquo e inaccettabile. Oltretutto, bisogna considerare che, stando alle statistiche, in Italia la ricchezza significativa sarebbe concentrata in una quota di popolazione piuttosto bassa (intorno al 10%); l’introduzione di una patrimoniale potrebbe dunque avvenire solo in due modi: accentuando l’importo del prelievo o abbassando il limite di applicabilità; siccome è impensabile che la tassazione assuma consistenze espropriative (non è detto infatti che chi possiede il patrimonio abbia necessariamente anche la liquidità per fronteggiare l’esborso, né può essere costretto a vendere una parte delle proprie ricchezze per assolvere all’obbligo tributario specie in un periodo in cui le contrattazioni sono ridotte all’osso ed avvengono al ribasso), è inevitabile che la soglia si dovrà abbassare fino a ricomprendervi una larga fetta di popolazione, inclusa quella che oggi esulta per la patrimoniale sui ricchi.

Entrambe le ipotesi sono perciò da scartare con irremovibile fermezza perché sottraggono risorse essenziali ed importanti per lo sviluppo dell’Italia, destinandole al ripianamento (ipotetico) di un debito pubblico esagerato che è destinato a permanere immutato fintantoché non torna a crescere il prodotto interno lordo ed il gettito ad esso collegato: la nostra economia è basata sugli scambi, cresce se aumenta la spesa per gli investimenti e per i consumi, presuppone che la Gente lavori, guadagni ed utilizzi quei danari sia per incrementare i depositi in banca da trasformare in servizi di finanziamento a sostegno dell’intraprendenza, sia per alimentare i consumi interni che producono ricchezza ad ogni passaggio. In questo processo, ogni risorsa in più inghiottita dal buco nero dell’apparato statale esaurisce la sua funzione principale, non produce più ricchezza, deprime l’operosità e la voglia di lavorare e provoca povertà su povertà.

Identico effetto, in momenti di grave recessione come quello attuale, lo provoca l’ossessionante ingerenza del Fisco nella sfera economico-patrimoniale-finanziaria dei Contribuenti con la fissazione di limiti assurdi all’utilizzo del danaro contante, con il monitoraggio delle varie spese sostenute (polizze assicurative, acquisti immobiliari, ristrutturazioni o manutenzioni straordinarie, utenze energetiche e telefoniche, frequenze scolastiche, viaggi, investimenti in titoli, carte di credito, …), con l’intrusione nei rapporti bancari e finanziari di qualunque genere, con l’utilizzo a fini accertativi di ricostruzioni di presunti imponibili fiscali basati su pretenziose elaborazioni matematico-statistiche (studi di settore e redditometro), con la sistematica introduzione di presunzioni legali a favore dell’Erario che impongono ai malcapitati la prova contraria (spesso impossibile da offrire).

In conclusione, esiste un solo sistema per favorire lo sviluppo dell’Italia nella difficile situazione attuale: bloccare la pressione fiscale ed accantonare qualunque proposito di ulteriore tassazione, liberare le risorse finanziarie esistenti incentivando l’impiego del danaro in tutte le sue forme ed applicazioni lecite, facilitare e premiare l’intraprendenza e l’operosità della Gente restituendogli il gusto per il proprio lavoro, cessare immediatamente la campagna mediatica ossessionante contro l’evasione tributaria, svolgere le attività di controllo fiscale in modo serio, mirato e rispettoso della situazione e della dignità dei Contribuenti ricercando e ricostruendo materia imponibile vera ed effettiva e non basata su presunzioni legali assurde ed inaccettabili per raggiungere il budget accertativo annualmente assegnato.

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(Ali)quote rosa, a quando i posti riservati sugli autobus? /2011/11/18/aliquote-rosa-a-quando-i-posti-riservati-sugli-autobus/ /2011/11/18/aliquote-rosa-a-quando-i-posti-riservati-sugli-autobus/#comments Fri, 18 Nov 2011 14:11:03 +0000 Annalisa Chirico /?p=10563 A quando i posti riservati sugli autobus? Accanto a quelli per anziani e invalidi, le vedo già le seggioline rosa. “Prego, lei è una donna, si sieda”. “No, io voglio stare qui, grazie. Non voglio sedermi”. “Prego, si sieda. Lo vede? Lei deve sedersi. La seggiolina è rosa. Deve sedersi lì”.

