CHICAGO BLOG » Senza categoria http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Liberalismo, reale e immaginario /2010/12/21/liberalismo-reale-e-immaginario/ /2010/12/21/liberalismo-reale-e-immaginario/#comments Tue, 21 Dec 2010 13:26:36 +0000 Pietro Monsurrò /?p=7876 Quante volte avete sentito dire che “il liberalismo è atomismo e rinnega la società”, fallacia che parte dal presupposto che la società esiste solo come società politica e non come scambio, cooperazione, corpi intermedi?

Quante volte avete sentito dire che “il liberalismo è individualista e inneggia all’egoismo”, come se i processi decisionali politici implicassero un cambiamento antropologico dell’uomo, che diventa buono solo quando vota o quando “rappresenta” il popolo?

Quante volte avete sentito dire che “il liberalismo è conservatore”, come se conservare lo status quo, cioè un sistema finanziariamente insostenibile che prima o poi ci porterà sul lastrico e che non dà spazio ai giovani ma anzi li sfrutta, non significasse conservare ciò contro cui i liberali hanno sempre lottato?

Quante volte avete sentito dire che “il liberalismo è di destra”, come se Bastiat non sedesse a sinistra in Parlamento, come se Locke non si opponesse ai conservatori, come se i liberali non si opponessero alle politiche corporativiste di Bush e Berlusconi?

Finalmente un articolo, comparso oggi su Libertiamo, che comincia a correggere questi errori di interpretazione. C’è, come dice l’articolo, del lavoro di comunicazione da fare.

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Metamorfosi televisive /2010/12/14/metamorfosi-televisive/ /2010/12/14/metamorfosi-televisive/#comments Tue, 14 Dec 2010 14:07:24 +0000 Guest /?p=7843 Dal bruco alla farfalla

Riceviamo da Stefano Quintarelli e volentieri pubblichiamo. L’autore è un carissimo amico, oltre che uno dei maggiori esperti italiani di tlc e digitale, provare per credere il  suo Quinta’s weblog

Cos’è la televisione ? sembra una domanda banale perché tutti abbiamo in mente come riferimento cosa ERA la televisione: un servizio in cui un broadcaster emittente trasmette via etere i programmi televisivi (di cui ha acquisito i “diritti” per il suo paese) che, ricevuti da una antenna, vengono guardati su un televisore (un oggetto costituito da un sintonizzatore, uno schermo, degli altoparlanti).

Emittenti che, è bene ricordare, hanno degli obblighi di legge tra cui quelli riguardanti la par condicio, le fasce orarie di protezione dei minori, l’affollamento pubblicitario, la promozione di opere europee, le televendite, l’informazione sportiva, ecc.[1]

Oggi lo scenario tecnologico è un po’ meno netto, il televisore non è più quello di una volta: con l’home theatre l’audio è uscito dal televisore e con il satellite o con il digitale terrestre, il sintonizzatore (una volta interno al televisore) è diventato un decoder esterno. In compenso il video si sta arricchendo di prese di rete o wifi per collegarlo ad internet con la capacità di prelevare contenuti da un server o eseguire piccoli programmi chiamati widget.

A ben vedere l’oggetto “televisore” assomiglia sempre più ad un computer e sempre meno ad un “televisore”, sia con possibilità native di collegamento ad internet, sia mediante dei ricevitori esterni: i “set-top-box”.

Appaiono così servizi online che erogano contenuti audiovisivi mettendoli a disposizione sia come flusso di contenuti (come tradizionali programmi televisivi) sia, e sempre di più, ottenibili su richiesta dell’utente.

L’erogazione di flussi viene chiamata “TV lineare”, la messa a disposizione di contenuti viene chiamata “TV non lineare”. In Italia la TV lineare via internet (IPTV) conta circa 600.000 abbonati ripartiti tra 4 operatori (Telecom, Fastweb, Wind, TiscalI); i servizi TV non lineari sono offerti da un vasto numero di soggetti, anche dall’estero, tra cui la svizzera Acetrax e la statunitense Apple.

La trasmigrazione e mutazione dall’etere al cavo mette a dura prova le certezze su cui si è costruita la TV di ieri, basti pensare alle potenziali conseguenze di quanto descritto sopra: l’annichilamento del palinsesto a favore della selezione dell’utente (eventualmente con raccomandazioni del suo network sociale anziché della scelta dell’editore), la delocalizzazione geografica e globalizzazione delle sorgenti di contenuti, la frammentazione degli operatori non più limitati in numero dalla limitata costrizione delle frequenze “televisive”, e via dicendo.

In questa metamorfosi della televisione si innestano grandi questioni. Se prima era sufficiente mettere un recinto per limitare il bruco, come fare ora con la farfalla ? quali norme applicabili ? quelle svizzere ? quelle italiane ? quelle USA ? come si rispettano le fasce orarie di protezione dei minori con fonti che possono stare agli antipodi ? se è l’utente a scegliere cosa guardare come assicurare la par condicio ? cosa significa “affollamento pubblicitario” ? Youtube è una televisione ? e la Rai online ?

E’ bene che mettiamo da parte gli schemi di riferimento precedenti: lo sviluppo della tecnologia dissolve le strutture cui siamo abituati.

Il nuovo ordine europeo

Nel 1989 la Commissione Europea, ritenendo che una reale integrazione dell’Unione non potesse avvenire senza regole televisive, ha introdotto la direttiva “TV senza frontiere”, successivamente modificata nel 1997,  per armonizzare le normative presenti in Europa. Sono stati così fissati alcuni dei vincoli richiamati sopra: la tutela dei minori, la promozione della produzione audiovisiva europea, l’affollamento pubblicitario.

Anticipando i cambiamenti che stiamo affrontando oggi, nel 2003 la Commissione Europea, ha avviato una consultazione pubblica circa la regolamentazione della futura TV; sono stati fatti dei focus group con esperti e nel 2005 è stata realizzata una nuova consultazione. Nel dicembre 2007 è stata emanata la Direttiva 2007/65/CE che modificava il testo precedentemente in vigore e nel marzo 2010 è stata emanata la versione codificata. La direttiva “Audiovisual Media Services” ha così sostituito la precedente direttiva “TV senza frontiere”.

La direttiva si basa su una nuova definizione dei servizi media audiovisivi, svincolata dalle tecniche di trasmissione; definisce il concetto di “servizi media audiovisivi” compiendo una distinzione tra servizi lineari, che designano i servizi di televisione tradizionale che i telespettatori ricevono passivamente; e servizi non lineari, cioè i servizi di televisione a richiesta che i telespettatori scelgono di vedere (servizi di video on demand, ad esempio).

Si stabilisce anche il principio del paese d’origine e gli operatori saranno pertanto tenuti a rispettare esclusivamente le disposizioni giuridiche in vigore nel loro paese di stabilimento. In caso di differente severità delle norme tra vari stati europei è comunque prevista una facoltà di intervento dello stato di destinazione in caso sia necessario tutelare ordine pubblico, consumatori, investitori, ecc.

