CHICAGO BLOG » sindacato http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Mirafiori, il patto di Natale è sto-ri-co /2010/12/23/mirafiori-il-patto-di-natale-e-sto-ri-co/ /2010/12/23/mirafiori-il-patto-di-natale-e-sto-ri-co/#comments Thu, 23 Dec 2010 19:41:55 +0000 Oscar Giannino /?p=7901 L’accordo per Mirafiori è storico e decisivo. In pochi giorni, è diventato evidente a tutti che c’erano tutte le premesse per chiudere oggi stesso l’intesa di massima. Le rappresentanze dei lavoratori iscritti a Cisl, Uil e Fismic hanno ribadito che la disponibilità è piena, ed il favore esplicito all’ultima proposta avanzata da Sergio Marchionne. Quella di subordinare la decisione dell’azienda di investire il quasi miliardo di euro annunciato per il potenziamento di Mirafiori a una prova di democrazia diretta, estesa a tutti i lavoratori dello stabilimento. Se l’intesa passa con la maggioranza dei voti tra i lavoratori, anche solo col 51% ha detto Marchionne, allora si va avanti, s’investe e si lavora tutti alle nuove condizioni. ma con ua decisiva innovazione: la newco nasce fuori dall’accordo interconfederale del 93, che a differenza dello Statuto dei lavoratori consentiva anche a chi non firmava i contratti di presentare liste per le rappresentanze sindacali godendo di tutti i diritti. In altre parole, chi non firma a Mirafiori sta fuori. Gli altri sindacati non ne potevano più di una Fiom che non firma da tre contratti dei metalmeccanici, ma è sempre pronta a riorganizzare manifestazioni e scioperi. Marchionne riscatta gli ultimi decenni di storia Fiat, tenacemente ferma sul punto che senza Fiom non si andava avanti nelle intese, ma in compenso si ottenevano gli aiuti pubblici. E’ una svolta profondissima: e ora bisogna sperare e fare in modo che nelle urne i sindacati che condividano tale impostazione non vengano travolti dalla pressione terrible che media e intellettuali metteranno in campo, a favore della Fiom e in nome naturalmente dei diritti violati.  Perché se questa linea passa a Miafiori, si estende a macchia d’olio finalmente nel Paese. Superando persino la ritrosia di Confidustria, dovuta al fatto che molti in Federmeccanica temono la durezza della ritorsione Fiom.

La Fiom è durissima nel respingere l’accordo. Giorgio Cremaschi, presidente nazionale del comitato centrale della Fiom, è stato il primo giorni fa a dirsi contrario al referendum e l’ha definito illegittimo. Perché non è nella disponibilità della maggioranza dei dipendenti di Mirafiori tirarsi fuori dal contratto nazionale, sostiene Cremaschi, ma solo tutti i metalmeccanici italiani potrebbero a maggioranza deciderlo. Quali visioni di fondo e valori si contrappongono, in questo no? Tentiamo di capirlo al di là delle scomuniche, perché si tratta di temi decisivi per la vita del Paese, non solo per Mirafiori che è comunque un simbolo pregiato dell’intera storia industriale italiana.

La tesi di Cremaschi e di chi dice no è che il contratto nazionale, le sue norme su retribuzioni e utilizzo degli  impianti, turni e straordinari, retribuzioni e diritti sindacali, non sono nella disponibilità dei singoli lavoratori. Solo le parti nazionali – sindacati e imprese – possono insieme definirli e modificarli. Altrimenti, se passa il principio per il quale gli orari come lo sciopero possono essere ridefiniti per consenso maggioritario nelle singole aziende, è come rinunciare una volta per tutte al motivo ideale per il quale nacquero i contratti nazionali: come espressione cioè della solidarietà che i lavoratori più forti, attraverso la loro lotta, davano a quelli più deboli, cioè più esposti ad offerte inferiori delle imprese e al loro ricatto.

