CHICAGO BLOG » spesa pubblica http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Bunga Bunga Bonds /2010/12/11/bunga-bunga-bonds/ /2010/12/11/bunga-bunga-bonds/#comments Sat, 11 Dec 2010 17:19:30 +0000 Silvano Fait /?p=7830 A giudicare dalle apparenze l’Italia sembra un paese dove c’è ancora tanto grasso che cola: sindacalisti pignoli disposti allo sciopero quando il management rimodula i turni di lavoro, studenti che invocano più soldi alla scuola occupando strade e ferrovie con sommo disagio da parte dei pendolari e senza particolare opposizione da parte delle forze dell’ordine (le quali ovviamente sono “fasciste” per definizione, nonostante una blanda impassibilità nei confronti di chi interrompe pubblici servizi e viola la proprietà privata), politici indecisi se far cadere o far tentennare il governo, andare a nuove elezioni o coagulare nuove coalizioni. Del resto, come diceva Chuck Prince, l’ex CEO di Citibank, “As long as the music plays you have to get up and dance, and the music is still playing…” (una citazione che da sola spiega meglio di cento paper il moral hazard e la socializzazione delle perdite).

I mercati però devono aver cominciato a gettare un occhio oltre i festini di capodanno, se lo spread BTP–Bund è arrivato a superare i 200 basis point per la prima volta dal 1997. In primavera, la Spagna dovrà rifinanziarsi pesantemente e nel corso del 2011 la Repubblica Italiana dovrà chiedere, cappello alla mano, oltre 300 miliardi di euro. Se proprio non vogliamo farci andare a traverso il panettone stiamo pure zitti, ma senza una bella botta di fortuna sarà necessaria l’ennesima manovra correttiva. Abbonderanno le proposte demagogiche, del tipo: facciamo pagare “la rendita”, aumentiamo l’aliquota sui profitti finanziari. Diciamo le cose come stanno: soltanto uno stolto può pensare che incrementare le tasse sugli interessi sia la cosa giusta da farsi. L’unico margine di manovra che attualmente rimane all’Italia è l’elevato livello di risparmio domestico, e chiedere in prestito soldi ai cittadini prospettandogli un aumento di imposta (ovvero una riduzione del rendimento netto) è semplicemente “tafazziano”.

I capitali esteri, da che mondo è mondo, sono più volatili e una politica monetaria estremamente accomodante ha ridotto il costo della speculazione a livelli infimi. Praticamente nulli, visto che è possibile andare in leva allo zero virgola qualcosa e vendere CDS su debiti sovrani con la garanzia che Trichet interverrà a sostegno. Sarebbe quindi cosa buona e giusta evitare di creare un clima che ingeneri aspettative fortemente negative, non dico nelle menti di crudeli squali che nuotano nel mercato (i quali sono poco inclini a credere ai politici), ma nei risparmiatori domestici, a partire dal più scafato degli imprenditori fino a includere la nonnina novantenne. La quale avrà pure la quinta elementare (e non il titolo di “dottò” come i precari aspiranti burocrati) e conoscerà soltanto le quattro operazioni, ma ne ha viste abbastanza da aver sviluppato il fiuto necessario che le consente di sentire quel certo odor di letame attorno allo stato delle finanze pubbliche e dell’economia che spinge gli individui a favorire la prudenza e a preoccuparsi delle proprie sorti a breve termine e poco più. Paradossi dei keynesianimo mili–tonto: andare in piazza chiedendo deficit spending a colpi di sanpietrini riduce gli “animal spirits” e aumenta la “preferenza per la liquidità” …

Intanto l’Unione Europea con l’ausilio dell’IMF ha già predisposto l’ennesimo piano sposta-sfiga. Dall’Irlanda al prossimo dei PIIGS (è riapparsa una “I”). Vi è anche qualche probabilità che i suddetti si trasformino e diventino “BI–PIGS” o “PI–BIGS” visto l’esaltate andamento dei titoli di Stato belgi.

In ogni caso, se le cose dovessero peggiorare e l’unione monetaria dovesse tendere al collasso, per i nostalgici della lira verranno predisposte delle speciali emissioni di Bunga Bunga Bonds (rating BBB ovviamente…) che consentiranno una transizione indolore, un rilancio dell’export grazie al nuovo cambio svalutato, e l’ampliamento delle prestazioni sociali. I ricercatori del nulla che avanza sono invitati a scendere dai tetti e a sollevare le terga dai binari per prenotare un posto da sottoscrittore in prima fila alle Poste.

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ABS: frenare senza slittare? /2010/12/08/abs-frenare-senza-slittare/ /2010/12/08/abs-frenare-senza-slittare/#comments Wed, 08 Dec 2010 09:15:23 +0000 Pietro Monsurrò /?p=7811 Gli ABS a cui mi riferisco non sono i sistemi di frenata anti-slittamento delle automobili, ma le Asset Backed Securities: uno strano nome, suggeritomi da un’amica, per indicare il modello proposto pochi giorni fa – e parrebbe oggi prevedibilmente bocciato dai tedeschi – dai ministri lussemburghese e italiano Juncker e Tremonti sulle pagine del Financial Times. Gli autori propongono infatti di creare un’agenzia europea (EDA: European Debt Agency) che svolga una funzione di credit transformation per i titoli pubblici di tutti i paesi europei, sia quelli finanziariamente solidi come la Germania che quelli finanziariamente su, od oltre, l’orlo del baratro come la Grecia.

L’EDA emetterà obbligazioni omogenee comprando obbligazioni eterogenee. Ad esempio, potrebbe comprare 60€ di titoli tedeschi al 3%, 30€ di titoli italiani al 5% e 10€ di titoli greci al 7% (cifre arbitrarie) e offrire un’obbligazione unica da 100€ con rendimento ad esempio del 3.5%. Dopo un anno, riceverebbe capitale e interesse dai governi tedesco, italiano e greco (per un ammontare, in base ai numeri che ho dato, letteralmente, di 104€), e pagherebbe 103.5€ agli investitori nel fondo EDA, tenendo 0.5€ come profitti (al lordo delle spese di gestione). Se la Grecia pagasse per problemi di credito solo il capitale, cioè 10€, anziché anche gli interessi del 7%, il fondo EDA perderebbe invece 0.2€. Si tratta cioè di un gigantesco veicolo di investimento strutturato di proprietà pubblica.

Secondo i piani di Juncker e Tremonti, il fondo dovrebbe comprare il 50% delle emissioni primarie dei paesi europei in condizioni finanziarie normali, e fino al 100% delle emissioni primarie dei paesi europei in crisi finanziaria. Essendo il debito pubblico dei paesi dell’eurozona attualmente pari a circa 9.5 triliardi di euro e il PIL pari a circa 8,5 triliardi di euro, un fondo del genere allo stato attuale dovrebbe detenere circa il 55% del PIL dell’area euro. Tremonti e Juncker dicono il 40%, ma perché considerano il PIL europeo anziché quello dell’eurozona, e assumono che nessun paese europeo economicamente rilevante (e Grecia e Irlanda non lo sono) si trovi a dover vendere tutte le sue emissioni all’EDA perché effettivamente tagliato fuori dai mercati finanziari.