La direttiva stabilisce limiti di affollamento pubblicitari e include nuove forme di pubblicità, come la pubblicità a schermo diviso (split screen), la pubblicità virtuale, la pubblicità interattiva oltre a regolamentare l’uso esplicito di prodotti di una determinata marca nell’ambito di un programma (“product placement”).

Molti degli interrogativi iniziali, determinati dallo sviluppo tecnologico, trovano risposta nei paragrafi precedenti. Resta un tema importante: la convergenza (o forse sarebbe meglio dire collisione) tra la TV di ieri e Internet: Youtube è una Tv e quindi soggetta alle regole televisive ? e un videoblog ? e la webcam sulla piazza del duomo ? e la Rai online ?

Intanto osserviamo che non ha senso chiedersi se siano una “televisione” bensì se siano un “servizio media”. La “televisione” è solo una sottocategoria, limitata alla particolare fattispecie dei servizi di media audiovisivi forniti per la visione simultanea di programmi sulla base di un palinsesto.

La direttiva definisce “fornitore di servizi media” chi assume la responsabilità editoriale della scelta del contenuto audiovisivo e ne determina le modalità di organizzazione, sia esso erogato linearmente o messo a disposizione a catalogo (non linearmente). La “responsabilità editoriale” è l’esercizio di un controllo effettivo sia sulla selezione dei programmi sia sulla loro organizzazione in un palinsesto (lineare) o in un catalogo (non lineare). Viene invece effettuato un esplicito richiamo alla direttiva “eCommerce” che esenta da ogni obbligo quegli  intermediari che non esercitano responsabilità editoriale (ad esempio gli operatori di rete o di hosting).

Nella direttiva si specifica che la definizione di servizi di media audiovisivi dovrebbe comprendere solo i servizi che sono mezzi di comunicazione di massa. Il suo ambito di applicazione non dovrebbe comprendere le attività “precipuamente non economiche” e che “non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva”, quali i siti Internet privati e i servizi di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interessi.

Viene altresì esclusa ogni forma di corrispondenza privata (inviata a un numero limitato di destinatari) e tutti i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale come siti Internet che contengono elementi audiovisivi a titolo puramente accessorio, quali elementi grafici animati, brevi spot pubblicitari o informazioni relative a un prodotto o a un servizio non audiovisivo.

Per la direttiva, quindi, video blog, siti aziendali con contenuti video, webcam su piazza del duomo, non sono  servizi media mentre lo è la Rai online.

Per Youtube la cosa è più complicata. Non fa parte delle eccezioni esplicitamente previste: è certamente di massa, è una attività economica, non è una comunità di interesse, non è a diffusione limitata, contiene video in modo non accessorio, contiene video non generato da utenti privati.

Il nocciolo della questione è quindi se Youtube eserciti un controllo effettivo sulla selezione dei contenuti o sulla loro organizzazione nel catalogo. Certamente Youtube non lo fa per il suo uso più frequente, ovvero i video caricati dagli utenti  ma lo fa invece per alcuni contenuti classificati in categorie particolari quali i film (youtube.com/movies ) e gli show televisivi (youtube.com/shows). Youtube opera in Europa dall’Irlanda e pertanto vale il principio del paese di origine, ovvero è applicabile la direttiva per come è stata recepita in Irlanda.

La legge recepita in italia

Il recepimento in Italia il 29/3/2010 della direttiva, noto come “legge Romani”, ha generato notevoli discussioni, come era ovvio dato che tocca il core business del Presidente del Consiglio.

Non entro nel merito del recepimento della direttiva per quanto attiene i servizi media lineari (TV tradizionale) che va oltre gli obiettivi di questo articolo. Mi limito ad esaminare il recepimento per quanto attiene le nuove forme di servizi media.

La direttiva esclude che vengano imposti nuovi obblighi di licenze o autorizzazioni per l’erogazione di servizi; il recepimento italiano prevede una dichiarazione di inizio attività da presentarsi all’ AGCOM (l’Autorità delle comunicazioni) che produrre un regolamento che individui tra l’altro i criteri dei soggetti da ritenersi fornitori di servizi media. Non è certo una licenza, come vietato dalla direttiva, ma si introduce un registro non previsto dalla direttiva.

La direttiva, come detto, fa esplicitamente riferimento all’esclusione di responsabilità degli intermediari che non hanno responsabilità editoriali (direttiva 2000/31/CE). Questa esenzione di responsabilità è assente nel testo italiano, lasciando un residuo di rischio in capo ai semplici intermediari tecnici che si limitano ad erogare contenuti la cui responsabilità editoriale incombe a terzi.

Anzi, la cosa si aggrava se si considera la previsione, non presente nella direttiva ma inclusa nella legge italiana, che concede all’AGCOM di disporre l’interruzione della ricezione in Italia di contenuti o cataloghi che violino le norme sul diritto d’autore, ordinandolo anche all’operatore di rete attraverso il quale detti contenuti sono ricevuti, con una sanzione per lo stesso fino a 150.000 euro. Altro che esenzione di responsabilità.[2]

La memoria non può non correre a Youtube, soggetta al recepimento irlandese, ma che ospita come noto molto materiale che viola norme sul diritto d’autore, materiale ricevibile in Italia…

Il regolamento dell’AGCOM

Non è finita. Siamo arrivati al regolamento dell’AGCOM chiamato a definire, questi aspetti molto delicati: i criteri per cui un soggetto diventa fornitore di servizi media e le norme attuative per interrompere la ricezione in italia di programmi o cataloghi che violino norme sul diritto d’autore.

La cosa è, in tutta evidenza, molto delicata. Il Commissario AGCOM Nicola D’Angelo si è dimesso da relatore del provvedimento, l’approvazione da parte del consiglio dell’AGCOM è slittata a seguito del clamore sviluppatosi attorno alle bozze che sono trapelate.

Il Presidente dell’AGCOM, Calabrò ha dichiarato “Applicheremo la legge Romani semplificandola al massimo, sburocratizzandola. E’ profondamente sbagliato regolamentare questo fenomeno con mentalità ottocentesca. Certo bisogna reprimere la pirateria e tutelare il diritto d’autore con mezzi moderni”.

Le prime indiscrezioni riportavano che, per essere “in concorrenza con la radiodiffusione televisiva” (come previsto dalla normativa) fosse sufficiente una soglia ridicolamente bassa, ovvero un giro di affari annuo di 100.000 euro in presenza di un catalogo di video fruibili on demand e/o di 24 ore settimanali di erogazione lineare.

