CHICAGO BLOG » mercato http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Mon, 17 Jan 2011 19:13:29 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.4 Autorità. 30 giorni al big bang /2011/01/13/autorita-30-giorni-al-big-bang/ /2011/01/13/autorita-30-giorni-al-big-bang/#comments Thu, 13 Jan 2011 09:58:56 +0000 Carlo Stagnaro /?p=8007 Per chi segue la telenovela che ormai si trascina avanti da anni prima sul completamento, e poi sul rinnovo del collegio dell’Autorità per l’energia. Dopo il passo indietro del presidente designato, Antonio Catricalà, si è assistito a una girandola di nomi, dei quali i più accreditati parevano essere Rocco Colicchio e Raffaele Squitieri, improvvisamente tutto si è fermato. E’ infatti intervenuto un parere del Consiglio di stato, richiesto dalla stessa Autorità, secondo cui – in assenza di nomine – il collegio in carica avrebbe potuto restare in carica per altri 60 giorni. Da allora, la prima notizia è che non ci sono notizie. La seconda notizia è che non ci sono cambiamenti.

Apparentemente, essendo presi in altre incombenze, i decisori politici – di maggioranza e di opposizione – hanno considerato il parere del Cds non come un invito a sbrigarsi, ma come un permesso a prendersela calma. Del resto, c’era Natale di mezzo. Sicché i problemi che avevano portato all’impasse si ripropongono, oggi, sempre identici. Problemi di forma e di sostanza, oltre che di tempi.

Dal punto di vista dei tempi, oggi manca un mese esatto allo scadere della prorogatio. Dopo il 13 febbraio, secondo l’interpretazione del Cds e in assenza di interventi muscolari da parte del governo (per esempio un decreto che emendi la legge istitutiva dell’Autorità per consentire la proroga a tempo indeterminato), l’Autorità si troverebbe nell’impossibilità di operare, con l’emergere di problemi potenzialmente insormontabili per il funzionamento del mercato. Tuttavia, avendo sprecato i primi 30 giorni, i rimanenti 30 appaiono come un orizzonte molto stretto, vuoi per la confusione dello scenario politico, vuoi per le tante priorità che si accumulano sulle scrivanie di Palazzo Chigi. Infatti, per insediare il nuovo collegio non basta il via libera del governo (che a oggi non c’è stato ma che, secondo alcuni, potrebbe esserci durante la riunione di domani del consiglio dei ministri). Ci vuole anche l’approvazione delle Commissioni parlamentari competenti.

E’ qui che convergono i problemi di forma e di sostanza. Dal punto di vista della forma, non fa una buona impressione né sul mercato, né sul paese il disinteresse non solo manifestato: ostentato dal ceto politico per la questione. Pesa ancora di più l’apparente misunderstanding delle ragioni profonde del patatrac di dicembre. Secondo le indiscrezioni di stampa (per esempio qui e qui) il governo sta affrontando la questione avendo in mente la mera sostituzione del presidente: quando il terremoto era cominciato prima della rinuncia di Catricalà, e anzi aveva causato tale rinuncia. La presunta soluzione, cioè, sembra indirizzata più ai sintomi che alla causa.

La causa profonda, infatti, è l’insoddisfazione di molti parlamentari di entrambi gli schieramenti per la qualità del collegio (composto, oltre che da Catricalà, da Alberto Biancardi, Guido Bortoni, Luigi Carbone e Valeria Termini). Se alcuni dei membri designati posseggono indiscutibilmente le competenze e il prestigio richiesti dalla legge, per altri non si può dire lo stesso; o, almeno, così sembrano pensarla i parlamentari chiamati a pronunciarsi. Sta qui il problema di sostanza che l’esecutivo si ostina a non cogliere. I buoni risultati raggiunti sul mercato elettrico e quelli decenti su quello del gas sono anche frutto di un’Autorità che, sia sotto la guida di Pippo Ranci sia sotto quella di Alessandro Ortis, ha saputo interpretare bene il suo ruolo e difendere adeguatamente la sua indipendenza.