Come andrebbe gestito il fondo? Essendo un fondo pubblico, l’ABS in questione verrebbe gestito da politici o da persone appuntate dai politici. Possiamo quindi supporre che il fondo introdurrà pesanti distorsioni allocative ai mercati, visto che il suo scopo è proprio schermare i paesi finanziariamente più deboli dalle conseguenze della propria incapacità, miopia ed irresponsabilità politiche. Si comporterà come la banca centrale: farà di tutto per impedire l’aggiustamento del mercato, posticipare le dovute riforme, nascondere i problemi, riempirsi le casse di asset privi di valore per aiutare le banche (in questo caso i governi). Considerando che la manipolazione del credito è probabilmente la principale causa dell’instabilità economica e finanziaria (come ho sostenuto al recente Rothbard Seminar di Milano: “Azzardo morale, processo di mercato e crisi finanziarie”), la cosa non lascia ben sperare.

Un problema preliminare è che se il fondo deve dare liquidità al mercato, deve avere una leva ragionevole, altrimenti non riuscirebbe a garantire la credit transformation. Se il fondo venisse capitalizzato con il 2% di capitale, basterebbero perdite del 2.5% per generare perdite per gli obbligazionisti. Un capitale proprio del 2%, cioè una leva di 50 a 1, costerebbe 100 miliardi di euro. Un fondo decentemente capitalizzato richiederebbe cioè nuovi capitali per diverse centinaia di miliardi di euro. A spese ovviamente del contribuente.

Il fondo EDA eliminerebbe almeno metà del mercato primario (cioè di emissione), e quando serve l’intero mercato, dei titoli pubblici europei. L’EDA acquisterebbe titoli pubblici, assicurandone la liquidità fungendo da compratore dominante o addirittura unico. Inoltre comprerebbe titoli pubblici già emessi dai vari stati europei nel caso in cui gli investitori vogliano disfarsene, ad un prezzo pari a quello di mercato meno un haircut. Ad esempio, con un haircut del 3% sui titoli greci, l’EDA si troverebbe a comprare 100€ di titoli greci a 97€ dagli investitori che vogliano disfarsene, di fatto agendo da pavimento per i prezzi dei titoli pubblici.

Tutto dipende dal taglio dei capelli, dunque. L’haircut sarà un prezzo politico forzato al mercato dal market-maker di turno (l’EDA), esattamente come il prezzo del credito interbancario a breve (e occasionalmente anche a lungo) è fissato da un’altra autorità politica, la Banca Centrale Europea: l’equilibrio di mercato non conta, dunque, come non conta l’efficienza allocativa. Il prezzo verrà fissato in base a considerazioni di carattere politico, e paesi grandi come l’Italia avranno ovviamente una certa leva per prevenire eventuali aumenti dell’haircut. Oppure verrà fissato in modo da impedire che i paesi irresponsabili paghino le conseguenze delle proprie azioni, esattamente come la BCE agisce con le banche: l’unico problema è che eliminare le conseguenze dei propri errori incentiva proprio quel tipo di azioni che producono rischi sistemici. La soluzione ad un’overdose non è assumere un’altra dose di droga.

Juncker e Tremonti parlano inoltre di profitti. Solo se il mercato sovrastima la probabilità di fallimento dei titoli europei è però possibile fare profitti dalla trasformazione di credito. Se la crisi dovesse perdurare, l’EDA dovrebbe essere ricapitalizzata dai contribuenti europei, cosa che potrebbe capitare anche alla BCE, dovesse subire perdite sui rifiuti tossici che ha comprato negli ultimi anni (la BCE, in realtà, potrebbe stampare moneta per ricapitalizzarsi, anche se con alcuni vincoli legali da rispettare).

Non è impossibile che il mercato sovrastimi la probabilità di fallimento dei paesi sovrani. Un agente neutrale al rischio che stimasse la probabilità di fallimento della Grecia pari al 33% sarebbe indifferente tra un titolo tedesco al 3% e un titolo greco al 4%. Spread superiori implicano probabilità di fallimento stimate superiori, oppure avversione al rischio da parte degli investitori, cosa che in tempo di crisi ha un ruolo fondamentale nel determinare gli spread. L’EDA potrebbe operare come agente relativamente neutrale al rischio e arbitraggiare i tassi, guadagnando profitti. O potrebbe correggere stime di fallimento supposte eccessive. In entrambe i casi, si fornirà credito a costo inferiore ai paesi che hanno ampiamente dimostrato di non saperne fare buon uso. Fare arbitraggio sulla risk aversion privata, e peggio ancora sostituirsi al pricing di mercato del rischio, è una garanzia per manipolare i mercati e generare moral hazard: l’EDA complementerebbe dunque il ruolo, nefasto nel lungo termine perché incompatibile col regolare funzionamento dei mercati, della banca centrale.

Eppure non è detto che queste valutazioni siano eccessivamente pessimistiche. Se la crisi durerà ancora a lungo (quella giapponese va avanti imperterrita da 20 anni), il debito pubblico continuerà a crescere e la struttura finanziaria dei paesi e delle banche europee rimarrà fragile e soggetta a potenziali reazioni a catena (perdite sugli asset => perdite sul capitale bancario => perdite per deleveraging => ulteriori perdite sugli asset), diventa forse ragionevole pensare che nessuno vorrà tenere titoli PIGS decennali in portafoglio. L’Irlanda ha voluto garantire le sue banche e ora ne pagherà le conseguenze. L’unica differenza è che l’Europa nel suo complesso è sufficientemente grade da potersi permettere di creare disastri ben maggiori prima che il banco salti. Un po’ come il Giappone, che resiste da ormai due decenni a qualsiasi tentativo di razionalizzare la sua economia, sacrificando lo sviluppo economico, e dunque le generazioni future.

Nessuno si fiderà mai dell’euro finché l’unico scopo delle autorità fiscali e monetarie europee sarà quello di nascondere la polvere sotto il tappeto: una qualunque colf farebbe un lavoro migliore, e ad un costo di molto inferiore. L’Europa ha bisogno di realizzare le perdite delle banche, ridurre la fragilità sistemica ricapitalizzando i mercati finanziari, e tagliare la spesa pubblica, il deficit e il debito per migliorare le prospettive di crescita economica nel lungo termine ed allontanare lo spettro dei fallimenti sovrani. Il resto non solo non serve, ma genererebbe ulteriori distorsioni, incentivi perversi, e scuse per non riformare.