Le indiscrezioni raccontavano anche di sanzioni per gli utenti sospetti violatori di copyright che portino ad una “cessazione immediata delle violazioni, senza lungaggini” in assenza di un giudice terzo ed imparziale; misure nei confronti di siti sospetti con verifiche “eventualmente” necessarie, interruzione di comunicazioni con determinati protocolli a prescindere dal loro contenuto, obbligo per gli operatori di oscuramento per siti che fanno riferimento a indici di contenuti protetti da copyright (Google, per definizione è un indice di contenuti protetti da copyright!, secondo la definizione di tali siti, in Italia sarebbero centinaia di migliaia), ecc.

Non stupisce che l’approvazione del provvedimento AGCOM sia slittata e che nulla trapeli delle nuove bozze.

Sotto l’albero di Natale, con la testa impegnata tra cenoni e regali, speriamo di non trovarci una sorpresa amara.


[1] Il Corecom Puglia elenca nella normativa di riferimento 59 diverse norme: http://is.gd/iBhrS

[2] Il recepimento italiano stabilisce che chi fa scelte editoriali, sia un fornitore di servizi media e conseguentemente abbia responsabilità, tra cui quelle indicate. Dice anche che se un soggetto non fa scelte editoriali, non è un fornitore di servizi media, ma non afferma, come invece fa la direttiva, che chi non fa scelte editoriali non abbia responsabilità.

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Santa Lucia tutto il debito si porta via?  /2010/12/14/santa-lucia-tutto-il-debito-si-porta-via%c2%a0/ /2010/12/14/santa-lucia-tutto-il-debito-si-porta-via%c2%a0/#comments Tue, 14 Dec 2010 10:34:18 +0000 Luciano Lavecchia /?p=7833 Per Natale, meno ansia per tutti. Chi osservi il nostro orologio conta-debito vedrà che le lancette scorrono all’indietro. Secondo il nostro modello, infatti, nell’arco dell’ultimo mese dell’anno lo stock di debito tende a rientrare. Com’è possibile?

A Natale i nostri decisori politici diventano più saggi? Non spaventatevi: nulla di tanto clamoroso. Semplicemente, a dicembre il Tesoro procede usualmente a operazioni di buy back del debito. Nessuna preoccupazione, però; si tratta di operazioni di aggiustamento temporanee, che dureranno lo spazio di un’illusione. A gennaio, prevediamo il debito tornerà a crescere, crescere, crescere. E noi saremo qui a ricordarvelo. Perché a Natale tutti sono più buoni, ma noi no. (cs&ll)

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Un programma per crescere, uomini pericolosi cercansi /2010/12/05/un-programma-per-crescere-uomini-pericolosi-carcansi/ /2010/12/05/un-programma-per-crescere-uomini-pericolosi-carcansi/#comments Sun, 05 Dec 2010 19:17:20 +0000 Oscar Giannino /?p=7782 C’è da augurarsi che il fine settimana abbia portato consiglio su Mirafiori. Non è in gioco solo la presenza in Italia della Fiat e del suo indotto. La politica ha la testa altrove, nella conta dei fedeli e dei traditori. Ma è l’intera manifattura italiana da una parte, e dall’altra la PA e i servizi, che avrebbero bisogno di una nuova cornice fatta da misure atte ad alzare stabilmente la produttività, e a dare insieme più reddito disponibile ai lavoratori dipendenti, minori esternalità negative a tutti in termini di inflazione, gap infrastrutturale e e sovraccosto energetico. Sogni? No. Servono uomini pericolosi, per realizzarlo. Pericolosi e irriducibili, rispetto alla stantia rassegnazione che domina il dibattito pubblico,  al fuoco statalista che rianima illusioni pericolose. Forse è il caso di ripassare alcuni dati.

Nel 2007 precrisi, la manifattura garantiva il 25% del totale del valore aggiunto delle attività di mercato in Italia – se escludiamo l’immobiliare e relative locazioni – occupando un quinto della manodopera nazionale, 5 milioni di persone. In Italia la manifattura è declinata meno che in altri Paesi avanzati. Nella crisi abbiamo scoperto che è un bene, perché oltre il 70% della reklativa e insufficiente crescita a breve del Paese viene di lì, e dall’export industriale. Per questo l’Italia è rimasta quinta potenza industriale al mondo, con il 3,9% della produzione planetaria. Insieme alla Germania – l’unica a crescere – siamo l’unico Paese avanzato che ha mantenuto nella crisi una quota di mercato pari al 4,8% del valore del commercio mondiale. E se consideriamo il prodotto industriale procapite, dopo la Germania al mondo continuiamo a venire noi, prima della Cina, USA e del Giappone. Nel 2008 la bilancia commerciale dell’export manifatturiero è stata positiva per 63 miliardi di euro, e anche nel terribile 2009 lo è rimasta per 47. Tutto ciò è avvenuto perché dopo le violente ristrutturazioni seguite all’ingresso nell’euro e al venir meno delle svalutazioni monetarie, all’ingresso della Cina nel WTO, all’indebolimento della domanda interna figlia delle manovre di contenimento della finanza pubblica, la manifattura italiana ha risposto con innovazioni di prodotto e processo, organizzative e gestionali, commerciali e di marketing, grazie alle quali ha preso a esportare ormai per il 60% in settori come le macchine industriali, la metallurgia e i prodotti chimici, mentre l’export tradizionale legato a tessile, moda, scarpe, mobili etc vale solo più il 15%.

Se le imprese manifatturiere con sedi produttive proprie all’estero in almeno due altri Paesi oltre l’Italia sono salite a circa 15 mila, con circa 200mila imprese italiane nel proprio indotto e catene di fornitura, ad aver fatto outsorcing all’estero per una parte almeno del proprio prodotto sono passate dal 12,5% del totale nazionale nel 200o a un considerevolissimo 25% nel 2009.

Ma questo processo incontra pesanti ostacoli “di sistema”. La produttività, se tralasciamo quella del settore delle costruzioni, è scesa dello 0,75 annuo in media dal 2000 al 2003, per poi tornare a crescere dell’1,3% annuo dal 2003 al 2007, quando è esplosa la crisi. Restiamo al 78° posto nella graduatoria del business environment della Banca Mondiale, per le difficoltà nell’esecuzione dei contratti, le tasse pesantissime, l’invasività delle norme regolatorie e amministrative.

Tra il 2000 e il 2007, il costo del lavoro unitario nel manifatturiero italiano è cresciuto del 19,6%, mentre è sceso del 5,7% in Francia, dell’8% negli USA, del 9,7% in Germania. Oltre alla bassa produttività si sono aggiunti rincari del costo del lavoro indipendenti dai profitti delle imprese, e il risultato è stata la perdita di 27 punti di competitività sulla Francia, 30 sugli Usa e 32 sulla Germania. Nel 2007 l’EBIT manifatturiero italiano era al più basso livello dal 1980, il 3%. I bassi profitti medi hanno abbassato gli investimenti: dalla media dell’1,7% di aumento annuale negli anni Ottanta, all’1,2% nei Novanta, allo 0,6% tra 2000 e 200 .