No, io-non-voglio-sedermi-lì. Ma che cosa siamo diventati? Una torta a spicchi rosa e blu?
Dapprima le quote rosa per far contenta la Carfagna, che, almeno fino alla prossima legislatura, non dovrà più “amministrare” le nostre (pari) opportunità. Lei paladina indefessa delle quote rosa. Altruista. Poi si è abbattuto il grande movimento di popolo “Se non ora quando”; il movimento che avrebbe occupato dieci, cento, mille piazze e fatto dieci, cento, mille proposte all’insegna di un maggior intervento statale, gonne più lunghe e censura sulla pubblicità. Per nostra fortuna, così non è stato. Ora però ci si mette pure Mario Monti.
Il neopresidente del Consiglio, designato dall’Europa e dai mercati a sostituire una classe politica incapace, fa un discorso impeccabile ispirato a quel riformismo liberale magistralmente declinato con un impeccabile aplomb inglese. Espressioni come “governance” e “spending review” finalmente pronunciate come dio comanda. Non come lo “spread” divenuto “sprid” per bocca dell’europarlamentare Idv Sonia Alfano ai microfoni de La Zanzara su Radio24.
A un certo punto, l’armonia dei suoni italo-anglofoni è bruscamente interrotta. Ho sentito bene? Ma che dice? “Questione indifferibile”, a detta del premier, è “assicurare la piena intrusione delle donne in ogni ambito della vita lavorativa, ma anche sociale e civile del Paese”. Ma che intende dire? No, non è possibile. Un altro fan delle quote rosa. A rincarare la dose, nel giro di trenta secondi, toh la bestemmia da parte dell’uomo che spicca per sobrietà. Le ali-quote rosa. Il premier ritiene necessario “studiare l’opportunità di una tassazione preferenziale per le donne”. No, non posso aver sentito bene. Mando indietro il video. Sì, ha detto proprio così.
Ora, il volto della ruspante Ministra Anna Maria Cancellieri al suo fianco spiega bene l’assurdità di questa proposta. Appena il professore tocca il tasto “rosa”, la Cancellieri aguzza le orecchie. E’ un climax, un crescendo fino all’esplosione finale. Con tanto di applauso e, dal labiale, qualcosa come: “Eh, sì, questa mi piace proprio”. La Cancellieri appare divertita. Del resto, lei è l’esempio di come le quote rosa non servano (oltre ad essere dannose di per sé). Se mai introdotte, le aliquote rosa avrebbero un unico inevitabile effetto: discriminazione, privilegio e rendita. In una parola, ingiustizia sociale.
Capisco, che nel Paese, che ha eretto la concertazione a metodo ordinario di (non)governo, possa suonare strano sentire che il sesso, al pari dell’età, non è una patente di merito. La logica delle (ali)quote l’una contro l’altra armata, francamente, è degradante innanzitutto per noi donne. Perché dovremmo essere privilegiate nell’esazione fiscale? Che razza di idea abbiamo del nostro Paese? Una torta a spicchi rosa e blu?
Oggi il problema vero è che la torta non cresce, e Monti lo sa bene. Una guerra tra poveri non serve a nessuno. Non mendichiamo privilegi, ma vogliamo riforme. Parliamo di contratti di lavoro, pensioni e asili nido (quelli sì che servono!). Le aliquote, Presidente, vanno sì abbassate, ma per tutti. Solo la crescita crea ricchezza e opportunità per chi sa coglierle. Uomo o donna che sia.
La Cancellieri le opportunità ha saputo coglierle. Come lei, tante donne italiane, che sudano per riuscire. Senza aiutini di stato, senza posti riservati sugli autobus. Su quell’autobus, Presidente, saliamo con le nostre gambe. E il posto vogliamo scegliercelo noi. La gara è libertà.

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Eurocrisi, way out o big bang /2011/11/18/eurocrisi-way-out-o-big-bang/ /2011/11/18/eurocrisi-way-out-o-big-bang/#comments Fri, 18 Nov 2011 11:31:57 +0000 Oscar Giannino /?p=10560 E’ venuto il momento di allargare il punto di osservazione  sulla crisi in corso, ora che il governo Monti con la fiducia parlamentare entra nella pienezza delle sue funzioni, salutato e sostenuto dal consenso esplicito dei vertici europei, di Germania e Francia tanto per sottolineare ancora una volta l’attenzione tutta particolare riservata al potenziale di instabilità sistemico rappresentato dal debito pubblico e dalla bassa crescita del nostro Paese. Ora che l’Italia si pone in condizione di rassicurare i mercati- se farà e se farà bene, se la politica non si mette troppo per traverso, sde si conferma dopo mesi il sorpasso al ribasso sullo spread spagnolo di stamane – è tempo anche da noi di aprire il dossier della crisi vera, rispetto alla quale l’Italia non deve fungere da detonatore, ma che rischia comunque di investire tutto il continente. Diciamolo chiaramente. Nel 2012 è l’euro in quanto tale, a rischiare di saltare.

Questo ci dice la tumultuosa vendita da Oltreoceano che ogni giorno si sta realizzando sotto i nostri occhi nei confronti di tutti gli asset europei, a partire dal debito pubblico di tutti i componenti dell’euroarea ad eccezione della Germania, ed estendendosi ai titoli bancari che portano a sempre nuovi record verso il basso i listini di Borsa dell’intera Europa, perché le banche sono la cintura più esposta alla crisi di sistema che si sta scatenando.

I segnali sono assai preoccupanti e chiari, per chi li vuole leggere. I differenziali sul Bund che s’inerpicano verso l’alto non sono solo quelli greci, e portoghesi e spagnoli.  La Francia stava a 40 punti base di premio sul Bund decennale a fine 2010. Oggi  supera i 200 e da due settimane peggiora ogni giorno, ha di fatto già perso nel giudizio dei mercati la tripla A di cui andava così fiera. Il Belgio è passato da 103 punti a 318. L’Austria, pur considerata integrata alla Germania euroleader, è salita da 54 a 190. Lo stesso fondo salva-Stati e salva-banche, l’Efsf, in teoria tripla A anch’esso, ha dovuto rinviare l’emissione di una sua obbligazione dopo averne ridotto l’ammontare, e paga rendimenti in crescita quotidiana allineati a quelli francesi. Tre mesi di incorporazione da parte del sistema bancario di questa stima crescente dei rischi sovrani implicano problemi gravissimi per il credito non più solo dei Paesi sin qui a rischio, ma innanzitutto delle banche francesi, le più esposte al totale di carta pubblica europea.

Perché i mercati scommettono che nel 2012 l’euro salta, se non si assumono decisioni efficaci e adeguate al rischio a cui l’euro esposto? Per comprenderlo, è necessario compiere un passo indietro. Diciamo che, con qualche approssimazione tecnica, al mondo esistono due tipi di aree monetarie concepite come ottimali. Una è quella del dollaro. L’altra quella dell’euro. Sono due modelli pressoché agli antipodi. Per ragioni serie e storiche però, non per follia o inettitudine come vorrebberom oggi alcuni improvvisatori che gridano soluzioni da bar, anche se hanno nomi e cognomi autorevoli nel giornalismo italiano. E neanche perché i padri dell’euro ieri e Mario Draghi oggi avrebbero compiuto un golpe a nome delle banche, come strepitano blogger stralunati e cospirazionisti di estrema destra come di sinistra antagonista.