I sintomi servono ad indicare le malattie: l’abuso dei farmaci sintomatici viola, dunque, il giuramento di Ippocrate. Non è riempiendo le casseforti della BCE di debiti suini (PIGS) o creando un nuovo strumento di manipolazione dei mercati che si risolvono i problemi. Abbiamo messo tonnelate di stucco sulle crepe della diga, ma nessuno pare si sia preoccupato finora di abbassare il livello delle acque a monte facendole defluire a valle. Qualcuno si prenderà la responsabilità di fare una cosa del genere, prima o poi? Sono tre anni che è scoppiata la crisi, e il modello “chiudiamo gli occhi e fingiamo che i problemi scompaiano” è ancora la strategia favorita dalle nostre istituzioni. L’EDA è un piano di lungo termine? Forse in Unione Sovietica, trattandosi di socializzare interi mercati. Può funzionare per prender tempo e prepararsi ad affrontare meglio la crisi? Probabilmente sì, ma che garanzie danno le nostre istituzioni questa volta si comporteranno in maniera lungimirante e responsabile, quando a tre anni dall’inizio della crisi non hanno fatto nulla di tutto ciò?

Come sempre, aveva visto giusto Mises: “Le vie di mezzo portano al socialismo”. Nel nostro, caso, a politiche incompatibili col funzionamento dei mercati, e che sostituiscono a questi l’arbitrio di istituzioni incapaci di guardare in faccia la realtà, di prendere decisioni coraggiose, e di risolvere, in definitiva, più problemi di quanti ne creano. L’importante è stuccare le crepe: prima che la diga salti, si avrà tempo per trovare un capro espiatorio.

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No eurobond, tre cose servono all’Italia /2010/12/07/no-eurobond-tre-cose-servono-allitalia/ /2010/12/07/no-eurobond-tre-cose-servono-allitalia/#comments Tue, 07 Dec 2010 17:35:39 +0000 Oscar Giannino /?p=7802 Dunque come previsto all’Ecofin la Germania ha detto no. No sia al rafforzamento dell’EFSF: tradotto, significa non c’è capienza per salvare Portogallo e Spagna. Sia alla proposta Tremonti-Juncker di eurobond avanzata ieri sul FT. Il ministro italiano dell’Economia ha dichiarato di essere ottimista, anche l’EFSF l’Italia lo propose a fine 2008 e molti risero, poi la Grecia in panne nella primavera 2010 obbligò a vararlo. Lo stesso avverrà per gli eurobond, pensa Tremonti. Vedremo al Conmsiglio Europeo e al summit dei capi di Stato e  di governo che lo segue. A me non pare probabile che le cose si smuovgano, e oltretutto la proposta di un’Agenzia del Debito Europeo che rilevi debito dei membri eurozona fino al 40% del Pil comune e cioè di ciascun membro, mantiene due punti che non mi sono affatto chiari e che anzi mi appaiono temibili. Continuo a pensarla come Roberto Perotti oggi sul Sole. Era meglio ristrutturare il debito greco a febbraio, avviare cioè un semidefault che avrebbe scoraggiato a insistere tutti gli altri membri “eurodeboli”. Congiuntamente credo che il problema irrisolto sia quello delle banche innanzitutto tedesche e francesi, come ho scritto ieri. E che comunque l’Italian dovrebbe fare tre cose, subito e di suo, senza confidare negli eurobond.

I due punti non chiari – a me almeno – della proposta Tremonti-Juncker riguardano: i tassi ai quali si praticherebbe lo swap tra debito nazionale e debito dell’EDA; il premio ai più deboli.  I tassi d imercato cioè spread compresi sono esclusi, naturalmente, in sede ci conversione. I proponenti hanno parlato di conversione  “alla pari”, e hanno aggiunto che anzi andrebbe assicurato un premio ai Paesi sotto stress. E’ come dire che aboliamo dal 50 al 100%b il potere del mercato di esprimere un giudizio sui diversi premi di rischio Paese: non si tratta di essere tedeschi, per respingere un’idea di questo tipo. E’ evidente che incoraggia comportamenti irresponsabili, da parte della politica fiscale e di bilancio a livello nazionale.  La seconda proposta non chiara riguarda il proposto meccanismo di sostegno da parte dell’EDA al finanziamento di almeno il 50% dei nuovi titoli che sarebbero emessi dagli Stati membri, e anche qui si propone di giungere fino al 100% dui finanziamento in caso di stress. Un secondo e temibile premio all’azzardo morale dei governi.

Veniamo all’Italia. Tremonti, tra manovra pluriennale estiva e correzioni nella legge di stabilità per il 2011, ha frenato il deficit tendenziale dello 0,9% di Pil per il 2011, e dell’1,5% sia nel 2012 che nel 2013. Altri hanno dovuto fare sforzi multipli di tali grandezze. La spiegazione del perché siano stati “costretti” a fare più dell’Italia si chiama avanzo primario. Il saldo primario è la differenza tra uscite e entrate, al netto della spesa per interessi sul debito. Tra i 16 paesi dell’eurozona l’Italia è in testa. Positivo nel 2008 (+2,5% del Pil) il saldo primario italiano ha girato, causa recessione, per la prima volta dal 1991 in territorio negativo nel 2009 (-0,6%). Per il 2010, si dovrebbe chiudere di poco sotto lo zero. Per tornare ad avanzo primario positivo nel 2011. Livelli nettamente migliori della media dell’eurozona, pari a -3,6% nel 2010 e a -2,9% nel 2011. Tra i big, la Germania registrerà disavanzi primari nel 2010 e 2011 del -2,3% e -2%, la Francia del -5,4% e -4,5%. Terribili gli andamenti dell’Irlanda (-8,8% e -7,6%), Spagna (-7,6% e -7,2%). Meglio la Grecia post massicci tagli primaverili(-4,0% e -4,1%).

Ma il premio di rischio dei titoli pubblici dipende da altre due cose: dalla crescita, dall’ammontare di interessi da pagare sul debito. Eccoli, i talloni d’Achille del nostro Paese. L’aumento del Pil italiano è dell’1,1% quest’anno e l’anno prossimo, previsto in lieve miglioramento nel 2012 all’1,4%. La serie tedesca è 3,7%, 2,2% e 2%. Quella francese +1,6% in 2010 e 2011, 1,8% nel 2012. Quando la crescita di un Paese è inferiore agli oneri sul debito, o l’avanzo primario compensa la differenza oppure il debito pubblico sale ancora. Noi siamo su quella via: ma tutti quelli che gridano contro Tremonti, al centro e a sinistra, vogliono più spesa pubblica.

Infine, gli interessi sul debito. Siamo più esposti alle oscillazioni degli spread di altri che hanno avanzi primari peggiori. Per diluire il più possibile gli interessi del debito ed accrescere la durata media dei titoli emessi noi teniamo in media quattro aste al mese, due di titoli a breve e due a durata medio-lunga. L’ammontare è minore delle maxi aste concentrate in pochi mesi adottate dai più nell’eurozona. Una strategia ottima quando è basso lo spread, come nel primo decennio dell’euro. Quando il mercato balla, più emissioni si traducono in più occasioni per il mercato di premere il doppio pedale tra basso prezzo nominale di acquisto e alto rendimento. Per questo siamo finiti sopra i 200 punti base, la settimana scorsa.