Questa volta, alcune delle nomine e il modo in cui il dossier viene gestito suggeriscono invece un tentativo di depotenziare l’Autorità, tentativo del resto in linea con interventi precedenti (per esempio il blitz per il suo commissariamento, fallito, e l’intervento parafiscale sul suo bilancio). Il rischio di un’Autorità troppo legata al potere politico (sia l’attuale maggioranza, sia l’attuale opposizione, dalla cui collusione nasce il collegio designato) o poco credibile nelle sue decisioni è quello di indurre comportamenti opportunistici e anticoncorrenziali sul mercato, o assistere impotenti alla sua destrutturazione per opera politica.

A quanto pare, il governo – immagino col tacito assenso del Pd – ha deciso di perseverare nell’errore. Mettendo a repentaglio l’approvazione parlamentare del collegio e la futura stabilità del mercato.

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Ancora sui saldi /2011/01/07/ancora-sui-saldi/ /2011/01/07/ancora-sui-saldi/#comments Fri, 07 Jan 2011 19:26:18 +0000 Serena Sileoni /?p=7982 Mentre i consumatori si scatenano negli acquisti di fine stagione, la politica torna a scatenare la propria fantasia su come, ancora una volta, regolamentare con più efficacia i saldi.
Ci siamo già espressi sulla convinzione che la regolamentazione dei saldi di fine stagione sia, quantomeno, miope.Torniamo sull’argomento perché è notizia di questi giorni che la Regione Lombardia starebbe pensando ad una nuova legge per far fronte alle tattiche con cui i commercianti anticipano i saldi di fine stagione, in elusione della vigente regolamentazione.

In effetti – come dice l’assessore Maullu – gli esercenti, stretti dalle normative regionali che impongono “quanto”, “quando” e “come” effettuare i saldi, spesso praticano sconti sottobanco, informano anzitempo e riservatamente la clientela fidelizzata delle offerte pre-saldo, insomma fanno di necessità virtù, con la fondata speranza di vendere in periodi di regali prima che i saldi, finite le feste, diventino meno allettanti.

È difficile comprendere la ragione per cui le istituzioni intervengono sulla libertà del commerciante di scegliere il prezzo e le modalità migliori di vendita per lui e per il cliente. L’assessore Maullu parla di una Babele pre-saldi che crea “inaccettabili differenze tra acquirenti di serie A e di serie B”. Più che di Babele, si tratta forse solo del tentativo di commercianti e consumatori di venirsi incontro nel reciproco interesse, sfuggendo a regole, divieti e irrigidimenti difficilmente giustificabili in regime di libero mercato. A ben guardare, anzi, è una bella confusione, perché nasce da uno spontaneo incontro di esigenze che non recano nocumento a nessuno.

Che, per un esercente, un consumatore abituale sia “diverso” da uno casuale, è poi un dato di fatto che nessuna norma potrà cambiare.

Ad ogni modo, anche l’Antritrust segnala che il divieto di vendite promozionali a ridosso dei saldi di fine stagione che “comprime sproporzionalmente la libertà di iniziativa economica dei negozianti e può dare luogo a fenomeni di elusione a danno dei consumatori”.

Le “inaccettabili differenze” di cui parla Maullu sono create, tuttavia, non dal comportamento dei commercianti, ma, a monte, proprio dalla regolamentazione dei saldi, che impedisce al venditore di scegliere liberamente tempi e prezzi dei saldi di fine stagione anche per i clienti che non conosce o che non può raggiungere con un sms, una cartolina o una telefonata. Allora, se si vogliono evocare parole come “discriminazione”, se si pretende giustamente dai commercianti di essere equi, si intervenga alla radice del problema e si eliminino i divieti e i limiti delle vendite straordinarie.

La segnalazione dell’Antitrust non passi come la legittimazione a ulteriori regole che irrigidiscono ancora di più il calendario dei saldi. Essa sia piuttosto letta come occasione per l’avvio, per troppo tempo ritardato dalle regioni, della reale liberalizzazione delle vendite straordinarie.