Storicamente, è stato esattamente così, è illogico negarlo. Ma c’è un motivo altrettanto vero, per superare questa impostazione. La storia è andata avanti. E, come sempre, la storia la fa chi a sfide nuove risponde con soluzioni nuove. Non siamo né ai primi del Novecento, né negli anni Cinquanta e Sessanta. L’Italia resta un Paese in cui per fortuna la manifattura continua a pesare assai più che in altri Paesi avanzati, e questo dà forza al nostro export e realizza il più della crescita italiana.  Ma  è tramontata  l’illusione che esistesse un percorso obbligato per il quale le imprese piccole diventavano medie, le medie grandi, e gli operai sempre di più e sempre più standardizzate nei loro processi organizzativi come nelle condizioni di lavoro.

Da decenni, sappiamo che non è così. La crisi ci ha messo poi duramente di fronte a una realtà completamente diversa. Quella di grandi Paesi che ci sono concorrenti diretti nella manifattura sui mercati esteri, che sono più competitivi di noi per via di relazioni industriali completamente diverse. Basate su grandi accordi aziendali e non nazionali di categoria, perché le esigenze di adeguamento al mutare della domanda di ogni prodotto e modello sono diverse. E spesso, per esempio negli Stati Uniti come in Germania, intese aziendali agevolate dal fatto che l’impresa di trova di fronte un sindacato unico, non l’eterogenea pluralità di sigle che nella realtà italiana sono figlie della complicata evoluzione ideologico-politica del nostro paese.

E’ di fronte a questa realtà e alla sfida che essa rappresenta per l’impresa italiana – ripeto per tutta quella italiana, non solo per Mirafiori e la Fiat – che occorre definire regole nuove. Questa volta “dal basso”, azienda per azienda e stabilimento per stabilimento, invece che dall’alto come avvenne quando sindacati e masse operaie giustamente affermarono il proprio diritto di fronte a un’impresa abituata a a trattarli non con giustizia ma al più con paternalismo. Ed è  per questo che serve e servono i referendum, in modo che siano tutti i lavoratori a decidere, sulle intese definite tra aziende e sindacati. Definite anch’esse maggioritariamente. Perché questo è ciò che esprime la grande novità rispetto al passato, il non consentire più un diritto di veto a chi dice no nella convinzione che senza unanimità nulla possa cambiare.

Era una regola che la stessa Fiat per molti anni ha difeso, e che indusse il presidente di Confindustria Montezemolo a non fare un passo per anni, quando la Cgil si alzò dal tavolo per i nuovi assetti contrattuali. Oggi, continuare con quel metodo significherebbe uscire da settori interi della produzione e della concorrenza sui mercati. Sarebbe questa, la conseguenza di continuare e pensare che in materia di lavoro esistono solo diritti collettivi, e non diritti individuali, con lavoratori liberi di esprimere il loro sì o il loro no a più turni per più salario detassato, con l’aliquota unica del 10%, salario che altrimenti non ci sarebbe.  Ma liberi anche di esprimere il loro sì alle nuove norme contro l’assenteismo di comodo e le finte malattie, quei fenomeni che in alcuni stabilimenti Fiat esistono e che con i diritti dei lavoratori non c’entrano nulla.

Dopo Pomigliano, il Patto di natalòe per Mirafiori può essere una nuova data storica. L’accordo di Natale per un’Italia che non abbassa la testa sui mercati, e che veda aziende, sindacati e lavoratori capaci di condividere a maggioranza e di vincere insieme le sfide del mondo nuovo. Ora bisogna vincere nelle urne. Per Bonanni e Angeletti non sarà facile, bisognerebbe autotassarsi per dargli una scorta aggiuntiva. Prevedo infatti lo scatenarsi du una guerra ideologica durissima.