In conclusione: la finanza pubblica italiana è apparentemente più sotto controllo che tra i nostri partner, come pura dinamica di spesa comparata. Ma la bassa crescita e l’esposizione alla volatilità consigliano tre cose. Non abbassare la guardia, cioè spendere meno e non di più. Molto meno, per abbattere le tasse. E, se possibile, una manovra di rientro straordinario del debito. Il patrimonio immobiliare liquidabile pubblico – escluso tutto ciò che è vincolato, non parliamo di Colosseo e Pompei – vale circa 500 miliardi. Cederne anche solo due terzi, con veicoli e procedure di mercato, abbassa il debito pubblico di 20 punti di Pil, al di sotto della media dell’eurozona l’anno prossimo. Sarebbe la fine dell’eccezione italiana, la premessa per concentrarsi sulla vera sfida: crescere di più.

eniamo all’Italia.

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Trasporto regionale: poco mercato e tanti sussidi /2010/11/23/trasporto-regionale-poco-mercato-e-tanti-sussidi/ /2010/11/23/trasporto-regionale-poco-mercato-e-tanti-sussidi/#comments Tue, 23 Nov 2010 11:13:08 +0000 Francesco Ramella /?p=7666 Da pochi giorni è stato avviato il nuovo servizio ferroviario fra Milano e Torino di Arenaways, la prima azienda privata a sfidare il monopolista pubblico nel settore del trasporto locale di passeggeri. Le cronache dei giornali hanno ampiamente parlato dei mille dispetti che Trenitalia ha fatto al nuovo concorrente. D’altra parte, c’era da aspettarselo, visto che è Trenitalia a gestire i servizi di stazione che, secondo ogni logica, dovrebbero essere affidati a una società terza. Ma la cosa peggiore è che, proprio alla vigilia dell’avvio del nuovo servizio, è arrivata la decisione dell’“Ursf” (Ufficio per la regolazione dei servizi ferroviari, in realtà una branca minore del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti), che impedisce ai convogli di effettuare fermate nelle stazioni intermedie, trasformando così un servizio concepito come “regionale” in uno diretto “a media percorrenza”. Non è difficile immaginare come ciò abbia modificato i calcoli di convenienza del nuovo operatore: ecco un esempio dei costi dell’incertezza regolatoria.
Prosegui la lettura…

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Chi ha troppi soldi, noi o lo stato? – di Antonio Martino /2010/11/19/chi-ha-troppi-soldi-noi-o-lo-stato-%e2%80%93-di-antonio-martino/ /2010/11/19/chi-ha-troppi-soldi-noi-o-lo-stato-%e2%80%93-di-antonio-martino/#comments Fri, 19 Nov 2010 10:04:07 +0000 Guest /?p=7642 Quando, il 23 novembre 1986, mi rivolsi ai 35.000 partecipanti alla marcia dei contribuenti di Torino, debuttai dicendo pressappoco: “Siamo qui da neanche un’ora e lo Stato italiano ha speso (?) mila miliardi, ne ha incassati (?) mila e ha contratto nuovi debiti per (?) mila.” Le cifre esatte, ovviamente, a distanza di tanti anni non le ricordo più, ma ricordo l’obiettivo di questa mia premessa. Volevo illustrare la tesi che, come sostenuto da Oscar Wilde, “il tempo è spreco di denaro”.

L’iniziativa dell’IBL si muove nella stessa direzione e, anche se i problemi di misurazione dello stock di debito sono notevoli, merita il nostro plauso. La ragione è molto semplice: le persone normali vivono in una dimensione monetaria che non conosce i milioni o i miliardi di euro. Quando si parla, quindi, di quei numeri, la convinzione di chi ascolta è che la cosa non riguardi lui, che di quelle somme non sa alcunché, ma altri. Se ci si limita a indicare valori pro-capite il discorso, anche se indubbiamente più comprensibile, non è tanto efficace quanto vedere le lancette di un orologio che scandiscono la corsa verso la bancarotta.

Quel maledetto orologio non si guasta mai, neanche fosse di produzione elvetica! Continua a marciare imperterrito nonostante gli eroici sforzi dei nostri governanti che, sprezzanti del pericolo, continuano a tartassarci nell’implicita convinzione che noi abbiamo troppi soldi e lo Stato, invece, troppo pochi. Come una fanfaluca di tale fatta possa essere ancora propalata senza arrossire è un mistero che supera l’umana comprensione.

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Debito, Irlanda e quattro lezioni /2010/11/17/debito-irlanda-e-quattro-lezioni/ /2010/11/17/debito-irlanda-e-quattro-lezioni/#comments Wed, 17 Nov 2010 13:13:32 +0000 Oscar Giannino /?p=7631 Ho vinto una scommessa che avrei voluto perdere. Su Panorama la settimana scorsa ho lanciato un appello alla politica italiana, perché nella crisi non si faccia prendere la mano dall’irresponsabilità e tenga bene a mente il debito pubblico italiano (non casualmente, visto il contatore del terrore cioè del debito pubblico che qui pubblichiamo). Apposta, però, su Panorama ho moltiplicato per dieci la cifra, nella convinzione che, abituati come siamo a considerare il debito come una percentuale del Pil, nessuno faccia caso davvero al suo vero ammontare. Come purtroppo temevo, nessuno se n’è accorto. I casi sono due. O nessuno mi legge, e allora il direttore fa bene ad additarmi la porta. Oppure vuol dire che davvero siamo in pochissimi, ad avere idea che il debito pubblico italiano ammonta – ora che sono le 12,30 di mercoledì 17 novembre 2010 – a oltre 1.857 miliardi di euro. E che ogni secondo aumenta di oltre 2300 euro, 150 mila al minuto, quasi 9 milioni di euro l’ora, oltre 200 milioni di euro ogni giorno che Dio manda in terra.

Sarà bene che la politica italiana e soprattutto le opposizioni vecchie, nuove e nuovissime la ricordino bene, questa cifra. Che la aggiornino costantemente. Nelle prossime settimane e mesi di instabilità ogni fesseria sulla finanza pubblica italiana può trascinarci dritti dritti nella crisi dell’eurodebito. Dove grazie alla tanto criticata lesina del governo siamo riusciti ad evitare di trovarci in compagnia di Grecia ieri, Irlanda e Portogallo oggi. Anche se poi la lesina e basta non ha compiuto alcuna scelta tra quelle prioritarie, che servivano al’Italia per crescere, scelta che avrebbe implicato scontentare alcuni tagliando enegicamente spesa loro riservata, per concentrarsi su altro.