Questo scenario è insostenibile. Spiega in larga parte perché in termini di reddito procapite gli italiani siano scesi da 103 nel 2001 – fatta 100 la media dell’eurozona – a 93 nel 2009. Un calo drastico a cui ha dato una potente mano lo stallo di produttività dei servizi e della PA, entrambi in larghissima misura esclusi dall’effetto benifico della concorrenza sui e dai mercati esteri.

Per la manifattura italiana basse tasse, PA meno ostile, giustizia più efficiente, sono necessari nel breve per continuare a inseguire la rapidissima trasformazione mondiale in atto. Fino agli anni 80, il 60% del Pil planetario veniva dai Paesi di vecchia industrializzazione, e il 40% da quelli emergenti.

Ora solo il 30% della crescita mondiale viene dai paesi sviluppati, il 70% da Cina ed emergenti. Per il FMI, la crescita media annua del 4,5% di Pil mondiale prevista per il prossimo lustro continuerà stabilmente a venire per iol 3,3% dagli emergenti, per l1.2% dai vecchi industrializzati. Al 2030, ai ritmi attuali, l’Asia peserà per il 53% del Pil mondiale, il Nordamerica il 20%, l’Europa solo il 13%. Oggi, la popolazione con reddito procapite superiore ai 30 mila dollari l’anno è di circa un miliardo di individui, per l’80% nei paesi sviluppati. Di qui a 20 anni, il loro numero salirà di almeno 600 milioni, dei quali 470 nei Paesi emergenti, 200 milioni nella sola Cina e 70 milioni in India. Saranno consumatori diversi da quelli che conosciamo. Bisogna prepararsi sin da adesso. Più giovani di quelli a cui siamo abituati, Nati “digitali”. E con molte più donne a decidere.

Perché la manifattura italiana possa farcela, sbaglia in pieno chi crede che la concorrenza sia con le paghe e i diritti cinesi.

Il punto è di concentrarsi su tecnologie avanzate, pervasive e cross cutting: materiali avanzati, nanotecnologie, micro e nano elettronica, biotecnologie, fotonica. Conta aver a sostegno finanza, internazionalizzazione, classe dimensionale: condizioni che da noi difettano.

Concentrarsi su queste svolte a breve e di sistema per la manifattura. A fianco, avviare un programma di lungo periodo per produttività e concorrenza nella PA – da cedere in vasti pezzi al mercato, con relativi dipendenti – e servizi. Di questo e nient’altro, dovrebbe essere fatta, la priorità politica del Paese nell’eurocrisi che incombe.

Cercasi politici che ne mastichino, e che abbiano ambizione e carisma per girare pagina.

Sogni? No. Non tutti gli uomini sognano nello stesso modo. C’è chi sogna la notte, e al risveglio si deprime perché si arrende a una realtà che fa apparire vane le immagini notturne. E c’è chi sogna di giorno ed è pericoloso, perché può darsi che reciti i suoi sogni ad occhi aperti per attuarli. L’impossibilità è parola che si trova solo nel vocabolario dei rassegnati. Noi, non ci rassegnamo.

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Il “Contro-Rapporto Monti” dell’IBL: per un’Europa più integrata dal mercato e più aperta al mondo /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/ /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/#comments Thu, 02 Dec 2010 21:16:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=7754 Qualche mese fa, su invito di José Barroso, l’ex commissario europeo Mario Monti ha redatto un rapporto intitolato A new strategy for the single market at the service of Europe’s economy and society , con l’obiettivo di indicare talune linee fondamentali di sviluppo per l’Europa di oggi e di domani.

Il rapporto contiene talune proposte ragionevoli e in particolare auspica una crescita del mercato interno, che faccia saltare le molte e talvolta assai alte barriere che impediscono una piena integrazione tra i vari Paesi dell’Europa a 27 e le loro distinte economie. Ma, al tempo stesso, il testo redatto da Monti contiene argomenti e proposte assai discutibili. In particolare, esso formula una netta difesa di vecchi vizi statalisti europei (specie in tema di welfare) e per giunta esprime una esplicita avversione per la concorrenza istituzionale: soprattutto in materia fiscale.

Per questo motivo l’Istituto Bruno Leoni ha pensato di predisporre una sua interpretazione del “rapporto Monti”, affidando a un gruppo di lavoro internazionale il compito di commentare – capitolo dopo capitolo – tutte le tesi contenute nel testo predisposto dall’economista italiano. Questo lavoro a più mani si intitola Il “Rapporto Monti”: una lettura critica (qui in italiano e qui in inglese) e ha potuto avvalersi del contributo di vari studiosi, italiani e no: Filippo Cavazzoni, Luigi Ceffalo, Luca Fava, Pierre Garello, Carlo Lottieri, Diego Menegon, Alberto Mingardi, Lucia Quaglino, Dalibor Rohac, Josef Sima e Carlo Stagnaro.

Il testo è stato presentato a Bruxelles oggi, 2 dicembre, nel corso di un seminario cui ha partecipato lo stesso Monti. L’obiettivo è stato quello di evidenziare i limiti delle proposte avanzate dall’ex commissario, non sempre coerenti con una visione autenticamente di mercato, sottolineando come la logica dirigista di molte tesi del Rapporto  ostacoli – al di là delle dichiarazioni e delle intenzioni – lo sviluppo di un’economia europea davvero dinamica, integrata e concorrenziale.

I temi essenziali della critica sviluppata dal “contro-rapporto” targato IBL emergono con chiarezza in questo passo, tratto dall’introduzione:

Dietro la riflessione di Monti si vede la proposta di un “grande scambio”: per costruire il mercato interno, gli Stati membri devono dotarsi di sistemi di welfare state sufficienti ad ammortizzare la transizione e sostenere il consenso; perché questo sia possibile, occorre perseguire un grande disegno di armonizzazione fiscale, volto a colpire sia la “concorrenza fiscale” all’interno dell’Ue, sia – a maggior ragione – quella dei “paradisi fiscali”.

L’analisi dell’IBL punta insomma a raccogliere la sfida del “Rapporto Monti”, per valorizzarne gli aspetti positivi, ma anche e soprattutto per sottolineare come un vero mercato non possa essere “unico” (e cioè ristretto alla piccola Europa), non possa basarsi su una tassazione e su una regolamentazione asfissianti (tratti caratteristici del modello welfarista “renano”) e non possa in alcun modo avvantaggiarsi da un’armonizzazione fiscale costruita dall’alto, che riduca quella pressione competitiva che finora ha impedito ai governi europei di espandere in maniera illimitata le loro pretese.

Se infatti le aliquote marginali delle imposte dirette sono significativamente calate un po’ ovunque (dopo che negli anni Settanta erano giunte a livelli altissimi, e non soltanto in Svezia), questo è stato dovuto non tanto a un cambiamento di orientamenti culturali (che pure in parte si è verificato), ma è stato soprattutto conseguente allo sforzo di quei ministri dell’Economia dei vari Paesi europei che hanno fatto il possibile per non perdere tutti i propri contribuenti più importanti. Quando i capitali si muovono e si trasferiscono altrove, che senso ha, infatti, tenere aliquote molto alte, se esse sono ormai prive di una base imponibile? Meglio portare a casa il 45% di 50 che il 90% di 5.