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Quel ridicolo, demenziale sciopero del calcio /2010/12/07/quel-ridicolo-demenziale-sciopero-del-calcio/ /2010/12/07/quel-ridicolo-demenziale-sciopero-del-calcio/#comments Tue, 07 Dec 2010 20:19:22 +0000 Oscar Giannino /?p=7804 Alla fine la trattativa tra Lega Calcio e Associalciatori è ripresa a oltranza, dopo il richiamo dell’Alta Corte del Coni. E un accordo a non rompere pare, in extremis, definito. Ma bisogna dirlo comunque. E’ stata l’idea stessa dell’Associazione dei calciatori italiani che è sul punto di esser ritirata, aver proclamato cioè per domenica sciopero negli stadi, a rappresentare un’amara fotografia dei tempi in cui viviamo. Non si possono usare mezzi termini. Il solo averla procalamata e minacciata esprime una grande mancanza di senso della misura. E di consapevolezza. Laddove senso della misura e consapevolezza non vanno commisurati alla condizione del giocatore professionista di calcio, ma rapportati invece alla condizione generale del Paese, e a come concretamente se la passano ogni giorno milioni e milioni di cittadini e lavoratori italiani. In quattro parole: uno schiaffo alla miseria.

Bisogna per forza immaginare che si tratti di un eccesso a cui l’Assocalciatori è giunta dopo mesi di braccio di ferro, visto che già a settembre scorso la situazione era al punto odierno e un primo sciopero fu evitato in extremis. Solo che in questi mesi, evidentemente, si è persa di vista l’Italia, si è smarrito il senso profondo delle cose, quello che tutte le collega in una diversa scala di valori e proporzioni. Si stenta a credere che, se davvero raccolti in una grande assemblea, i calciatori italiani, che ogni domenica sono esposti agli incoraggiamenti e agli applausi ma anche ai fischi dei tifosi, davvero avrebbero potuto condividere e votare una simile decisione. Non dico l’avvocato Campana ma loro che calcano i campi, quanto meno, dovrebbero sapere che una simile decisione li esporrebbe non solo a sacrosanta protesta, ma a un vero e proprio dileggio. A una rottura profonda con il cuore, la testa e la pancia dell’Italia.

Assocalciatori ha ripetuto che ila questione dei fuori rosa – ancora una volta accantonata, a stare alle indiscrezioni – configura un diritto essenziale, sul quale non si tratta. Ma una rapida cernita alla gerarchia dei diritti individuali e collettivi del lavoro italiano, come sanciti dal diritto e dalla giurisprudenza, difficilmente troverebbe un giurista disposto a sostenere davvero che allenarsi obbligatoriamente con l’intera squadra, e non con un programma differenziato deciso dalla società sportiva, configuri per il giocatore professionista un diritto costituzionale inalienabile. Si può comprendere che i giocatori la pensino diversamente, di fronte alla valutazione di un tecnico e della società di non considerarli più tendenzialmente prima e sistematicamente poi in prima rosa, e di avviarli infine a cessione. Ma è pazzesco essere anche solo sfiorati, dall’idea di poter accostare come analoga questa situazione del professionista del pallone al licenziato da uno stabilimento.

E’ invece proprio questa, la convinzione che i calciatori hanno diffuso intorno a sé, con il loro sciopero minacciato. Nessuno nel loro mondo associativo si è posto una mano sulla coscienza, pensando al milione di italiani espulsi in due anni dal mondo del lavoro per effetto della crisi, e al milione e duecentomila che già non trovavano lavoro prima della discesa di 6 punti del Pil? E per quanto i calciatori non guadagnino proprio tutti i pacchi di milioni di euro l’anno che sono appannaggio dei più grandi campioni, possibile che non ricordino che il reddito medio degli italiani annuo sta intorno ai 20 mila, e sotto in molte aree del Paese?

Si dirà: quando si tratta del proprio contratto, ogni categoria pensa al suo. Giusto. Ma l’apporto a una squadra di un calciatore non si misura coi tempi scanditi e i volumi metrici delle produzioni in reparto, né le pause e i recuperi sono quelli di un operaio o di un impiegato. Soprattutto se pensiamo poi alle tante anomalie che nei decenni hanno caratterizzato il calcio nella sua dimensione societaria, e che gravano ancora sulla sostenibilità di moltissimi club, per via delle debolezze del loro conto economico consolidato, dell’aver chiuso un occhio a criteri di redazione dei bilanci patrimoniali fuori dal codice civile, dell’aver consentito quotazioni in Borsa in assenza di asset materiali.