E’ il caso che i ferventi architetti di maggioranze e governi nuovi, e i teorici magari di sante alleanze tra opposti da Vendola a Fini, alzino lo sguardo dalle alchimie e dalle legittime ambizioni di ciascuno, per ricordare quattro semplici cose. La prima è che la Germania non fa sconti: sbaglia chi crede che la Merkel abbia parlato per incompetenza, quando ha chiesto che dal 2013 i Paesi dell’eurozona ad alto debito espongano chi ha comprato i loro titoli a rimetterci interessi e capitale. La Germania spinge così i mercati a credere che ci saranno due gironi nell’euro. Chi è rigoroso nei conti pubblici e produttivo nell’economia reale sta nel primo, chi no sta nel secondo e pagherà interessi altissimi. Se finiamo nel secondo girone siamo fritti. Ci bruciamo tutto il vantaggio dell’euro cioè pagare annualmente solo 4 punti di Pil di interessi sul debito, invece che 7, 8 o 9 come un tempo.

Secondo. L’Irlanda non è per niente pazza come in molti la dipingono, a respingere gli aiuti “coatti” europei. Lo fa perché non tollera l’idea che Bruxelles imponga di alzare le tasse. Fossi irlandese la penserei anch’io così. Perché il futuro, come il passato, è di chi ha basse tasse e spesa pubblica. Anche se ha dovuto fare deficit pazzeschi per salvare le banche, non bisogna dimenticare che così sarà.

Terzo. Nella guerra tra dollaro e yuan, è l’euro a fare il vaso di coccio, ed è l’Europa a contare poco, tranne il ristretto girone tedesco, per altro alleato alla Cina. E’ lì che dobbiamo stare: non certo con le tasse patrimoniali che la sinistra ha in serbo se vince.

Quarto. L’intero mondo avanzato compie oggi un enorme travaso di risorse verso chi oggi rappresenta il futuro, cioè l’Asia sinocentrica. Le masse gestite dai fondi di investimento europei dirette a quei Paesi emergenti ammontavano a 168 miliardi di € nel 2008, a 440 miliardi quest’anno. Il Financial Times ha stimato che toccheranno i 769 miliardi nel 2014. Più è alto il rischio di finire nel girone dantesco europeo se facciamo fesserie, più risorse perderemo per la crescita italiana. Dall’interno, perché scapperanno all’estero. E dall’estero, perché andranno altrove.

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In piccolo, si può smuovere anche il Quirinale /2010/11/12/in-piccolo-si-puo-smuovere-anche-il-quirinale/ /2010/11/12/in-piccolo-si-puo-smuovere-anche-il-quirinale/#comments Fri, 12 Nov 2010 20:55:39 +0000 Oscar Giannino /?p=7575 Segnalo giusto tre particolari non troppo secondari, a conclusione della giornata: abbiamo lasciato sul sito di questo blog lo stesso intervento video del sottoscritto da mesi, e purtroppo c’era un perché; la scelta del contatore del terrore, cioè del debito pubblico, oggi si comprova di bruciante attualità; in piccolo, sono riuscito senza sforzo e con un minimo di fatica a ottenere che il Quirinale uscisse dall’ambiguità sulla spesa pubblica. Soddisfazioni intellettuali, certo. Solo queste, del resto, possiamo qui permetterci.  Le illusioni dell’eurosalvataggio, recita il titolo del contributo video che ho deciso di lasciare sulla prima pagina di Chicago Blog ormai dai tempi del compromesso in extremis colto al salvataggio greco con la nascita dell’EFSF, in realtà cuscino di ultima istanza rispetto all’intervento che in sede europea resta prioritario per tempi, disponibilità di risorse e competenze, cioè quello del Fondo Monetario Internazionale.  Non l’ho lasciato lì per prigrizia. Era evidente sin dal primo giorno della soluzione maturata sei mesi fa che essa non avrebbe retto al tempo. La Germania restava e resta semopr epiù il vero Paese leader per bilancia commerciale, dei pagamenti, produttività e dunque crescita, nonché per il vincolo ostativo a strumenti strutturali di salvataggio visti i suoi vincoli costituzionali a duifesa della sovranità nazionale. Dall’altra parte, altri paesi oltre la Grecia restavano ineressati da squilibri di bilancia di pagamenti, come il Protogallo che nelle partite correnti sta a meno 11% di PIL, o di bolle ancora non completamente emerse e rettificate con perdite, come l’Irlanda in campo bancario. Quel che non potevamo sapere con certezza ma solo prevedere, e lo abbiamo previsto, è che i due fattori di debolezza intrinseca del compromesso sarebbero stati ulteriormente minati  dalla guerra delle valute rialimentata dalle contraddizioni della politica “lasca” americana sia in campo fiscale e di bilancio sia monetario  da parte della FED, con il conseguente piantarsi della crescita USA, l’indebolimento che l’euro forte apporta ai Paesi più deboli dell’eurozona rispetto alla Germania, e la frenata generale anche europea tranne che a Berlino e a Londra per effetto delle recenti durissime misure di finanza pubblica. I nuovi record storici di questi giorni degli spread irlandesi e portoghesi sul BUND ci danno purtroppo ragione. La conferenza stampa congiunta al G20 dei ministri delle Finanze dei grandi Paesi europei è stata oggi la conferma che siamo di nuovo sull’orlo di un cratere vulcanico. delò resto, la germania ha fatto la sua scelta. sta con la Cina e contro l’America. Io la capisco, ma per noi son dolori.

Secondo: la necessità di fernare il corso del nostro contatore del terrore cioè del debito publico è confermata dal fatto che oggi anche lo spread dei BTP italiani sul BUND ha superato con 192 punti il rec0rd dello scorso inizio giugno. La consolante tesi per la quale l’Italia era fuori dalla crisi non è destinata a restare vera, con questi chiari di luna politici. E non perché io difenda il governo berlusocni o Giulio Tremonti. Al contrario, servirebbero credibili impegni politici adeguati alla bnuova cornice di instabilità. Cioè un governo stabile e un ministro dell’Economia capace e in condizioni di assicurare  un serio èpiano pluriennale di ridimensionamento della spesa pubblica in termini reali, a fronte di credibili , paralleli e immediati sgravi fiscali a imprese e lavoratori. Il governo che sta tirando le cuoia in questi giorni ha creduto e scelto di non poterlo fare per non alzare la temperatura delle polemiche sociali, stanta la difesa a testuggine da parte delle mille lobbies italiane del milione di rivoli della spesa pubblica, che ha continuato a salire in questi anni nella sua parte corrente mentre scendeva in quella per investimenti. Prima che sia troppo tardi, bisogna invertire il segno di questa scelta. Invertitrla con forza e durezza. Indicando in cinque -sei punti di spesa pubbluica e pressione fisdale in meno l’orizzonte triennale di provvedimenti che ridisegnino alcuni punti essenziali del welfare  e della macchina pubblica italiana, con cessioni al mercato di interi comparti di servizi pubblicui che pre restare tali devono essere offerti secondo standard di qualità e di efficienza, ma non gestiti più da dipendenti pubblici pagati dal contribuente. Altrimenti, bisogna sapere che inevitabilmente o quasi  -dietro l’angolo i nuovi governi e le nuove alchimie che ci sta preparando una politica priva di visione in ogni area politica, al centro come a sinistra come a maggior ragione nella destra resa afasica dal dramma berlusconico – magari dopo un’elezione confusa e senza vincitori dotati di maggioranza coesa, la soluzione sarà quella di una patrimoniale con la scusa che chi c’era prima ha raccontato balle.  ma non una patrimoniale come ponte di breve termine per l’adozione immediata di una flat tax di convergenza tra reddito delle persone fisiche e giuridiche sul 20%. Una patrimoniale e basta, per reperire le nuove risorse che tutti vogliono spendere per far ancora lievitare la spesa pubblica.