Su questo specifico punto sviluppa una riflessione molto sofisticata un altro lavoro discusso oggi a Bruxelles, anche’esso promosso dall?IBL, e cioè il saggio Tax Competition: A Curse or A Blessing? (qui in inglese, ma qui c’è una sintesi in italiano) di Dalibor Rohac, un giovane e brillante economista slovacco che oggi è un ricercatore del Legatum Institute e che qualche anno fa fu pure a Sestri Levante quale relatore di Mises Seminar organizzato dall’IBL. Avvalendosi della teoria dei giochi, nel suo studio Rohac mostra come un’armonizzazione calata dall’alto blocchi ogni processo di apprendimento e soprattutto ostacoli quel dinamismo degli attori che – sul medio e lungo termine – favorisce l’abbassamento delle aliquote e, in questo modo, aiuta a realizzare una migliore integrazione delle economie.

Un’Europa fiscalmente armonizzata, insomma, è destinata a diventare un vero inferno fiscale. Più di quanto non lo sia già oggi.

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Confessione di un evasore /2010/11/22/confessione-di-un-evasore/ /2010/11/22/confessione-di-un-evasore/#comments Mon, 22 Nov 2010 17:57:23 +0000 Guest /?p=7661 Abbiamo ricevuto il seguente post, regolarissimamente firmato da nome e cognome. La volontà dell’autore era anche di firmarlo senza problemi, gliel’abbiamo esplicitamente chiesto dopo averlo ricevuto e letto. Ma io personalmente, appurato che l’autore esiste davvero ed è un cittadino che è anche pronto a esporsi, non essendo su questo sito a differenza che su un giornale corresponsabile delle conseguenze alle quali andrebbe incontro vi dico che il nome lo casso. Faccia riflettere tutti, questa confessione di un evasore, perché i guai di cui parla ci riguardano tutti, schiavi come siamo ridotti se non reagiamo.                    Oscar Giannino 

Mi presento: sono un evasore ed ho 27 anni.

Per la verità non mi sento tale, ma so che chiunque potrebbe additarmi cosi: dalle ingenuità sulle tasse della mia start-up d’impresa, che adesso inzia ad ingranare, mi trovo a due anni di distanza a chiedermi come riuscire ad iniziare a pagarle, le tasse.

Importo prodotti provenienti da paesti Extra-UE, UE ed alcuni vengono invece realizzati qui.L’ho fatto per abbattere una politica di oligopolio che stava nascendo nel particolare settore dove opero.

Lo dico da subito: ho procastinato, rimandato il problema delle tasse fino ad oggi, facendolo divenire ora il mio incubo.

Aggiungo anche che sono un “college drop-out” (Scienze Politiche e Comunicazione) che a 20 anni ha mollato l’università (e se ne sta pentendo) per inseguire dei sogni che riteneva possibili. “Fare impresa come in USA”, mi dicevo.

Creare un’idea seria, che cambiasse le regole in Italia. O almeno iniziasse a cambiare qualcosa.

Dicevo, non so come e perchè pagare le tasse. Per due ragioni:

La prima, è che le situazioni accumulate in 2 anni a quanto pare non sono risolvibili dai commercialisti a cui mi sono rivolto, uno all’anno. Non solo, i commercialisti stessi “spaventati” dal mio modello di business fatto di Importazione e canali di distribuzioni alternative quali l’e-commerce, non vogliono nemmeno suggerirmi qualche aiuto per pagare un po’ meno di quel che dovrei (scusate la franchezza con cui lo dico). A loro volta rimandano la situazione del 2009 mentre anche quella del 2010 diventa sempre più oscura, perchè non vengo istruito su che fare.

A tutto ciò si accumula una tragica assenza di formazione, o meglio presenza di confusione. L’ottimo sito dell’agenzia delle entrate dà informazioni tramite manuali all’uso del fisco che poi non trovano riscontro con quello che i commercialisti dicono (a proposito: avete notato che oltre al manuale esiste anche il glossario dei termini del fisco? Manco si trattasse di un’altra lingua!).

La seconda, è più di concetto e forse meno giustificabile: cosa ha fatto il Sistema Italia (di cui lo Stato è solo una parte) per me? Da quando sono al mondo ho vissuto solo disagi e tradimenti: il Liceo che frequentavo è stato chiuso e tutti gli studenti sono stati trasferiti in blocco presso un altro istituto, solo per volontà politiche. Non ho mai trovato modo di esprimere le mie idee, né in università, né ai mezzi di informazione, ma ho avuto modo di osservare ogni giorno di più il decadimento. A partire dagli impietosi paragoni con le altre realtà europee (per esperienza posso dirvi che anche l’Irlanda è socialmente più sana e MORALE di noi), alla libertà di creare delle persone, alla libertà di vivere e di inventare dei giovani.

In Italia, un sistema bancario gerontocratico penalizza chiunque voglia fare impresa e non voglia giocarsi le garanzie della famiglia – tristemente l’unico incubatore aziendale presente nel “bel” paese – per avviare una qualsivoglia idea. In Italia vengo trattato male agli sportelli dello stato. In Italia per proporre innovazioni puoi solo avere santi in paradiso, altrimenti queste idee ti vengono rubate (su questo aneddoto, sarò ben disposto a spiegare con prove ad ogni interlocutore). In Italia, l’università non è un campus di idee. E’ un ambiente diviso in tre componenti: ragazzi che studiano per lavorare da impiegati o nell’impresa del papà, ragazzi che stanno in università come se fosse un grande asilo infantile pagato dai genitori, professori che non hanno meriti ma hanno cattedre e – peggio -  assistenti che assomigliano a clientes. In Italia “Svluppo Italia” è una società farlocca dove i telefoni suonano a vuoto. In Italia i fondi SME Europei NON ESISTONO ed il fantomatico ufficio a Roma non ha un recapito. In Italia, i miei coetanei che la vedono come me non si espongono perchè hanno troppo da perdere e sanno che lo perderanno se agiscono.

Non voglio fare di tutta l’erba un fascio: ho incontrato esempi positivi in università e fuori. Ed il sistema italia ha comunque il pregio di avermi fatto diventare cittadino europeo. Non ho barriere all’interno dell’Europa, la mia ragazza è di quel paese industrializzato che sta più a nord del nostro, viaggio molto e grazie all’Inglese (con una punta di orgoglio posso definirmi anche molto fluente in americano) l’Europa ha aperto i miei occhi su tutto ciò che è decadimento in Italia.