Il modello americano si è evoluto dal 1913 in avanti secondo una concezione per la quale a una valuta comune corrisponde l’unificazione reale dei mercati sottostanti, dei beni, dei servizi, del lavoro come della relativa regolazione. Lo scopo è quello di consentire che un unico tasso di interesse abbia sì effetti asimmetrici nelle diverse aree dell’Unione, che sono caratterizzate da tassi di crescita, costi dei fattori produttivi e prezzi degli asset comunque tra loro diversi visto che un continente non ha certo condizioni omogenee. Ma l’unificazione dei mercati e della regolazione consente che l’equilibrio a unico tasso d’interesse tra costi diversi, salari e disoccupazione avvenga per autoregolazione attraverso vasi comunicanti. Ti puoi spostare da uno Stato con più disoccupazione a uno che tira di più, con prezzi diversi, ma senza mettere a rischio risparmio e patrimonio.

In questo modello, quando il ciclo scende e a maggior ragione quando si aprono grandi crisi, la via prescelta è quella di attenuarne i morsi monetizzando il debito – tanto l’eccesso di debito privato, che delle banche che di quello pubblico – facendo stampare dollari alla FED. Dal 2008 in avanti, la banca centrale americana lo ha fatto per oltre 20 trilioni di dollari per il solo sistema banco-finanziario, praticamente per l’equivalente dei due terzi del valore attuale di tutti gli asset quotati nelle borse americane. Se si somma il debito pubblico,delle famiglie, delle imprese e delle banche Usa, nel giugno 2011 la quota era pari al 289% del Pil americano. Per fare paragoni, il Regno Unito è a quota 497%. Il Giappone a quota 492%. La Spagna a 388%. La Francia a 341% L’Italia al 303%.

La differenza tra la sostenibilità del maggior debito americano, britannico e giapponese rispetto al nostro – più basso – dipende dal fatto che le banche centrali di Stati Uniti, Regno Unito e Giappone monetizzano il debito con il torchio monetario, pressoché illimitatamente (non solo da questo, per essere corretti, conta anche la caratteristica delle economie di ciascuno, la percentuale di debito detenuto dai non residenti, etc etc, ma questo aspetto è comunque fondamentale). Certo, è un sistema che produce bolle nel prezzo degli asset, come quella di Internet prima, dell’immobiliare poi. E produce inflazione. Ma l’America, finché il dollaro è la moneta in cui sono denominati i mercati di tutte le commodities mondiali e dunque è riserva prioritaria per tutte le banche centrali, l’inflazione monetaria l’esporta verso il resto del mondo, anche grazie alla sua sostenuta produttività domestica. Meglio le bolle ogni tanto di una più alta disoccupazione stabile, pensano in America.

Poi c’è il secondo modello, quello dell’euroarea. Vediamo di spiegarlo storicamente, perché questa è la risposta da dare a coloro che non capiscono come mai siamo stati per così dire “commissariati” dai tedeschi, insieme a greci, portoghesi, spagnoli e irlandesi. Il modello BCE nasce dall’esperienza tragica fatta dalla Germania ai tempi di Weimar. L’eccesso di torchio monetario e di inflazione, stante l’enorme debito accumulato nella sconfitta della prima guerra mondiale, portò comunque a disoccupazione di massa e perdita reale e verticale di risparmio. L’effetto fu il nazismo, la presa sugli strati popolari dei totalitarismi neri e rossi.

Per questo la Germania per decenni, prima della moneta comune, ha affinato il modello su cui l’euro è poi nato. A differenza degli Usa, nessuna unificazione reale dei mercati sottostanti, del lavoro, dei beni e dei servizi come della regolazione: tranne che nel comparto finanziario. In più, il debito pubblico resta garantito da ciascun Paese membro. Senza un debito comune europeo è come se esso sia denominato in una valuta straniera, rispetto all’euro. Infine, la BCE non può e non deve monetizzare debiti di alcun tipo, deve solo pensare a tenere bassa l’inflazione, deve astenersi dal sostenere il ciclo.

Come può reggere un sistema di tal tipo, visto che la curva dei costi come della produttività, e le bilance dei pagamenti tra i diversi paesi dell’euroarea sono tanto divergenti? Per dire, la Germania è forte perché ha il più grande attivo al mondo di parte corrente dopo la Cina, quasi il 7% del Pil, il Portogallo era in passivo del 14% prima della crisi. Oppure, se consideriamo il costo per unità di lavoro fatto pari a 100 nel 2000,  quello tedesco nel 2008 era a 98 e ora è a 105, quello portoghese  nel 2008 era a 128 e ancora oggi è sceso solo a 125.

Il meccanismo tedesco prevede che, per reggere con queste asimmetrie e avvantaggiarsi tutti dell’euro, siano le classi politiche dei diversi Paesi a dover tenere la finanza pubblica in equilibrio al più basso livello di spesa pubblica coerente con un welfare decente e la sostenibilità del proprio debito pubblico, e a indurre con adeguate riforme l’economia reale ad un’elevata produttività. In caso contrario, con bassa crescita e alto debito e senza torchio monetario della Bce, l’unico aggiustamento possibile è quello della deflazione interna, cioè del drastico abbassamento in termini di valore reale dei salari e delle pensioni, degli attivi patrimoniali delle banche come delle imprese. Una volta che il conto salato, in termini di disoccupazione e impoverimento reale, cade sulle spalle di lavoratori,  contribuenti e risparmiatori, allora essi richiameranno al dovere i politici mentitori e inadeguati, sostituendoli con politici più virtuosi. E’ un meccanismo kantiano che scommette sulla virtù e sulla saggezza, altrimenti “il giudice a Berlino” passa per brutte botte in testa ai popoli.

Siamo esattamente a questo punto. Il conto amaro si abbatte su milioni di portoghesi e spagnoli, italiani e – tra pochissimo- francesi. Perché i politici mentono e preferiscono dare la colpa al mercato o alle opposizioni, perché i sindacati resistono alle riforme, perché ciascuno dice che la colpa è di un altro. E alla fine a pagare sono imprese e lavoro, coloro che non decidono alcunché ma subiscono.