Per questo, ieri sera a Porta a porta, ho deciso con un minimo di doppiezza di sollevare il caso della nota del Quirinale che affermava, a due giorni soli dall’inderogabilità richiamata dal Colle dell’approvazione della legge di stabilità, che non si poteva andare avanti con tagli continui. Una nota ambigua, ho detto. Che correva il rischio di essere imbracciata dal partito della spesa pubblica – quello che da Pompei ai teatri, dai film ai ricercatori universitari  confonde lo sviluppo con i denari del contribuente – come un’insperatata e autorevolissima legittimazione.  Stamattina ho rilanciato la palla, intervistando gasparri a La versione di Oscar su radio 24 glie l’ho fatto ridire. Il Quirinale a quel punto ha deciso di emettere una nota di precisazione, il cui senso è non bisogna accrescere il deficit  ma bisogna fare scelte precise invece che tagli lineari.

E’ già qualcosa, ed è comunque un successo. Non possiamio soperare che il Quirinale si metta a dire insieme a noi che la via giusta è quella in realtà di comprimere energicamente spesa pubblica e tasse . Ma, in piccolo, siamo almeno riusiti a fargli dire che non bisogna fare più deficit, ed è già qualcosa in questa povera disastrata Italia.

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Una lettura tedesca del nuovo Patto di Stabilità /2010/11/06/una-lettura-tedesca-del-nuovo-patto-di-stabilita/ /2010/11/06/una-lettura-tedesca-del-nuovo-patto-di-stabilita/#comments Sat, 06 Nov 2010 14:13:35 +0000 Giovanni Boggero /?p=7472 Come abbiamo scritto per Aspenia nel nostro lungo articolo che uscirà nei prossimi giorni, il compromesso raggiunto a Deauville tra la signora Merkel e il Presidente francese Sarkozy non è né una vittoria della linea dura, seguita dalla Cancelliera prima di allargare i cordoni della borsa, né una vittoria della linea morbida, abbracciata dalla Cancelliera con l’approvazione degli aiuti alla Grecia e l’istituzione del cd. Fondo di stabilizzazione.

Fatta la tara alle equazioni un po’ semplicistiche, il nuovo Patto di Stabilità è una via di mezzo tra questi due opposti. Benché Ulrike Guerot giudichi l’accordo come un netto successo per la Germania, una certa ambiguità di fondo la si nota anche nel titolo del suo articolo: a more European Germany – on German terms, laddove il neo-europeismo tedesco convive con un pizzico di sale teutonico. Da buona “prodiana” Angela Merkel ha insomma usato bastone e carota. E non è certo la prima volta. In patria tutto si è detto fuorché la Cancelliera sia stata la restauratrice del rigore. L’FDP e diversi organi di stampa le hanno rimproverato grande debolezza per non aver preteso l’applicazione di sanzioni automatiche e per aver protratto l’esistenza del Fondo di stabilizzazione. Lei ha replicato che “il congelamento dei diritti di voto è già previsto dal Trattato odierno”. Un bluff. La rinuncia alla sospensione del diritto di voto in caso di deficit eccessivi è stata funzionale ad ottenere la clausola della partecipazione dei creditori alla ristrutturazione, che molti commentatori fuori dai confini tedeschi considerano suscettibile di segnare un cambio di passo nella gestione delle finanze pubbliche da parte degli Stati membri.

A mio avviso, nell’accordo si trovano sia rigore sia solidarietà, disciplina di bilancio e perequazione, “euroscetticismo” ed “euroentusiasmo”. Il rigore sta appunto nell’eventualità di una ristrutturazione del debito per gli Stati spendaccioni, la solidarietà sta nel Fondo di stabilizzazione, approvato a maggio in fretta e furia e di fatto senza il crisma della copertura giuridica dei Trattati e ora reso permanente tramite un “annacquamento” dell’art. 122 TFUE. Tutto dipende insomma da come verrà dosata questa miscela. Per ora il mercato, come correttamente mostra Mario Seminerio su Il Fatto quotidiano, ha apprezzato lo sforzo rigorista.

In ultimo, una questione più prettamente giuridica. La proposta di revisione che Hermann Van Rompuy presenterà nel Consiglio europeo di dicembre dovrebbe finalmente prevedere l’uso delle cd. clausole dinamiche di modifica. In particolare si dovrebbe passare per l’art. 48 § 6 TFUE.

Anche qui condivido solo parzialmente quanto scrive Ulrike Guerot. Per due ragioni:

a) Benché la riforma semplificata del Trattato eviti le forche caudine della ratifica, la cosiddetta legge di responsabilità per l’integrazione (IntVG), che ha recepito le indicazioni della Corte Costituzionale tedesca nella sua celebre sentenza del 30 giugno 2009, ha esplicitamente previsto che tale ipotesi vada trattata come un normale caso di trasferimento di poteri sovrani e che quindi necessiti di una legge di approvazione nelle forme di una legge ex. art. 23 I comma della Legge fondamentale; non è chiaro se tale legge dovrà essere approvata ex proposizione 2 o ex proposizione 3 del medesimo articolo. La proposizione 3 verrebbe in rilievo, qualora si ritenesse che la modifica dei Trattati rechi disposizioni modificative od integrative della Legge fondamentale.  In tal caso  Bundestag e Bundesrat dovranno esprimersi a favore con una maggioranza qualificata di due terzi. Il ruolo dell’opposizione diverrebbe cioè fondamentale.

b) E’ vero che la riscrittura dei Trattati frustrerà probabilmente il ricorso dei famosi giuristi ed economisti, essendo d’ora in poi il Fondo di stabilizzazione ancorato direttamente nei Trattati. La Merkel terrà quindi a bada la cd. Terza Camera, superando l’ostacolo dell’art. 125 TFUE, che pur permane sulla carta. Ma ciò non toglie che Karlsruhe possa valutare comunque incostituzionale il meccanismo a livello di diritto interno. Oggi forse questo rischio la Cancelliera lo corre meno. Presidente della Corte Costituzionale non è più Hans-Jürgen Papier, ma il giovane Andreas Voßkuhle, di tendenze socialdemocratiche e abbastanza europeista. Tale cambio di marcia, impresso con la recente sentenza Mangold, dovrebbe insomma far dormire notti tranquille alla Cancelliera. Il mastino Schachtschneider, artefice dei ricorsi da Maastricht fino ad oggi, è però sempre dietro l’angolo…