Una legge regionale che liberalizzi il settore, spingendosi anche oltre alla legislazione statale, potrebbe dimostrare alle altre regioni e allo Stato che le regole vengono schivate quando non sono buone regole, e che la fantasia dei commercianti, apprezzata dagli acquirenti, è semplicemente il segnale del mercato di voler essere più produttivo.

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Giochi online, fisco e concorrenza /2011/01/07/giochi-online-fisco-e-concorrenza/ /2011/01/07/giochi-online-fisco-e-concorrenza/#comments Fri, 07 Jan 2011 18:59:59 +0000 Massimiliano Trovato /?p=7976 Nei giorni scorsi l’Agenzia delle Entrate si è pronunciata sull’interpello promosso da un contribuente in merito al trattamento fiscale di alcune vincite conseguite per effetto della partecipazione a giochi online.

Con il suo parere l’Agenzia ha confermato la soluzione più prevedibile: tali introiti rientrano nel campo d’applicazione dell’articolo 67, comma 1, lettera d) del TUIR, e vanno dunque indicati in dichiarazione come redditi diversi; senza – peraltro – poter dedurre le spese di produzione (cioè le puntate per la partecipazione ai concorsi), secondo il dettato dell’articolo 69, comma 1.

L’Agenzia limita, inoltre, l’ambito d’applicazione del responso ai “siti web registrati e/o con server ubicati all’estero e/o gestiti da operatori stranieri”, dal momento che gli operatori italiani sono obbligati ad esercitare la ritenuta d’imposta ex articolo 30 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

A ben guardare, il motivo d’interesse del parere non risiede nella riaffermazione di una disciplina che (pur con qualche eccessiva rigidità: le previsioni sul monitoraggio dei conti di gioco) discende in maniera piuttosto lineare dai principi della materia, bensì nella certificazione di una netta distinzione tra gli operatori stabiliti in Italia e quelli che – pur licenziati dall’AAMS – operano dall’estero.

Se è vero che ai primi s’impone l’onere della ritenuta, da cui i secondi sono esenti, si deve pur considerare l’effetto che il chiarimento dell’Agenzia delle Entrate potrà ingenerare presso la platea dei giocatori. Va, inoltre, ricordato che le vincite presso siti esteri sono assoggettate all’aliquota marginale IRPEF, che può raggiungere il 43%, mentre la ritenuta d’imposta è limitata al 25%. In altre parole, il quadro di riferimento rende più laborioso e meno remunerativo giocare attraverso i servizi di operatori stranieri.

Un simile effetto distorsivo discende da un’altra norma di recente approvazione. Ai sensi dell’articolo 1, comma 71 della legge 13 dicembre 2010, n. 220 (Legge di stabilità 2011), “i concessionari abilitati alla raccolta delle scommesse sportive a quota fissa che abbiano conseguito per tale gioco percentuali di restituzione in vincite inferiori all’80 per cento sono tenuti a versare all’erario il 20 per cento della differenza lorda così maturata”, con effetti di controversa quantificazione e, soprattutto, con l’incongura intromissione dello stato che – nell’imporsi come socio occulto senza accollarsi i rischi del banco – introduce a carico del settore un ingiustificato elemento di disparità.

Il mercato del gioco online è rilevante ed in continua espansione, con un fatturato triplicato in due anni, da 1,5 miliardi nel 2008 a quasi 5 miliardi nel 2010. Il solo poker (nella versione Texas Hold’em) “in quattro anni ha raggiunto la cifra di cinque milioni di giocatori su internet“. Ben venga, dunque, l’attenzione dell’erario per un fenomeno tutt’altro che trascurabile.

A patto, però, che siano rispettate due condizioni: da un lato, è necessario resistere a tentazioni punitive od opportunistiche che potrebbero danneggiare indebitamente il settore; dall’altro, si deve preservare la neutralità tributaria, onde non compromettere la concorrenzialità – interna ed esterna – del mercato dei giochi.