Perché il mercato scommette che l’euro salta? Perché, al momento, non ci sono segni che tedeschi e francesi – entrambi sotto elezioni nel 2012 e nel 2013 – siano pronti ad assumere alcuna delle tre decisioni diverse che ci potrebbero portare fuori dal gorgo. Dico tre non perchè siano davvero tre, il mix può essere molto ampio. Le indico solo per far capire quanto possano essere diverse.

La prima decisione è quella di cambiare con procedura d’urgenza Trattato e Statuto della Bce, mutandone la natura e inducendola a monetizzare il debito. I tedeschi non si fidano e dal loro punto di vista hanno ragione, con mercati separati è un premio a chi ha accumulato più squilibri traendo a quel punto il massimo vantaggio dall’euro. Ora molti inneggiano a questa soluzione, Giuliano Ferrara la grida ai quattro venti: la loro ricetta quasi sempre è rimanere padroni a casa propria e lotta senza paura contro il vincolo estero, tranne che poi ci deve pensare la Bce a risolvere il problema degli squilibri insostenibili. Sembrano saggi, e sono matti.  La monetizzazione senza limiti del debito comunque induce i politici ad accumulare debito, tanto ci penserà una banca centrale a evitare il default. Per questo chi la pensa come noi ha sempre pensato che i freni alla monetizzazioen fossero più che giustificati, dagli andamenti della storia e dall’irresponsabilità crescente dei politici. Ha più titolo per chiedere la monetizzazione chi a quel punto abbraccia l’armonizzazione fiscale e la cessione ulteriore di sovranità a favore dell’Unione. Non mi sembra abbondino, tra i nostalgici urlatori del Cavaliere. Diciamo che è una proposta che alberga con maggior titolo a sinistra, che nella destra estrema (altro paio di maniche è la tradizione popolar-cattolica, rispeto alla quale la cessione di sovranità comporta menio problemi fin dai padri fondatori del trattato di Roma).
La seconda è una via intermedia. Senza monetizzazione integrale da parte della Bce,  si potrebbe comunque formare un fondo comune in cui i diversi Paesi membri facessero confluire una quota di debito pubblico eccedente una certa soglia- diciamo il 70% – chiamandone a garanzia  in parte la Bce, e in parte le stesse riserve accumulate dalla Germania grazie al fatto che tutti comprano solo i suoi Bund vendendo il resto dell’eurocarta (la fuga dei fondi monetari dalla Francia è ormai massiccia, e i tedeschi se ne avvantaggiano grazie ai loro meriti). E’ una proposta simile a quella avanzata qui in Italia da Paolo Savona. Ha il vantaggio di affriontare l’emergenza con strumenti comuni, senza pretendere però di varare in due settimane o due mesi uno schema nuovo di unificazione dei mercati e della politica e una Bce “alla FEd”: la politica non riuscirebbe mai a farlo, secondo me.

La terza proposta, fuori dai denti, è quella ancora più traumatica. Intavolare un confronto riservato su come uscirne, dall’euro. In breve – i problemi tecnici sono immensi – le ipotesi sono due. Se ad uscirne sono i Paesi eurodeboli, si troverebbero con gli attivi e passività esteri di banche e imprese che restano in euro e dollari, con quelli domestici invece in lire o franchi svalutati tra il 20 e il 40%. L’effetto sarebbe di fallimenti e disoccupazione di massa. Se invece fossero gli euroforti – Germania, Olanda e Nordeuropea -  allora l’effetto sarebbe opposto, l’avvaloramento degli attivi e passivi domestici reggerebbe l’effetto del maggior valore che il marco o il N-Euro, l’euro del nord, acquisterebbe sul dollaro rispetto all’euro attuale, penalizzandone le esportazioni sì, ma non tanto da annullare il vantaggio di competitività tedesco di questi anni. Detta così sembra semplice, non lo è affatto. Ma è anche vero che senza alcuna risposta, l’esplosione è certa.

I mercati però non vedono i segni, nelle classi politiche tedesche, francesi ed europee, né della consapevolezza del rischio terribile a cui tutti siamo esposti. Né dei rimedi possibili da adottare. La Merkel non passa giorno che non dica no a ciascuna di queste diverse ipotesi. La Germania del resto ha un suo piano B. Ha un suo Lebensraum economico ottimale, che non coincide affatto con l’euroarea ma si estende all’est Europa e all’intera Scandinavia, ha una politica propria e non europea nel braccio di ferro tra yuan e dollaro, in quanto il rapporto di Berlino con la Cina è diretto e  nonpassa certo né per Bruxelles né per Francoforte .Gli altri governi tacciono. I francesi con Sarkozy per grandeur non hanno capito che l’esposizione del loro sistema bancario pretendeva un rulo diverso dalla fuinzione di essere “come la Germania”.

Per questo i mercati scommettono che l’euro salterà. E per questo l’Italia deve al più presto recuperare l’autorevolezza per tornare a sedersi al tavolo europeo, come ha detto ieri Mario Monti.  Non si è mai visto una carrozza trainata da un tiro a quattro in cui il passo debba essere quello del cavallo più veloce. Perché o gli altri tre cavalli crepano oppure, ancor prima, si ribalta la carrozza. Finché siamo in tempo, evitiamolo. Perché di tempo ne è rimasto veramente poco.

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Spot antievasione: per la legge italiana, lo stato ha licenza di mentire /2011/11/16/spot-antievasione-per-la-legge-italiana-lo-stato-ha-licenza-di-mentire/ /2011/11/16/spot-antievasione-per-la-legge-italiana-lo-stato-ha-licenza-di-mentire/#comments Wed, 16 Nov 2011 22:15:29 +0000 Diego Menegon /?p=10547 Il 18 ottobre scorso l’AGCM ha esaminato la segnalazione con cui ConfContribuenti denunciava lo spot dell’Agenzia delle entrate e del Ministero dell’economia e delle finanze contro l’evasione per pubblicità ingannevole. L’esito, notificato in questi giorni all’associazione denunciante, è tra i più desolanti.