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Piccolo Guinness delle corbellerie su Alitalia /2010/11/04/piccolo-guinness-delle-corbellerie-su-alitalia/ /2010/11/04/piccolo-guinness-delle-corbellerie-su-alitalia/#comments Wed, 03 Nov 2010 23:15:50 +0000 Ugo Arrigo /?p=7460 Un’unanimità di no ha accolto l’idea di Rocco Sabelli di suggerire nel 2013 agli azionisti di Alitalia una fusione con Air France: “Alitalia dovrà rimanere italiana” (Berlusconi);  ”Questo può essere un pensiero di Sabelli (l’integrazione in Air France) ma certamente non è condiviso dagli azionisti”; “Alitalia deve rimanere italiana” (Matteoli), “No a fusione con Air France” (Alemanno),  “Sabelli chiarisca su Air France” (Epifani), “La compagnia resti italiana” (Polverini). Zingaretti, presidente della provincia di Roma, è preoccupato per l’occupazione: “I tagli occupazionali che nascono da una fusione sarebbero pagati esclusivamente da migliaia di lavoratori del nostro territorio…”; Meta, capogruppo PD nella commissione trasporti della Camera teme un “… impoverimento gravissimo per il sistema del trasporto aereo nazionale”.

Hanno ragione? Per nostra fortuna disponiamo di un controfatto, un evento del tutto simile accaduto sette anni fa: l’aggregazione di Klm in Air France decisa nel 2003 e divenuta operativa nel 2004. Se essi hanno ragione ci aspettiamo di poter documentare un drastico impoverimento del sistema del trasporto aereo olandese, un crollo nell’occupazione di piloti, hostess e personale di terra, frotte di turisti internazionali diretti ad Amsterdam e invece perfidamente dirottati da Air France a visitare la Tour Eiffell, il Louvre ed Eurodisney.

Ovviamente niente di tutto questo:

  • dal 2003 a oggi Klm è cresciuta del 30% (pax km trasportati) mentre Air France, azienda incorporante, è cresciuta un pò meno (il 27%);
  • il gruppo Air France-Klm è divenuto grazie all’aggregazione il primo in Europa e il secondo nel mondo;
  • dal 2003 ad oggi è il gruppo che è crescito di più in Europa;
  • negli ultimi anni l’occupazione del solo ramo Klm è aumentata di 3 mila unità.

Cosa è successo invece ad Alitalia nello stesso periodo, grazie al nazionalismo economico e al protezionismo nei confronti delle regole del mercato? Ricordiamo che in questo periodo, dopo aver mancato un’occasione di matrimonio con Klm, Aitalia ne ha mancate altre due con Air France.

  • dal 2003 ad oggi Alitalia ha perso un decimo del traffico se non consideriamo AirOne e un quinto se la consideriamo;
  • l’occupazione è scesa di un terzo;
  • la quota di mercato si è contratta di oltre un terzo;
  • tra il 2003 e il 2007 ha cumulato 2,6 mld. di perdite;
  • nel 2008 il ‘salvataggio’ si stima sia costato per maxiperdita del 2008, mancati introiti da vendita a Air France, oneri pubblici per rimborsi ad azionisti ed obbligazionisti, oneri assistenziali per personale in esibero, mancati introiti fiscali e contributivi per ridimensionamento aziendale almeno ulteriori 3 mld.

Bastano i due gruppi di dati per dimostare che i nostri ‘opinion makers’ italiani hanno pesantemente torto mentre ha avuto ragione l’Olanda nel 2003 a favorire l’aggregazione? Eppure per l’Olanda vendere  era molto più difficile perchè quel paese è una monarchia e Klm è l’unica azienda aeronautica europea ad avere la corona reale nel logo (passa in genere inosservata ma è visibilissima) e l’aggettivo reale nel nome: Koninklijke Luchtvaart Maatschappij, Compagnia reale di aviazione.

Persino Margaret Thatcher non riuscì a privatizzare Royal Mail ma ora ci riprova David Cameron, così come ci aveva provato anche Gordon Brown un paio d’anni fa. Allora l’azienda europea con migliori chances di entrare come socio-gestore di Royal Mail era TNT, azienda postale olandese che prima di globalizzarsi comperando il corriere australiano TNT si chiamava in realtà KPN - Koninklike Ptt Nederland. Si nota la K iniziale che sta anche in KLM, infatti il nome vuol dire Poste reali olandesi, ed è superfluo precisare che si tratta di un’azienda completamente privatizzata e della quale il governo non possiede più neppure un’azione. Utile anche ricordare che TNT, già KPN, è in Italia il principale, seppur piccolo, competitore della statalissima Poste Italiane la quale si appresta a statalizzare, con la benedizione del non-reale Tremonti, anche il Mediocredito Centrale.

Morale della favola: nel nord Europa anche le regine hanno capito il mercato, missione che sembra invece impossibile per i  nostri politici nord mediterranei. Con buona pace del contribuente, azionista a forza di imprese sur-reali che non vedrà mai dividendi nè servizi pubblici passabili.