Tener conto di tutto questo, è il minimo che si possa chiedere ai calciatori italiani. E’ un bene per loro innanzitutto, che lo sciopero sia revocato. La prossima volta che dovessero ritenere di essere a un punto di rottura con i club, pensino a forme di protesta del tutto diverse. Organizzino incontri gratuiti per i disoccupati, per esempio. Tre maxi amichevoli, una per i colpiti dall’alluvione in Veneto, una per i terremotati dell’Aquila, una per le vittime della mafia e della ndrangheta. Facciano capire a tutti che si battono per quel che è giusto e con spirito solidale, ma senza dimenticare mai che cosa l’Italia di oggi coi suoi problemi gravi, rispetto ai loro.

Nel gennaio del 411 avanti cristo Atene fu attraversata da una febbre improvvisa, allorché Aristofane alle feste Lenee rappresentò una sua commedia. Si intitolava Lisistrata, e metteva in scena lo sciopero delle ateniesi e spartane, contro la guerra del Peloponneso combattuta per anni dai mariti. Era uno sciopero particolare: il primo sciopero del sesso. Eppure, la commedia fu un grande successo: proponeva uno sciopero mai visto, ma per uscire da una terribile guerra. La lezione è questa: quanto più si sta in alto nella piramide sociale, tanto più uno sciopero sembra ai più che stanno in basso solo quel che si riduce a essere. Uno schiaffo alla miseria.

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La rivoluzione delle ferrovie /2010/11/11/la-rivoluzione-delle-ferrovie/ /2010/11/11/la-rivoluzione-delle-ferrovie/#comments Wed, 10 Nov 2010 23:43:25 +0000 Ugo Arrigo /?p=7550

Tra governo, ferrovieri e azienda è guerra aperta. Con una direttiva bomba al management delle Ferrovie firmata dal presidente del consiglio … e destinata a rivoluzionare gestione, agevolazioni, organizzazione del lavoro e contrattualistica della Spa, ieri Palazzo Chigi ha aperto un drammatico braccio di ferro con i sindacati che hanno già proclamato due giornate di sciopero generale del personale viaggiante … Ma cosa prevede di tanto drammatico questo documento che il segretario della Fit Cisl … ha bollato come “una bomba atomica, un inaccettabile attacco alla contrattazione collettiva e alla autonomia delle parti”? … le Ferrovie dello Stato si suddivideranno in due società: una per la gestione della rete e l’ altra per la gestione del servizio; all’ interno di queste due società ne saranno create altre che si occuperanno dei diversi servizi di trasporto (viaggiatori, merci, locale) e della manutenzione dei treni. Tutte le attività estranee al “core business” del trasporto infine andranno cedute il più rapidamente possibile. “Il Governo …, con un atto di occupazione e di imperio, ha deciso lo smembramento societario delle Ferrovie, lo smembramento contrattuale dei ferrovieri, l’ azzeramento di ogni possibilità di rinnovo contrattuale, l’ abolizione delle concessioni di viaggio”. (Repubblica)

 Alle Ferrovie dello Stato mai sciopero fu tanto repentino, rabbioso e unanime. Venuti a conoscenza del fatto che il governo aveva deciso di creare con una apposita direttiva una cornice giuridico-amministrativa e di indirizzo gestionale …, le organizzazioni sindacali dei ferrovieri in attività e quelli già in pensione, con una tempestività incredibile ed una mobilitazione senza precedenti riunivano gli stati maggiori, allertavano le maestranze e, nel giro di poche ore, al governo veniva dato il ben servito: una valanga di agitazioni. E sulla parola d’ ordine della mobilitazione senza riserve si sono trovati subito tutti d’ accordo, Confederali e Ugl, autonomi e comitati di base, sindacatini di categoria e cani sciolti. Ma tanta compattezza da cosa nasce? Una direttiva governativa che pure mette in discussione la natura giuridica di molti dei contratti della galassia rotaia può generare uno strappo cosi lacerante? Oppure ha senso pensare che tanta voglia di scontro possa nascere solo dalla difesa di interessi corporativi? Le nove cartelle di Palazzo Chigi rapppresentano una svolta in un certo senso storica i cui effetti potranno essere valutati, nella loro reale portata, solo tra qualche tempo. Con quel documento il presidente del consiglio e il ministro dei trasporti … pongono precisi paletti operativi ed organizzativi che non possono essere sottovalutati. … Il governo con la sua direttiva si attribuisce il diritto, proprio dell’ azionista, di effettuare controlli e verifiche: ogni quattro mesi esami per tutti. Tempi e modalità di confronto che il sindacato nella gestione del vecchio ente prima e della Spa … non ha mai accettato. Il sindacato con le decisioni di ieri torna ad essere controparte sindacale e basta. …. E’ la fine di un’ epoca, il tramonto di quella gestione peronista tra partiti e sindacati che con Lodovico Ligato aveva toccato il culmine e che ora il governo sembra intenzionato ad annullare del tutto. (Repubblica)