Si afferma, infatti, che l’autorità non può dar seguito all’istruttoria perché mancano i presupposti oggettivi e soggettivi del caso. In altre parole, l’Agenzia delle entrate non può essere perseguita, perché non eroga prodotti e servizi ai sensi del Codice dei consumatori, la legge che disciplina e sanziona anche la pubblicità ingannevole. E’ difficile non convenire che il contribuente solitamente non entra a contatto con l’agenzia delle entrate perché apprezza i servizi che gentilmente gli propone. Per di più, osserva l’AGCM, lo spot in questione si configurerebbe come pubblicità a finalità istituzionale. La finalità in oggetto è la lotta all’evasione.

Peccato che sotto questa etichetta si annida un messaggio propagandistico che tende a colpevolizzare in modo anatemico il contribuente inadempiente, sollevando da ogni responsabilità chi ha gonfiato il debito pubblico, la spesa pubblica e la pressione fiscale provocando lo stato attuale di crescita zero e rischio di default.

Le affermazioni contestate sono proprio quelle tese a difendere ideologicamente la spesa pubblica. Non è vero che se si pagano più tasse i servizi della pubblica amministrazione sono più efficienti; è più probabile che aumentino gli sprechi. Non è vero che se si pagano le tasse “le tasse ripagano tutti”; spesso il denaro dei contribuenti è impiegato per perpetuare privilegi e posizioni di rendita.

Ma ciò esorbita dai poteri dell’AGCM di arrestare la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli. L’esposto ha quantomeno evidenziato un vulnus normativo. Lo stato è al di sopra della legge. Lo stato ha licenza di mentire. Anzi.. è la sua finalità istituzionale, il suo mestiere.

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Gli ordini professionali: cosa c’è di selvaggio nella liberalizzazione? /2011/11/16/gli-ordini-professionali-cosa-ce-di-selvaggio-nella-liberalizzazione/ /2011/11/16/gli-ordini-professionali-cosa-ce-di-selvaggio-nella-liberalizzazione/#comments Wed, 16 Nov 2011 16:29:05 +0000 Lucia Quaglino /?p=10543 Due giorni fa è stato approvato il nuovo ddl stabilità dove, all’articolo 10, si avvia un possibile percorso di liberalizzazione degli ordini professionali. Le opportunità e i rischi di tale misura saranno approfonditi in un Focus di Silvio Boccalatte dedicato al tema. Ciò che si intende esaminare qui sono gli effetti benefici, che già si vedono, di quella che viene invece definita una “liberalizzazione selvaggia”.

La liberalizzazione degli ordini professionali è un tema molto dibattuto e controverso, più per l’estesa presenza di avvocati nelle Commissioni di Giustizia di Camera e Senato pronti ad impedire ogni riforma che per reali motivi di tutela dei consumatori. La loro giustificazione sarebbe che alla possibilità di avere un mercato più ampio e prezzi liberi si contrappone il rischio per i cittadini di non avere alcuna garanzia di professionalità. In realtà, però, gli ordini professionali e le tariffe calmierate rappresentano un freno più per i giovani avvocati che per quelli incompetenti, disincentivando così i primi a entrare nel settore e ostacolando le loro opportunità di carriera. All’opposto l’opinione di quanti invece considerano questa un’attività commerciale come le altre che, in quanto tale, prevede un compenso per il servizio prestato: ogni ostacolo alla libera concorrenza è quindi considerato principalmente una barriera all’ingresso che tende a tutelare i grandi e già affermati avvocati a scapito dei nuovi arrivati.

Mentre le parti in gioco si perdevano in dibattiti spesso più ideologici che concreti senza riuscire a trovare un accordo in materia, c’è chi è riuscito ad approfittare di quel poco di liberalizzazione introdotta: dei soggetti privati, tra cui Groupon, Altroconsumo e eBay, hanno infatti consentito ad alcuni professionisti (anche ai medici, oltre agli avvocati) di pubblicizzare proposte e sconti (ad esempio 39 euro anziché 500, con un risparmio del 92%). Grazie alla loro iniziativa hanno dato la possibilità agli avvocati che lo desideravano di differenziare la loro offerta e ampliare le proprie quote di mercato.

I vantaggi di questo progetto sono molteplici: innanzitutto, è nata così una nuova professione – cosa non da poco in tempo di crisi – ossia il procacciatore di pratiche legali per gli avvocati. Inoltre si facilita l’ingresso dei giovani professionisti sul mercato che, potendo offrire tariffe più basse, possono competere con quelli già affermati e dotati di una clientela fedele. È poi evidente che il loro successo è legato a una necessità ed esigenza da parte dei cittadini, prima non soddisfatta, che possono così godere di una differenziazione di prezzo del servizio. Infine, grazie alla maggior competizione introdotta è possibile ”smascherare” e, inevitabilmente, punire con l’uscita dal mercato, i professionisti meno capaci e abili, incentivandoli così ad offrire servizi di maggiore qualità: reputazione e fama, non tariffe minime e ordini, selezionerebbero gli avvocati migliori, a ulteriore dimostrazione che bassi prezzi non sono necessariamente sinonimo di servizi scadenti. Di sicuro, non lo sarebbero nel medio-lungo periodo dopo la “prova” dei mercati. Quanti, invece, temono di incappare in un avvocato incapace o incompetente nel breve periodo, sono liberi di affidarsi ai professionisti più esperti.