Però non è grazie a questo sistema, non è grazie alle sue tasse, non è grazie a questo Stato se il mio Americano è fluente, se ho avviato un’impresa con un seed capital minimo raccolto grazie ad un’illuminata associazione di imprenditori che valuta SOLO per merito, visto che non ci sono “i santi”.

Non è grazie a questo sistema se ho più competenze in due campi consulenziali diversi di quanto qualasiasi universitario mio coetaneo possa avere una volta laureato. Non è grazie a questo Paese se ho un introito personale che non mi qualifica dentro la “generazione mille” (di cui comunque ho fatto parte per due anni, vivendo il Disagio).

Per questo sistema, io sono un evasore. Mi sento un evasore e mi faccio male da solo. Se evado prima o poi la pagherò. Se non evado la pago comunque, perchè una start-up di due anni non sopravvive se si ravvede. Amo comunque il mio Paese, ma sempre più spesso lo vivo disincantato.

Sono l’ennesimo atto di j’accuse in cerca di risposte. E sono qualcosa di peggio di un evasore: sono un ingenuo.

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Crisi politica, istruzioni per l’uso /2010/11/15/crisi-politica-istruzioni-per-luso/ /2010/11/15/crisi-politica-istruzioni-per-luso/#comments Mon, 15 Nov 2010 13:16:22 +0000 Oscar Giannino /?p=7594 Con le dimissioni dei ministri finiani appartenenti a Futuro e Libertà, comincia di fatto la crisi di governo. E’ il caso di darsi alcune esplicite istruzioni per l’uso di questo blog, nel rispetto delle convinzioni di ciascuno. Tre semplici regolette, dichiarate ex ante come piace a noi e come vorremmo si facesse sempre e dovunque, per evitare discrezionalità ex post e consentire a tutti gli attori e contributori del blog nonché lettori di condividere i criteri.

Primo. Questo non è un blog nato per dare giudizi meramente politici, nel senso che la politica ha in Italia purtroppo, cioè alleanze, barocchismi istituzionali, tempi eterni alla ricerca di decantamenti, accelerazioni improvvise dettate da maschere e pugnali, alleanze impossibili in nome di emergenze virtuistiche, fratricidi e gossip. Chicago Blog Rispetta le convinzioni di ciascuno, a cominciare da coloro che non si riconoscono in pressoché nulla dell’offerta politica attuale come il sottoscritto, visto che vorrei meno Stato meno spesa meno tasse e più spazio a mercato bene e poco regolato. Capisco chui pensa che a sinistra non ci sia quasi nulla che pormetta bene per quel che pensiamo di individuo, famiglia e impresa nel mercato. Capisco cgi è deluso a morte del governo Berlusconi e di lui in prima persona. Capisco chi nonl’ha mai votato. capisco chi ce l’ha con Tremonti coi suoi tagli lineari invece di scelte prioritarie epr la crescita, e pel rinvio alle calenmde eterne della riforma fiscale. Capisco anmche chi pensa che a maggior ragione la scelta è tra meno peggio, e la santa alleanza tra opposti in nome della virtù e delle procure non gli piace per niente. In ogni caso, vi chiedo di rispettare la regola di non scrivere qui opinioni e post che argomentino pure preferenze politiche rispetto alla situazione in corso. Noi non siamo nati per far questo. Non mancano nella rete altri blog e siti su cui farlo.

Secondo. Ciò non significa che ad alcuno sia inibito l’esame e il giudizio anche più tagliente rispetto a tutte le posizioni, proposte e analisi economiche, regolatorie, fiscali, di mercato, di organizzazione dell’amministrazione e della spesa pubblica etc avanzate nel tornado politico che da oggi prende le mosse – e Dio solo sa quanto durerà, e a quali abissi di instabilità esporrà il Paese e la sua economia. Noi come l’Istituto Bruno Leoni siamo nati per questo: tentare di ancorare il dibattito pubblico a numeri e analisi concrete, su fatti e scelte e proposte concrete. Dal nostro punto di vista, quello appunto diffidente di Stato e statalismo di ogni colore, sapore e deriva culturale, visto che nel mondo post crisi (post?, nell’area euro non direi proprio, io la penso come il Munchau odierno, l’euro così è esposto a un serio rischio di rottura) lo statalismo da Washington  a Pechino, da Mosca agli Emirati coniuga e declina le ascendenze più eterogenee.  C’è tanto da fare sui fatti, senza qui perdersi dietro le cervellotiche evoluzioni delle leadership personali che si affacciano nel post Berlusconi (post? lo decideranno gli elettori questo post, oppure sante alleanze parlamentari appese a pochi senatori bandoleros?). Quando e se le leadership e le loro evoluzioni e combinazioni si chiariranno per proposte concrete, allora qui saremo a parlarne, come sempre.

Terzo. Ci sia maestra, la delusione per le promesse mancate e per ciò che i delusi e oppositori di Berlusconi in politica anc0ra non sanno offrire. La nostra battaglia è per le teste e le coscienze, non per i seggi e per i posti. Di Stato malato e marcio ce n’è troppo in giro in Italia, per credere che alla politica non faccia gola occuparlo secondo la regola aurea “scostati tu che mi ci metto io”. E’ questo il nostro nemico, in qualunque schieramento si annidi, e comunque si travesta. “+ P – S” c’è scritto sulla mia bandiera, più Pil e meno Stato. Non la vedo in pugno a nessuno. Dovunque in politica qualcuno abbia anche solo minor distanza da questo, vi invito a dircelo e a ragionarne con noi. Ma sono le teste della maggioranza degli italiani, quelle che vogliamo cambiare noi. Non quelle dell’eventuale maggioranza  parlamentare antiberlusconica di oggi e domani: perchè quelle teste lì son già formate, e di sicuro sappiamo che non ragionano come noi, minoritarissimi ma  tenaci, vorremmo che ragionassero. Volesse il cielo, che in Italia si svegliasse qualcuno disposto a metter denari e fatica per un rpogramma meno lontano dal nostro. Ci andrei a far Tea Parties gratis. ma anche se sappiamo che non sarà così, noi la nostra bandiera non l’abbassiamo, perché le teste su cui lavorare dei cittadini c’interessano più delle formule che quelle teste eleggeranno col loro voto.

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Quel pozzo senza fondo chiamato Hypo Real Estate /2010/11/12/quel-pozzo-senza-fondo-chiamato-hypo-real-estate/ /2010/11/12/quel-pozzo-senza-fondo-chiamato-hypo-real-estate/#comments Fri, 12 Nov 2010 20:28:49 +0000 Giovanni Boggero /?p=7576 Nei giorni in cui i progetti di fusione tra le malconce Landesbanken sfumano per l’ennesima volta, il canale televisivo ARD ripercorre con una galleria fotografica i momenti salienti della crisi bancaria tedesca degli ultimi anni, il cui simbolo può a buon diritto essere considerata Hypo Real Estate.