No, non si tratta di cronache marziane, alla Orson Welles che spaventa i radioascoltatori americani recitando ‘La guerra di mondi’ di H.G. Wells, per intenderci, e  neppure di un testo inventato per mettere in (cattiva) luce l’immobilismo ferroviario, evidenziato nel precedente post di Filippo Cavazzoni. Sono invece frammenti di veri articoli giornalistici, pubblicati da Repubblica il 1° febbraio 1997 per illustrare i contenuti e le reazioni alla direttiva ”Linee guida per il risanamento delle Ferrovie dello Stato”, emanata dall’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi il giorno precedente, 31 gennaio. Cosa prevedeva di così tanto rivoluzionario quella direttiva, elaborata dal Dipartimento Economico di Palazzo Chigi, ora abolito ma  allora guidato da Stefano Parisi, e frutto della ‘pazzia’ riformatrice dello scrivente, che all’epoca svolgeva da quelle parti il ruolo di esperto economico, e di tutti coloro che ci diedero retta? (Giova ricordare  il famoso detto del sen. Andreotti: “Nei manicomi circolano due tipi di pazzi, quelli che si credono Napoleone e quelli che pensano di poter risanare poste e ferrovie”).

Prevedeva una  cosa fondamentale molto semplice (più molte altre importanti ma complementari), quella di dividere il monopolista FS in quattro aziende separate: il gestore dell’infrastruttura; il servizio passeggeri a lunga distanza; il servizio di trasporto regionale; il trasporto delle merci. La scissione in quattro realtà distinte era condizione necessaria per due passaggi successivi che allora non venivano esplicitati: (i) la liberalizzazione del mercato con l’apertura della rete alla concorrenza; (ii) la privatizzazione dei segmenti che avrebbero dovuto reggersi sul mercato senza oneri per il contribuente, cioè il trasporto passeggeri sulle lunghe distanze e le merci. Ovviamente non si fece nulla di tutto questo e siamo infatti all’identico punto al quale ci fermammo allora, salvo il non secondario aspetto che la concorrenza è ora legalmente possibile ma per nulla benvenuta.

Si conferma in tal modo una mia vecchia definizione di  ‘liberalizzazione’ (all’italiana):  “Sostituzione dei divieti normativi che impediscono il libero accesso ad un mercato con ostacoli di altra natura ed equivalente efficacia”. La rivoluzione delle ferrovie durò infatti solo dodici giorni dato che, dopo un assedio fisico dei ferrovieri all’ufficio del Ministro dei trasporti (indubbiamente favorito dal condividire, Ministero e Azienda FS, lo stesso palazzo) e uno sciopero generale delle ferrovie che fermò l’Italia, il Ministro sottoscrisse con le OO.SS un accordo il 12 febbraio nel quale si impegnava (verso il vero azionista di riferimento dell’azienda) a non dar seguito agli aspetti più innovativi e rilevanti della Direttiva. E qui finisce la storia dato che da allora le ferrovie sono rimaste, economicamente parlando, praticamente immobili.