La reazione degli avvocati è quella di considerarla una “liberalizzazione selvaggia”, “la vendita di diritti fondamentali senza regole e senza la possibilità di verificare la qualità con effetti devastanti per i cittadini, che si ritrovano privi di tutela”: lungi dall’essere questo un mercato pienamente liberalizzato e tantomeno selvaggiamente liberalizzato,  in realtà il sospetto è che essi semplicemente mirino ad opporsi alla concorrenza, a tutto vantaggio della tutela dei loro privilegi più che dei cittadini.

 

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Il programma europeo del (nuovo) governo /2011/11/12/il-programma-europeo-del-nuovo-governo/ /2011/11/12/il-programma-europeo-del-nuovo-governo/#comments Sat, 12 Nov 2011 19:12:28 +0000 Ugo Arrigo /?p=10507 Entro venerdì scorso il Ministro dell’Economia avrebbe dovuto rispondere a 39 dettagliati quesiti formulati dal Commissario U.E. agli Affari economici Olli Rehn in una lunga lettera dello scorso 4 novembre ma dato che il governo è dimissionario è probabile che l’incombenza passi al governo entrante (*). I 39 quesiti sono tuttavia importanti perchè essi rappresentano una sintesi delle cose che avrebbero dovuto essere fatte negli scorsi anni e che non essendo state fatte e neppure tentate si dovrà cercare di realizzare a tappe forzate nei prossimi mesi. La lettera di Rehn è una sorta di negativo, come ai tempi della vecchia fotografia su pellicola,  di un impegnativo programma di governo. Basta stamparne il positivo, le risposte che sono in gran parte implicite nelle domande, ed ecco che il programma viene fuori.

In sintesi l’Italia ha bisogno di un governo che non ha bisogno di scrivere un programma (economico) perché questo è già il suo programma. E non si dica che si tratta di un commissariamento, trattandosi di provvedimenti ovvi che avremmo dovuto prendere spontanemente nel nostro interesse da molto tempo.

Quello implicito nella lettera di Rehn è un “programma europeo” in un triplice significato:

  1. E’ indispensabile all’Italia per continuare a stare in Europa e nella moneta unica.
  2. Ce lo impone l’Europa che non vuole rischiare di fallire trascinata dal nostro fallimento.
  3. E’ il programma che qualsiasi paese europeo in cui abbia prevalso il buonsenso economico (e quindi con pochissime eccezioni) ha già realizzato. 

(*) AGGIORNAMENTO: Il Ministero dell’Economia ha in realtà risposto ai 39 punti della lettera di Rehn. Lo riporta il Sole 24 Ore pubblicando sul sito il testo integrale della lettera inviata dal MEF a Bruxelles. Sul Sussidiario.net ho formulato proposte per riforme future su alcuni dei 39 punti.

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Attenti a ciò che rischiamo! Già 50 miliardi di oneri e sarà peggio /2011/11/09/attenti-a-cio-che-rischiamo-gia-50-miliardi-di-oneri-e-sara-peggio/ /2011/11/09/attenti-a-cio-che-rischiamo-gia-50-miliardi-di-oneri-e-sara-peggio/#comments Wed, 09 Nov 2011 10:48:11 +0000 Oscar Giannino /?p=10493 Gli spread stanno impazzendo, tra poche ore rischiamo di essere a quota 600, l’intera curva dei rendimenti per ogni scadenza è sopra il 7%. L’Italia rischia non la misisone ordinaria di monitoraggio del Fmi entro fine mese, ma dopodomani una squadra speciale del Fondo che sbarchi dagli elicotteri e ci imponga la secessione temporanea dai mercati, vincoli di capitale obbligatori e sanguinose manovre di ripresa di contatto con la realtà reale: il mondo non intende farsi coinvolgere nella follia di un’Italia che non è la Grecia ma non per quello che crede la sua classe politica, cioè troppo grande per fallire, ma non lo è appunto perché siccome siamo una fonte di contagio enorme il mondo interverrà con la cavalleria aerea per sbatterci alle corde, finché cambiamo marcia e disinnestiamo il pedale dell’irresponsabilità. Forse è bene porsi una domanda precisa. Quanto costa all’Italia, la drastica accelerazione del rischio di insolvenza pubblica che i mercati hanno iniziato a stimare da luglio ad oggi? E’ un esercizio contabile che vale la pena di fare, anche se pone rilevanti problemi economico-statistici, visto che le cifre su cui si può lavorare sono per lo più da stimare per approssimazione. Tuttavia dovrebbe rappresentare un esercizio obbligato per tutti i cittadini italiani, lavoratori e imprenditori, risparmiatori e contribuenti, in modo da sottoporre a un preciso rendiconto le responsabilità politiche di ieri, oggi e domani. E’ comprensibile che vasta parte degli italiani tenda a graduare le proprie valutazioni riferendosi al tradizionale asse valoriale destra-centro-sinistra. Ma non è male tentare anche di appoggiare il proprio ragionamento a qualche numero che si riferisca anche ai valori economici. Ieri sera  ci ho provato, quando lo spread era a 495 e non a 563 dove svetta ora che posto.

Cominciamo dal contribuente. Il voto di ieri a Montecitorio è stato letto dai mercati come un aggravamento ulteriore dell’instabilità politica italiana, e della distanza da ciò che i mercati, Europa e Fondo Monetario ci chiedono per abbattere il debito pubblico più rapidamente che con il solo avanzo primario, per crescere di più, per mettere in ulteriore sicurezza spesa pubblica e pressione fiscale troppo alte per un’economia sana. Per questo abbiamo toccato quota 500 di spread tra Btp e Bund. Oltre 300 punti base in più rispetto a dove eravamo partiti a fine giugno, quando il differenziale era inferiore ai 200 punti.