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La vera bussola: l’orologio del terrore debito pubblico /2010/11/01/la-vera-bussola-lorologio-del-terrore-debito-pubblico/ /2010/11/01/la-vera-bussola-lorologio-del-terrore-debito-pubblico/#comments Mon, 01 Nov 2010 18:18:27 +0000 Oscar Giannino /?p=7429 Da qualche giorno sul sito dell’Istituto Bruno Leoni e su questo blog – in alto a destra – trovate una novità. Abbiamo deciso di introdurla proprio perché la situazione politica sta visibilmente e tangibilmente precipitando. Questa volta, fa molta fatica a funzionare il consueto meccanismo reattivo di addossare il tentativo di delegittimare il premier all’opposizione strenua di procure e media ostili – ci sono entrambi, a mio giudizio è un fatto costitutivo della Costituzione materiale italiana dacché Berlusocni è in campo, e lui le ha del resto anche deliberatamente alimentate con continuie sfide per polarizzare il Paese. Vedremo che avverrà della telefonata del premier al gabinetto della Questura di Milano, per rilasciare la minorenne Ruby dopo l’avviso personale dato al premier da una prostituta brasiliana. Da ormai vecchio osservatore della politica, mi limito a notare che questa volta l’accorruomo di tutto il centrodestra a difesa del premier fatica anch’esso visibilmente a scattare. La Lega è nervosa. Al Senato, dopo il documento dei 25, il Pdl da solo non sembra più di fatto avere una maggioranza autonoma dai finiani, come aveva pensato tre settimane fa. L’assenza di dibattito esplicito nel Pdl per la sua natura carismatica rende il partito soggetto, nelle malaparate, a improvvise cadute, fughe in avanti e fughe laterali di parlamentari e amministratori.  Quel che si diffonde d’ora in ora è una sensazione peggiore dell’incertezza: siamo tra il panico del che fare, e la rassegnazione sussurrata de ‘”l’avevo detto io”, tranne il fatto che a dirlo in pubblico al Capo non era stato naturalmente nessuno. Poiché in tali condizioni può avvenire in effetti pressoché di tutto, abbiamo deciso come liberisti antistatalisti di dare un piccolo contributo perché tutti – classi dirigenti come ogni singolo cittadino – abbiano una bussola sicura alla quale guardare. La bussola è il nostro spaventoso debito pubblico. Per questo abbiamo elaborato il contatore del debito pubblico italiano, che come vedete cresce di più di 2 mila e 700 euro ogni secondo che Dio manda in terra (vedte l’aggiornamento moltiplicato per tre perchè avviene appunto ogni 3 secondi). Ci stiamo dando da fare per installarlo in qualche piazza di grande città del Paese, a costo di cercare denari tra sostenitori volontari per ammortizzarne il costo. La rivoluzione della serietà italiana non può che partire dal basso. E per questo bisogna che ciascuno abbia ben chiara l’idea del debito pubblico che pende in continua crescita sulle nostre teste, e conosca minuto per minuto il pessimo regalo che ci fa la politica del famelico statalismo sciupone. Vi aggiungeremo un contatore individuale, ancor più esplicito dei troppi zeri dell’ammontare complessivo. Fin da ora vi diciamo: dateci una mano.

Naturalmente, non ci siamo inventati niente. Era il 1989, quando l’immobiliarista newyorkese conservatore Seymour Durst ebbe l’idea di installare un public debt clock all’angolo tra Times Square e la 42a Strada. Dopo l’interruzione per qualche anno, quando il debito inizio a ridursi, oggi è sulla Sixth Avenue. Seymour è morto da 15 anni, ci pensa suo figlio a continuarne la mabnuitenzione: dal’89 a oggi il debito pubblico USA è quadruplicato.  Sia per Bush figlio, sia per l’immensa botta di deficit pubblico di Obama. Quella che Paul Krugman giudica tutti i giorni insufficiente e inadeguata. E che mi auguro costi invece il controllo del Congresso ai democratici, nel midterm di domani.

Noi siamo tra quelli che pensano che debito pubblico e banche centrali che lo monetizzano siano la via alla stagnazione e all’instabilità. Una strada maestra è quella di tagliare la tanta pessima e inutile spesa pubblica, abbattere le tasse con energia e in maniera credibile – cioè in modo che famiglie e imprese non debbano temere che si gtratti di un esperimento a tempo dopo il quale le tasse risaliranno più di prima, per fronteggiare magari il deficit ulteriormente accresciuto. Per questo – assumendo come certo l’imperfettismo dell’uomo e l’inaffidabilità dei suoi impegni, e massime se è uomo politico – i tedeschi si sono messi un bel vincolo in Costituzione, al deficit e alle tasse. Io vorrei la stessa cosa.

Penso che la stragrande maggioranza degli italiani paghi altissime tasse senza rendersi conto davvero, di quanto immenso sia il debito pubblico e di quanto nulla si faccia per diminuirlo, e molto invece per continuare ad accrescerlo.  Per questo, a Berlino per esempio un analogo contatore sovrasta il portone di un’associazione di contribuenti, il Bund der Steuerzahler. Penso che da noi l’idea dovrebbe essere venuta ad associazioni d’impresa di tutti i tipi, industriali commercianti e artigiani, alle rappresentanze dei professionisti e dei lavoratori autonomi, delle partite IVA come agli stessi sindacati. Ma se non ce l’ha avuta nessuno, anche perché purtroppo la vita pubblica italiana è un continuo tentativo di assicurarsi per sé fette crescenti di risorse del contribuente con la scusa di questo o quell’incentivo, allora ci pensiamo noi.

Diffido e anzi dispero, che la politica italiana imbocchi la strada di una energica riduzione del debito pubblico e delle tasse. Le modalità concrete ci sono, ne abbiamo parlato e le abbiamo illustrate mille volte, dalla vendita del patrimonio all’uscita dal perimetro pubblico di grandi comparti di servizi che possono essere meglio roganizzati e offerti al pubblico se gestiti da privati e con personale privato, nel rispetto di rigorosi e semplici standard invigilati da autorità di settore.

Ma proprio perché la politica italiana non lo ha fatto finora e assai difficilmente lo vorrà fare ora, che a Berlusconi anzi si appioppa tra gli altri difetti anche quello di aver accresciuto di troppo poco il deficit pubblico, allora ecco a che cosa serve il nostro orologio. E’ un orologio del terrore che ci riguarda assai più da vicino di quello che misurava durante la Guerra Fredda il tempo che ci separava da una guerra nucleare. Di fronte al contatore del terrore fiscale italiano, una volta che le mettessimo in qualche piazza, ogni anno saremmo pronti a contarci il giorno in cui si finisce di lavorare per lo Stato ladro e corruttore, che spende e anzi in larga misura dilapida il 52,5% del PIl italiano. E a giurare ogni volta il nostro impegno a opporci, con parole e opere perché l’opinione pubblica capisca e reagisca, protesti e si ribelli. Saremmo in pochi all’inizio, inutile iludersi: ma è così che iniziano le rotture nella storia. Pochi apparenti pazzi, che svegliano con la loro testa dura il senno addormentato e rassegnato dei più. Perché non è lo Stato che fa l’uomo, come dannatamente si pensa ormai nel nostro Paese e i tutti quelli colpiti dall’ondata di statalismo keynesista, ma l’uomo lo Stato.

Ps: Una nota metodologica, per rassicurarvi su come sono elaborate le cifre dell’orologio del terrore fiscale. Abbiamo stimato il tasso medio di incremento stagionale, che correggiamo ogni mese sulla base dei dati Bankitalia del mese precedente. In sostanza partiamo dall’assunzione – rozza, per questo la dichiariamo – che se in passato il debito cresceva più nel mese x che nel mese y secondo gli andamenti del ciclo della spesa pubblica, anche in futuro probabilmente lo farà. L’errore però è contenuto perché, non appena esce il dato “vero” sul mese x, noi ne teniamo conto in 2 modi: a- correggendo manualmente il contatore (cioè se il dato vero è 100 e noi abbiamo stimato 99 o 101, inseriamo manualmente 100): in questo modo sappiamo che, qualunque errore dovesse essere riportato sul valore assoluto, non può durare più di un mese; b- usiamo il dato reale sullo stock del mese x naturalmente anche per correggere la stima sul tasso di incremento a venire.

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