Inutile precisare che se la Direttiva fosse stata applicata non si parlerebbe più di nessuno dei problemi che sono ora al centro del dibattito sulle ferrovie. I problemi di oggi erano già stati risolti 14 anni fa, purtroppi per soli 12 giorni. Lo stesso 1° febbraio 1997 il compianto Prof. Claudio Demattè, che in  seguito sarebbe anche stato presidente dell’azienda, così commentava la Direttiva sulle colonne del Corriere della Sera in un commento intitolato “Passi indispensabili per la liberalizzazione”:

Finalmente sembra che qualcosa si metta in moto sul fronte delle aziende pubbliche: l’azionista si e’ fatto sentire e ha mandato segnali forti e chiari. Tanto forti e chiari che ha subito innescato le dure reazioni del groviglio di interessi corporativi, interni ed esterni, incistati come il vischio sulle imprese pubbliche, in particolare su quelle che sono vissute a lungo in stato di monopolio. Da questo punto di vista, Stet, Enel e Ferrovie sono tre casi emblematici, cui si possono aggiungere le Autostrade. … Tutti e quattro gli enti sono caratterizzati da una gestione in condizioni di monopolio. Tutti e quattro hanno difeso questo loro stato reclamando lo stato di “monopolio naturale”, come se non vi fosse alternativa alcuna alla struttura che si sono dati. Tutti e quattro per espletare le loro funzioni svolgono un vasto insieme di attività. Una di queste non e’ duplicabile senza danni ambientali e senza incremento di costi: è l’impianto e la gestione della rete. Le altre attività possono senza troppi problemi e con molti benefici per i cittadini essere espletate da altre imprese e comunque in regime di concorrenza. Invece questi enti si sono sviluppati come dei mostri integrati verticalmente e diversificati orizzontalmente in attività che potrebbero benissimo essere gestite in outsourcing a costi inferiori. In breve, sono tuttora, nel Duemila o quasi, dei coacervi aggrovigliati ed inefficienti con servizi di bassa qualità e con costi non in linea con quelli che si potrebbero avere con una gestione più snella e articolata.

E così proseguiva:

Le direttive del governo sono di una semplicità disarmante. Ricalcano ciò che le grandi imprese private integrate e diversificate hanno fatto da anni per essere efficienti e ciò che negli altri Paesi sviluppati e’ già stato applicato anche alle imprese pubbliche: separare l’attività che e’ la ragione del monopolio naturale per gestirla con regime speciale; scindere le altre attività in nuclei omogenei per competenze richieste e per funzionalità, facendone imprese distinte; aprirle alla concorrenza, dismettere, ancora prima della privatizzazione del resto, ciò che e’ estraneo all’attività fondamentale; concentrare su questa le risorse e gli investimenti; fissare standard di qualità dei servizi; disboscare le agevolazioni di favore; privatizzare i vari pezzi per creare concorrenza ed aprire prospettive dinamiche di sviluppo. Direttive semplici che in qualsiasi scuola di management verrebbero classificate come l’ABC della buona gestione. Le reazioni? Dure, ma prevedibili per chi conosce la forza dei poteri costituiti, con alleanze trasversali che uniscono destra, sinistra, sindacati corporativi e manager da anni allenati a vivere e sopravvivere in questi strani grovigli. Il fatto che in questi giorni si sia fatto qualche passo avanti di buon auspicio. Ma tutti i cittadini e tutte le imprese dovrebbero vigilare affinché i piani proseguano speditamente, perché non c’e’ speranza ne’ di un miglioramento della qualità dei servizi ne’ di uno sviluppo trascinato dalla liberalizzazione ne’ di costi minori per gli utenti se non si sbrogliano queste intricate matasse.

Nei giorni della direttiva  i sindacati difendevano la loro posizione adducendo principalmente ragioni di difesa dell’occupazione. Ad esempio il responsabile Cisl del comparto ferrovieri così rispondeva ad una domanda del Corriere della Sera il 2 febbraio:

Quanti sono i posti di lavoro in pericolo? “Trenta – trentacinquemila …”

Al 31 dicembre 1996 i dipendenti FS erano 126 mila e secondo le previsioni del sindacalista Cisl con l’applicazione della direttiva si sarebbe corso il rischio di una loro riduzione a 91-96 mila. Peccato, invece, che con la disapplicazione della direttiva si siano ridotti, al 31.12.2009, a 85 mila.