Per calcolarne l’onere sui più alti interessi pubblici da pagare, bisogna ricordare che il debito di Stato attuale è oltre i 1900 miliardi di euro, ha una quota nel 2012 in scadenza compreso il disavanzo pari a circa il 23,5% dell’ammontare, superiore a quella di ogni altro Paese dell’euroarea (Grecia 16,5%, Spagna 20,6%, Portogallo 22,3%). La durata media del nostro debito è però la più alta e questo riequilibra, è pari a 7,2 anni rispetto ai 6,9 della Grecia. E la quota detenuta da stranieri è la più bassa, solo al 42%. (Grecia 55%). Tenuto conto di ciò, cento punti base di rendimenti in più significano nei tre anni successivi maggiori interessi sul debito pubblico pari a 1,2 punti di Pil, se incorporati per tre trimestri come media. Nell’ultimo quadrimestre, bisogna contare non tutti i 300 punti base in più a ieri, ma la media della maggiorazione rispetto alle aste di titoli effettivamente svolte. Siamo a circa 200 punti base in più nella media del quadrimestre. L’effetto di maggior spesa pubblica per interessi è pari a circa 2,7 punti di Pil nel triennio, circa 47 miliardi di euro. Ma poiché non voglio fare il menagramo, e mi auguro che per miracoloso sussulto di responsabilità questo o qualunque altro governo riesca in due settimane a varare tutti i provvedimenti necessari a riportare lo spread dov’era – non ci credo, ma formulo questo auspicio – allora ecco il conto di ciò che è intanto avvenuto nei 4 mesi alle nostre spalle: cioè un aggravio già determinatosi e certo intanto pari a 1 punto di Pil, pari cioè a circa 15 miliardi in più. Se li dividiamo per tre anni, ecco che l’intero piano di dismissioni pubbliche – miserello a mio giudizio – presentato dal governo nella lettera al Consiglio europeo della settimana scorsa è già andato in fumo, mangiato dagli accresciuti interessi.

Viene poi il conto per le banche. I 300 punti di spread vengono integralmente inglobati nel maggior costo a carico delle banche per la provvista di capitale a breve liquida, e su quella obbligazionaria nel mercato all’ingrosso. L’aumento del rischio sovrano genera perdite sul portafoglio finanziario, indebolendone i bilanci e aumentandone la rischiosità. Inoltre i titoli pubblici utilizzati dalle banche perdono valore come collaterale per le operazioni pronti contro termine o presso la BCE. In più, diminuiscono le garanzie pubbliche sulle passività bancarie. Infine, l’abbassamento del rating pubblico determina un abbattimento del rating delle stesse banche. E’ per questo che nei Paesi sin qui più colpiti dalla crisi, Grecia Irlanda e Portogallo, i depositi in conto corrente di famiglie e imprese sono in forte calo, mentre la remunerazione media sui depositi è aumentata dall’inizio della loro crisi, un anno e mezzo fa, di un punto mezzo percentuale, cosa che per le banche è una ulteriore compressione del margine di intermediazione.

Sommando tutte queste componenti, per le banche italiane direi che siamo nell’ordine di grandezza tra 4 e 5 punti di Pil nel biennio, cioè tra 60 e 75 miliardi di maggiori oneri e minori utili e dividendi a tutti gli effetti, se i 300 punti di spread dovessero confermarsi nel tempo diciamo per un altro quadrimestre. Intanto, un punto di Pil in più di maggior capitalizzazione è stato appena comminato dall’EBA, l’autorità bancaria europea. Tra giugno e settembre sono venuto meno con certezza già 48 miliardi di raccolta complessiva effettuata attraverso certificati di deposito e carta commerciale dagli intermediari bancari nei Paesi avanzati, siamo in presenza di un vero e  proprio inaridimento dei mercati all’ingrosso, simile a quello post Lehman.

Per finire il conto approssimativo, bisogna stimare infine il costo per i prenditori a cui i maggiori interessi e la restrizione degli impieghi viene naturalmente traslata dalle banche. Cioè sui bilanci delle famiglie, per i mutui e prestiti al consumo,e su quelli delle imprese. E infine ancora aggiungere l’abbattimento che lo spread esercita sui titolari di redditi immobiliari, visto che più lo spread sale più indici e capitalizzazione della Borsa scendono. Troppo lungo spiegare le metodologie per un calcolo approssimativo. Diciamo che per l’ultimo quadrimestre c’è da aggiungere un altro punto di Pil almeno, nell’anno a venire, e che l’elasticità è ben superiore all’unità se la cosa perdura, cioè il punto si raddoppia se dal quadrimestre giungiamo al semestre.

Come si vede, lo spread non riguarda solo le aste pubbliche ma colpisce tutti, e in tempo reale. Se sommiamo gli effetti del solo quadrimestre ultimo per i contribuenti, per le banche e i loro clienti e su chi ha investito in Borsa, siamo già ben oltre i 3 punti pieni di Pil nel 2012, intorno a 50 miliardi di euro. Tutto ciò avviene in un contesto economico complessivo di forte rallentamento delle economie reali. Ieri il centro Studi di Banca Intesa ha stimato che per questo solo effetto reale nei mesi tra giugno e settembre il fatturato delle imprese italiane perde 94 miliardi di euro nel prossimo biennio. E attenti che il conto sale ogni giorno. Ce n’è abbastanza, per chiedere alla politica un sussulto di responsabilità? E agli italiani per aprire gli occhi, e per un po’ smetterla di dividersi in tribù pensando invece a come evitare di finire ancor più sputtanati e impoveriti ora che siamo alle corde? O no?

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Oro alla patria? no grazie, ecco perché /2011/11/08/oro-alla-patria-no-grazie-ecco-perche/ /2011/11/08/oro-alla-patria-no-grazie-ecco-perche/#comments Tue, 08 Nov 2011 19:13:41 +0000 Oscar Giannino /?p=10491 Ma è davvero appropriato e giusto, chiedere che gli italiani mostrino il loro patriottismo correndo a sottoscrivere titoli del debito pubblico? L’appello lanciato da Giuliano Melani sul Corriere della sera ha fatto proseliti. E’ piaciuto alle grandi banche italiane, che hanno annunciato che rinunceranno alle commissioni sui titoli in occasione di un vero e proprio BTp Day. E’ è stata rilanciata da organi di stampa nel Nordest e molti presidenti di Unioni territoriali di Confindustria del Veneto hanno sottoscritto, tra il plauso di esponenti politici. Mi rendo conto che è assai scivoloso, rompere il coro pressoché unanime di consensi che si è levato in favore dell’iniziativa. Eppure penso sia giusto farlo.