Ma andiamo con ordine. HRE è una banca, specializzata in mutui immobiliari con sede a Monaco di Baviera, nata nel 2003 a seguito dello spin-off da Hypovereinsbank, a sua volta fusasi con Unicredit nel 2007. La voragine nei conti di HRE, causati dagli affari spericolati della controllata irlandese Depfa Bank, divenne di pubblico dominio solo verso la fine di settembre del 2008, quando il watchdog dei mercati finanziari tedesco (BaFin), la Bundesbank e l’associazione delle banche tedesche (BdB) decisero di concedere linee di credito al gruppo, al fine di tamponarne le difficoltà di rifinanziamento. Solo qualche giorno più tardi divenne chiaro che la situazione di Depfa Bank, acquisita nel 2005 dall’audace Ceo Georg Funke, era così drammatica, che il problema non era più semplicemente di far affluire liquidità, bensì di evitare la bancarotta della holding.

Appena una settimana più tardi, il 5 ottobre, l’esecutivo tedesco di grande coalizione  fu così costretto a varare la prima delle numerose iniezioni di denaro pubblico, pena – si disse- un effetto domino sul sistema bancario, simile a quello provocato dal tracollo di Lehman Brothers negli Stati Uniti. Dopo l’azzeramento dei vertici del gruppo, la loro sostituzione con “manager” di dubbie capacità (tra cui anche politici socialdemocratici con un passato nella Landesbank di Berlino o alla Bundesbank) e la creazione del famoso fondo per la stabilizzazione degli istituti di credito (SoFFin), Hypo è arrivata a farsi versare più di 100 miliardi tra garanzie e aiuti diretti dalla Federazione e solo in minima parte (15 miliardi) da altre banche.

Il 26 gennaio 2009, di fronte allo stato comatoso del paziente, il Governo federale entrò nel capitale di HRE, nel tentativo di accaparrarsi  la quota di maggioranza. L’opposizione, tanto quella liberale quanto quella comunista, lamentò un intervento tardivo, giacché – si disse – le eventuali responsabilità degli ex proprietari di Hypovereinsbank erano ormai per legge prescritte e solo lo Stato, cioè i contribuenti, avrebbero potuto paracadutare i debiti dell’istituto.

Con perdite per l’anno 2008 pari a 5,5 miliardi di euro, il 20 marzo 2009 il Bundestag approvò la Rettungsübernahmegesetz, legge che attribuiva al Governo federale il potere di espropriare gli azionisti ancora titolari di azioni di HRE. Se gli azionisti non avessero accettato la carota dell’offerta pubblica di acquisto da parte della Federazione, il Governo federale avrebbe usato il bastone dell’esproprio. Un chiaro abuso del diritto, derivante dal surreale conflitto di interesse dell’essere contemporaneamente regolatori e banchieri. Abuso che il fondo di private-equity C.J. Flowers, detentore di quasi il 22% delle quote societarie, decise di non accettare. La cocciuta opposizione del fondo americano costrinse così i tecnici del Ministero ad aggirare l’ostacolo. Dopo un gigantesco aumento di capitale per annacquarne le partecipazione, la Federazione acquisì il controllo del disastrato istituto. La nazionalizzazione si completò così nell’ottobre dello scorso anno con il cd. squeeze-out ad 1.30 € ad azione del restante 10% degli azionisti.

Formalmente l’esproprio non avvenne, anche se sulla natura dello squeeze-out si potrebbe discutere. Ma il clima di arbitrio e di allontanamento dai principi della cd. Ordnungspolitik portò alla mente quello altrettanto violento di sessant’anni prima, ai tempi del nazionalsocialismo. Ma quel che è peggio è che, in poco meno di due anni, Hypo Real Estate aveva inghiottito decine e decine di miliardi dei contribuenti, senza riuscire a cavarsi d’impaccio. Ancora oggi, unico tra gli istituti di credito tedeschi a non aver superato lo stress-test europeo, Hypo Real Estate, che oggi si chiama Deutsche Pfandbriefbank AG, è la pecora nera del sistema bancario teutonico. Nonostante le ingenti perdite, i vertici del gruppo dovrebbero persino ricevere bonus e liquidazioni nell’ordine di 20 milioni di euro. A chi sostiene che lo Stato è un azionista migliore e più avveduto, raccontate la storia di HRE.

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Draghi non deve fare politica, ma ben altro /2010/11/09/draghi-non-deve-fare-politica-ma-ben-altro/ /2010/11/09/draghi-non-deve-fare-politica-ma-ben-altro/#comments Tue, 09 Nov 2010 16:14:31 +0000 Oscar Giannino /?p=7536 Dalle cronache politiche qualcuno continua di quando in quando ad avanzare l’ipotesi che potrebbe essere chiamato a esercitare una supplenza politica in Italia. Ma in realtà per Mario Draghi potrebbe essere un serio incomodo. Non lo dico solo perché molti gli hanno sempre attribuito una segreta voglia di far politica, ma a me è sempre personalmente risultato che non vi sia praticamente nulla di più alieno al suo pensiero, formazione e legittima ambizione. Soprattutto, l’eventuale ed ipotetica chiamata del Quirinale costituirebbe un serio ostacolo a qualcosa che invece sta concretamente maturando. Cioè la possibilità che sia proprio il governatore della Banca d’Italia, a succedere al francese Trichet alla guida della BCE.

E’ una partita che si gioca ai vertici europei l’anno prossimo. Ma intanto quel che nelle ultime settimane gli osservatori specializzati e fior di media europei hanno registrato, è che la candidatura del tedesco Axel Weber, il banchiere centrale tedesco, ha perso molte frecce al suo arco. Le reiterate dichiarazioni del capo della Bundesbank contro la politica monetaria e contro il Quantitative Easing seguito dalla BCE – per altro assai più modesto di quello praticato e rilanciato dalla FED – nonché i suoi irrituali accenni alla necessità che il debito pubblico dei paesi definiti “europeriferici” possa andare incontro ad auspicabili haircuts cioè a riscadenze e degli interessi con perdite delle banche e dei risparmiatori, hanno praticamente obbligato Trichet a smentire apertamente che Weber rappresenti la linea della BCE. In altre parole, in Weber si legge con eccessiva irruenza la matrice politica e germanica della sua nomina, e ciò lo induce a parlare più a difesa degli interessi del suo Paese che di quelli dell’eurosistema. Non è una buona credenziale per guidare la BCE. Ormai il giudizio è pubblico, esteso e condiviso.

Nell’ultima settimana, Der Spiegel ha dedicato un servizio alla “declinante stella” di Weber, accusato di avere “la bocca troppo larga”. Il Financial Times Deutschland ha scritto che è ufficiosamente riaperta la gara e che Weber non è più il candidato numero uno, e che al suo posto maggiori chanches le ha Draghi. Mentre il riflesso condizionato tedesco di preferire un fido banchiere centrale olandese a un italiano olandese non trova buona soluzione in Nout Wellink, che deve occuparsi dei problemi di bilancio e della solidità finanziaria del suo Paese. A parte il fatto che già il predecessore di Trichet, Wim Duisenberg, era olandese. Su Die Welt il presidente dell’eurogruoppo, il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, ha anch’egli criticato duramente Weber. In futuro alla Bce, ha detto, serve un presidente che esprima con autorevolezza una sola voce, non un polemista minoritario.