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Quando, a Milano, la Camera del Lavoro dava lezioni di liberismo /2010/10/27/quando-a-milano-la-camera-del-lavoro-dava-lezioni-di-liberismo/ /2010/10/27/quando-a-milano-la-camera-del-lavoro-dava-lezioni-di-liberismo/#comments Wed, 27 Oct 2010 16:55:30 +0000 Carlo Lottieri /?p=7415 La presentazione pubblica, martedì scorso, del coraggioso volume di Riccardo Cappello (“Il cappio. Perché gli ordini professionali soffocano l’economia”, edito di recente dalle edizioni Rubbettino) ha offerto spunti di notevoli interesse. Oltre a Donatella Parrini, a Nicola Iannello e all’autore, ha partecipato all’iniziativa – tenutasi in un’aula del Senato (qui vi è la registrazione) – anche Pietro Ichino, che come gli altri intervenuti ha mostrato di apprezzare il volume,  si è espresso apertamente contro il corporativismo che domina l’Italia e contro la legge di riforma in discussione (che quelle logiche si propone di rafforzare), e infine ha pure ricordato un gustoso episodio, da lui vissuto in prima persona.

Avvocato e al tempo stesso iscritto alla Cgil, per anni Ichino ha operato presso la Camera del Lavoro, a Milano, a difesa di quanti avevano bisogno di una tutela legale. I professionisti che la Cgil metteva a disposizione dei propri associati, però, non ricevano un onorario in linea con i minimi fissati dall’ordine degli avvocati, ma venivano retribuiti secondo un meccanismo che in qualche modo anticipava il contigent fee: una piccola quota percentuale di quanto l’operaio otteneva, in caso di successo, finiva all’avvocato. Ed era certamente meno di quanto un legale avrebbe ottenuto in un rapporto professionale ordinario.

Si capisce perché le cose funzionassero così. Gli avvocati prestavano tale servizio anche sulla base di una motivazione ideale, e lo facevano indirizzandosi spesso a persone con un reddito modesto, che non avrebbero avuto tutela se avessero dovuto retribuire il legale secondo i parametri prefissati.

Quando però la cosa si seppe, l’avvocato Ichino venne convocato dall’ordine, a quel tempo guidato da Giuseppe Prisco, che gli fece presente come il suo comportamento e quello degli altri avvocati della Camera del Lavoro fosse illegale. Ichino però non indietreggiò, chiedendo anzi a Prisco e all’ordine di adire le vie legali nei loro riguardi, dato che poteva essere una buona occasione per mettere in discussione i minimi stessi e aprire un contenzioso in grado di smuovere la situazione. All’italiana, alla fine l’ordine finse di non vedere e tutto restò come prima.

L’episodio è interessante, anche perché fa piacere constatare come – in date circostanze – la Camera del Lavoro abbia giocato “su posizioni liberiste”. Quando la regolazione impedisce a un sindacato di operare secondo le proprie logiche e seguendo la propria ispirazione, è normale che esso si ribelli dinanzi a quella forma di dirigismo e la metta in discussione. Ma è triste dover prendere atto che, qualche decennio dopo, il tema della difesa corporativa dei compensi professionali minimi resta d’attualità, a causa di un ceto politico che continua a essere prigioniero della parte più miope e arretrata del mondo dei professionisti.