Non per avanzare dubbi sul sincero desiderio dei suoi propugnatori, convinti di dimostrare così che l’Italia ha in sé forza e risorse per reggere alla crisi. Argomento anch’esso più che fondato, visto che l’Italia non è la Grecia e non rappresenta poco più del 2% del Pil dell’euroarea ma oltre il 13% (ma ha il 24% del debito pubblico), è il secondo Paese per valore aggiunto manifatturiero dopo la Germania, ha un export industriale che ancora in questo 2011 cresceva a doppia cifra prima della caduta del commercio mondiale fortissima nell’ultimo trimestre, e infine è dopo l’Australia il Paese più patrimonializzato in tutta l’area Ocse grazie alle virtù di risparmio e accumulazione dei suoi cittadini, e con la ricchezza netta anche meno iniquamente distribuita. Tuttavia proprio per questo penso che abbia ragione Vincenzo Boccia, il presidente della Piccola Impresa di Confindustria, che secondo me saggiamente ha gettato acqua fredda sull’entusiasmo dell’appello “risparmi alla patria”.

Poiché per professione faccio analisi di portafoglio da cui dedurre consigli all’investimento, non me la sento di dire una cosa ai risparmiatori che chiedono consulenza, e tutt’altra come giornalista. Al risparmiatore – a prescindere se disponga di elevato reddito e stock patrimoniale oppure meno – ricordo che in ogni caso gli impieghi del risparmio devono obbedire alla regole dell’equilibrio ragionevole tra rischio assunto e rendimento ricercato. E’ un criterio che riserva una quota più elevata di risparmi al maggior rischio in cambio di più elevato rendimento solo se si dispone di un certo patrimonio, e non si hanno necessità immediate di liquidare l’investimento per necessità di cassa o per acquisti straordinari. Ma in realtà è una regola che vale sempre e per per tutti.

Francamente, adottando questa regola non si può che avvisare il risparmiatore che, sottoscrivendo oggi un titolo di debito pubblico italiano che in tre mesi ha più che raddoppiato il suo spread sul pariscadenza, egli si espone in caso di liquidazione del titolo medesimo sul mercato secondario a un elevato rischio di perdita di capitale. Poiché se lo spread e il rendimento salgono ancora come sta capitando – ed è capitato ancora ieri dopo il voto a Montecitorio e la prospettiva di aumentata instabilità proiettata nel futuro – ovviamente il prezzo di realizzo diventa più basso rispetto al valore nominale, in quanto l’ acquirente subentrante si esporrà a un rischio maggiore in presenza di interessi più elevati.

Posso capire l’interesse delle maggiori banche italiane, visto che le prime cinque secondo il recente rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia a giugno scorso avevano un’esposizione verso lo Stato italiano per 173 miliardi di euro, pari al 63% di quella complessiva verso gli Stati sovrani. Per il bizzarro accordo europeo in materia bancaria sottoscritto all’ultimo Consiglio Europeo, le banche franco-tedesche non devono rafforzare il capitale obbligatorio per i titoli illiquidi Euro3 che detengono, mentre bisogna farlo per la carta pubblica in portafoglio, valutata secondo prezzi e rischi di mercato. Il che è come dire che le banche italiane vengono disincentivate a detenere titoli pubblici italiani, proprio mentre invece la Bce li acquista per sostenerli, a meno di aumentare le riserve di capitale tagliando gli impieghi a famiglie e imprese.

Capisco dunque l’interesse delle banche a vendere al pubblico i titoli di Stato detenuti. Ma la corsa di massa all’acquisto di BTp e BOT otterrebbe l’effetto voluto – abbattere gli spread e diminuire dunque gli oneri per lo Stato e il suo rischio di insolvenza – solo nel caso in cui gli italiani acquistassero pressoché integralmente quel 42% di titoli pubblici che oggi sono detenuti da non residenti, una percentuale già bassa e dunque di maggior tutela rispetto alla media del 52% dell’euroarea. Ripeto: mettersi al sicuro significherebbe dover eguagliare il Giappone, che è al riparo dalla speculazione pur con un debito pubblico doppio del nostro perché esso è pressochè per intero nelle mani di imprese, banche e risparmiatori giapponesi. Dopodiché, anche quella giapponese è una sicurezza illusoria, perché da questo dipende che da vent’anni la loro crescita sia azzerata peggio della nostra.

Aggiungo che se dovessimo pensare a 30 o 40 punti di Pil di risparmio italiano investito in BOT e Btp, inutile illudersi: sarebbero risorse sottratte alle banche e a impieghi produttivi, mica ricavate da massicce dismissioni di patrimonio immobiliare. Risorse ulteriormente levate a generare investimenti e consumi. Con effetti depressivi.

Un ultimo argomento. Capisco il patriottismo, ma lavoratori e imprenditori, contribuenti e risparmiatori italiani già pagano amaramente il costo delle riforme rinviate e delle domande europee e mondiali eluse dalla politica nostrana, per far crescere di più il Paese, abbattere il debito pubblico attraverso massicce dismissioni di immobili di Stato, abbassare spesa e tasse per esempio azzerando le pensioni di anzianità. Il costo è elevatissimo. Serve un governo di patrioti che stoppi la dissipazione di risorse e di credibilità. Forse ci si arriva prima se gli italiani protestano per i danni subiti, non se mettono essi per primi mano a un portafoglio già di tanto alleggerito.

 

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