E’ vero, contro Draghi gioca che il vicepresidente BCE scelto l’anno scorso è del Sud Europa, il portoghese Vitor Constancio. Ma a un francese non può succedere un altro francese, come Dominique Strauss-Kahn, oggi alla testa del FMI a almeno apparentemente il candidato di bandiera di Parigi . Al vice portoghese tanto meno si può aggiungere poi un presidente spagnolo, come spera Madrid che tiene in serbo Jaime Caruana, oggi alla rigorosissima BRI di Basilea, e alla Banca di Spagna dieci anni fa. Mentre il banchiere centrale lussemburghese, Yves Mersch, è un avvocato: il che lo esclude per mancanza di titoli. I tedeschi, scartato Weber, potrebbero giocare la carta di Klaus Regling, l’ex direttore generale della degli Affari Economici e Finanziari alla Commissione Europea oggi alla testa dell’European Financial Stability Facility da 440 miliardi nato per la crisi greca, e che i tedeschi vogliono smontare, sostituendolo con un più ambizioso Fondo Monetario Europeo subordinato però a un’improbabile modifica del Trattato. Ma Regling non ha alcuna esperienza di banca centrale.

Come si vede, all’esame delle forze in campo, Draghi ha tra tutti migliori possibilità di quanto si credesse fino a pochi mesi fa. La guida del Financial Stability Forum e l’ottimo rapporto con Geithner e gli altri regolatori mondiali lo ha reso un candidato autorevole al di là delle vicende del suo Paese. Francamente, al Quirinale potrebbero e dovrebbero pensarci, prima di dirottarlo su altro.

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Puttane e fascisti di sinistra /2010/10/27/puttane-e-fascisti-di-sinistra/ /2010/10/27/puttane-e-fascisti-di-sinistra/#comments Wed, 27 Oct 2010 15:09:16 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7408 Un’ordinanza del comune di Genova proibisce alle prostitute “atteggiamenti di richiamo” quali il “saluto allusivo” o “l’abbigliamento indecoroso che mostra nudità”, mentre i potenziali clienti non potranno “chiedere informazioni finalizzate ad acquisire prestazioni sessuali” né “eseguire manovre pericolose di intralcio alla circolazione stradale”. Queste misure anti-prostituzione rappresentano il secondo “contrordine compagni” consecutivo dell’amministrazione guidata da Marta Vincenzi.

A differenza delle manovre precedenti, questa è una dimostrazione del fatto che aveva ragione Ennio Flaiano quando diceva che “i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti”.

Prima la giunta di centrosinistra ha pensato di fare la guerra ai “bassi” dove le lucciole ricevevano i clienti. Poi ha deciso di stilare un protocollo d’intesa affidando alle ragazze addirittura il compito di presidiare il territorio. Adesso, SuperMarta rimette la faccia cattiva e fa approvare un’ordinanza che, fatto salvo l’aspetto parzialmente condivisibile sulla circolazione stradale, equivale a gettare una bomba atomica sul quartiere per fermare un rapinatore (qui un articolo di Enrico Musso, avversario di Vincenzi alle scorse elezioni comunali e suo possibile rivale alle prossime).

Intendiamoci: la prostituzione solleva infiniti problemi, di pubblico decoro e sanitari anzitutto, ed è giusto cercare strumenti per coniugare la tutela dell’ordine pubblico con l’attività delle prostitute. E’ invece più che sbagliato, è inutile, impossibile e indesiderabile l’idea di sopprimere quello che, non a caso, è chiamato il mestiere più antico del mondo. Ma è semplicemente inaccettabile, per chiunque abbia a cuore le più basilari libertà civili, creare delle norme che hanno, se non l’obiettivo, sicuramente l’effetto di limitare la libertà di parola.

Quello che desta scandalo non è solo la natura di un provvedimento come questo, che sembra la caricatura di una grida manzoniana. È facile immaginare che le multe verranno impugnate, e sarà divertente vedere in che modo i vigili difenderanno il loro operato: cosa distingue una prostituta da una non prostituta? Che differenza c’è tra un cliente che negozia con una prostituta, e un uomo che parla con una donna? Quando le nudità diventano indecorose? Quale particolare rende un saluto “allusivo”?

Il problema, dal mio punto di vista, non è quello tecnico di definire tutte queste cose, e definirle in modo che sia convincente per un giudice (tutti sappiamo distinguere un gesto allusivo da uno innocente, ma dimostrare che è allusivo è un altro paio di maniche). Quello che trovo inammissibile è che una serie di attività di per sé lecite – lanciare uno sguardo lascivo, azzardare una scollatura ambiziosa, discutere sul valore di un pompino – vengano multate perché, si suppone (ma non si sa e non si può dimostrare), possono condurre a un reato (l’adescamento). Se due persone chiacchierano su come mettere una bomba nel Parlamento (alzi la mano chi non l’ha mai fatto), ma non prendono nessuna iniziativa che possa condurre a compiere quel gesto, non sono condannabili. E tutti quanti (spero) siamo d’accordo sul fatto che non devono essere condannabili. Perché la libertà di parola non può dipendere da quel che si dice o, peggio ancora, da come lo si dice. La libertà di parola è libertà, o non è.

Quindi, nel momento in cui viene emanata un’ordinanza come questa, non stiamo più parlando di prostituzione. Stiamo parlando di libertà di parola. Stiamo parlando della libertà di alcuni uomini di discutere con alcune donne, e di alcune donne di guardare alcuni uomini in modo provocante e di vestirsi come gli pare e piace. Non dobbiamo e non possiamo mai perdere di vista che prima di essere puttanieri e puttane, essi sono – appunto – uomini e donne. Se rinunciamo a riconoscere questo fatto perché le puttane stanno male e i puttanieri ci fanno schifo, stiamo rinunciando a un pezzo importante della nostra libertà. Stiamo appaltando i nostri diritti a un fascismo sottile e moralista, stiamo dimenticando che, nel momento in cui ci lasciamo amputare uno scampolo di libertà che noi personalmente non usiamo, abbiamo implicitamente venduto l’anima al diavolo del potere. In quel momento, proprio mentre concediamo una firma che non potremo mai più ritirare, abbiamo messo a disposizione tutta la nostra libertà, perché ci sarà sempre qualche nostra abitudine, qualche nostro vezzo, qualche nostro vizio e qualche nostra virtù che agli altri non interessa e che a qualcuno non piace.

Come disse Jake Blues, “io li odio, i nazisti dell’Illinois”.

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