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Houston qui Fiom: abbiamo un problema /2010/09/01/houston-qui-fiom-abbiamo-un-problema/ /2010/09/01/houston-qui-fiom-abbiamo-un-problema/#comments Wed, 01 Sep 2010 15:13:03 +0000 Oscar Giannino /?p=6930 Maurizio Landini è il capo della Fiom Cgil, e ha un problema. Non è quello dei tre licenziati alla Fiat di Melfi e reintegrati dal giudice. Quell’operazione che alla Fiom è riuscita benissimo. Lo dico con il massimo rispetto per i tre lavoratori e le loro famiglie. A essere riuscita – grazie a un’informazione un po’ troppo sprovvista delle fondamentali nozioni tecniche in materia di reintegri disposti dal giudice – è la manovra per la quale si è deliberatamente confusa un’ordinanza emessa ex articolo 28 dello Statuto dei lavoratori con una ex articolo 18. Decenni di giurisprudenza abbastanza consolidata comprovano che quando il giudice non ravvisa la giusta causa per un licenziamento, il reintegro è non solo retributivo e contributivo ma anche sul posto di lavoro. Quando invece – come a Melfi – l’ordinanza d’urgenza avviene ex articolo 28, cioè contro un provvedimento disciplinare verso il quale può sussistere il fumus persecutionis antisindacale, in realtà un precedente in giurisprudenza non c’è. Per questo, la stampa nazionale avrebbe dovuto bocciare l’atteggiamento Fiom, e spiegare che – a impugnative simmetricamente pendenti tanto dell’azienda quanto dei lavoratori – era inoltre del tutto singolare un intervento come quello del Quirinale, e di esponenti della gerarchia ecclesiastica italiana. Quindi è vero: nella battaglia mediatica, la Fiom se l’è cavata bene. E’ in concreto, che ora Landini ha un problema serio. Ce l’ha con tutti gli altri sindacati. Ce l’ha, ovviamente, con la Fiat. E con l’intera Federmeccanica. Se capisco quel che sta avvenendo, il problema è serio davvero.E’ fallita, l’operazione di alitare sul collo alle sigle sindacali che hanno messo faccia e firma sull’accordo di Pomigliano, dopo averla mesa sull’accordo del febbraio 2009 sui nuovi assetti contrattuali e sul contratto dei meccanici non firmato da Fiom nel 2009. Ed è fallito il tentativo di dividere Confindustria e Federmeccanica dalla Fiat. Erano questi, i due obiettivi che Landini si riproponeva alzando il polverone su Melfi, imboccando a spada tratta la via della conflittualità giudiziale. I metalmeccanici di Cisl, Uil, Ugl e della Fismic non ci pensano proprio, a seguire Fiom con la coda tra le gambe: quando i delegati di Landini hanno chiesto un’assemblea a Melfi, la RSU sindacale ha bocciato a stragrande maggioranza la proposta con tanti saluti.

Le altre confederazioni hanno capito che la via è stretta. Nei prossimi giorni si riunisce Federmeccanica, e il suo presidente Ceccardi ha spiegato che, grazie a quanto sottoscritto da tutti meno la Cgil nei due accordi del 2009, nazionale e di categoria, le deroghe contrattuali possono essere ottenute non solo per l’auto, ma per l’intero comparto meccanico o per altri suoi sottocomparti. Tutti gli altri sindacati sanno che la facoltà di sedersi e trattare, compreso il capitolo del godimento dei diritti sindacali a cominciare da permessi e distacchi retribuiti, varrà solo per chi ha firmato quegli accordi.

Landini contava di impedire qualunque deroga: in Fiat, per l’auto, per l’intera Federmeccanica. Dimentica però che, non avendo firmato le intesedel 2009, la Fiom rischia di perdere innanzitutto i propri diritti sindacali. Di qui l’ultimo problema: tra Fiom e Cgil. Siamo sicuri che Susanna Camusso, che a breve succede come leader Cgil a Guglielmo Epifani e che conosce bene Nord e manifattura italiana, sia entusiasta del rischio di finire isolata da tutto e tutti, sindacati, imprese e politica di ogni colore compresi i due terzi del Pd?

Io non ci scommetterei affatto. A questo punto, è la Fiom, ad averla messa giù dura. Tutti gli altri, Federmeccanica, Fiat e soprattutto tutte le altre sigle sindacali, se non mancano di coraggio e caopisconio che uniti sono una forza assoluta nell’interesse della crescita delle aziende e del paese come dei lavoratori, hanno un interesse assolutamente convergente: passare ad accordi aziendali dovunque possibile contrattandoli insieme, esattamente la via tedesca indicata all’Italia dal Financial Times ieri. Non mi aspetto che l’informazione li spinga a farlo. Ma tutte le persone sensate sì. A meno siano affette da inguaribile nostalgia e perdurante amore per lotte di classe fuori dal tempo, scassaimprese e scassatasche – già magre – dei lavoratori.

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