[HT: Jonkind; cross-posted @ MediaLaws]

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Pane e brioches: quando i poveri devono pagare il pranzo dei ricchi /2011/01/05/pane-e-brioches-quando-i-poveri-devono-pagare-il-pranzo-dei-ricchi/ /2011/01/05/pane-e-brioches-quando-i-poveri-devono-pagare-il-pranzo-dei-ricchi/#comments Wed, 05 Jan 2011 20:03:07 +0000 Giordano Masini /?p=7968 A giudicare dalle solite statistiche post natalizie (qui e qui un paio di esempi), anche quest’anno gli italiani (fatta salva un po’ di cautela, dati i tempi) non hanno rinunciato a mangiar bene e, dove possibile, avrebbero orientato le loro scelte verso prodotti alimentari tipici e biologici. I prodotti tipici, soprattutto quando derivano da agricoltura biologica, sono prodotti di nicchia, tendenzialmente orientati a consumatori abbienti e (forse) consapevoli. Per questa ragione non stupisce affatto che in molti abbiano pensato bene di portare in tavola tipico e bio per cenoni e pranzi di Natale e San Silvestro, quando ci si concede il lusso di spendere qualcosa in più rispetto al resto dell’anno.

I prodotti da agricoltura biologica sono, in sostanza, roba da ricchi. Non potrebbe essere altrimenti, dato che l’agricoltura biologica è molto, ma molto meno produttiva di quella convenzionale, e quindi la mancata produzione dell’agricoltore viene compensata da un prezzo decisamente più alto. D’altronde la filosofia del biologico è sempre la stessa: se io produco mele col baco, qualcuno deve pur essere disposto a pagarmele per buone.

Allora come mai negli ultimi anni i prezzi all’origine dei prodotti agricoli convenzionali e biologici si sono così avvicinati? Oggi la differenza tra un quintale di grano tenero biologico e uno di grano tenero convenzionale è di pochi spicci, mentre quindici anni fa il primo veniva pagato quasi il doppio del secondo. Semplicemente, è successo che non è più il consumatore (che sceglie liberamente cosa acquistare) a pagare il mancato raccolto dell’agricoltore biologico, ma il contribuente, attraverso le sue tasse che si trasformano in sussidi per l’agricoltura biologica e i prodotti tipici, oltre che per i consorzi di tutela e gli enti certificatori, ovvero tutto quel parastato che pretende di sapere meglio di noi ciò che ci piace e ciò che non ci piace bere o mangiare.

In questo modo siamo ritornati, nella vecchissima Europa del ventunesimo secolo, al paradosso per cui le tasse dei poveri servono (ricordate la storiella di Maria Antonietta?) a pagare il pranzo dei ricchi, o almeno a garantire un considerevole sconto sui loro prodotti preferiti.

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Western Union e il prezzo delle buone intenzioni – di Luca Mazzone /2011/01/04/western-union-e-il-prezzo-delle-buone-intenzioni-%e2%80%93-di-luca-mazzone/ /2011/01/04/western-union-e-il-prezzo-delle-buone-intenzioni-%e2%80%93-di-luca-mazzone/#comments Tue, 04 Jan 2011 15:23:20 +0000 Guest /?p=7959 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Luca Mazzone.

Ogni individuo mediamente informato riconosce l’importanza delle rimesse. Nei quartieri dove i lavoratori immigrati rappresentano una quota rilevante dei residenti, sono ormai parte integrante del paesaggio i cosiddetti money transfer.Da europei, abituati alla facilità e alla frequenza con la quale accediamo ai servizi bancari (in primis il bonifico), il ruolo di questi sportelli ci sembra a volte misterioso – e non sono mancate leggende metropolitane che hanno accostato i money transfer a luoghi di reclutamento di terroristi, o di raccolta di fondi per Al Qaida.

Un’altra manifestazione di ignoranza in tal senso si è palesata davanti ai miei occhi in un pomeriggio di inizio Gennaio, quando sono stato raggiunto dalla richiesta di adesione ad una raccolta di firme avente come bersaglio la politica di uno dei principali operatori del settore. Western Union, questa è l’accusa, praticherebbe commissioni “ingiuste”, ossia tali da far pesare i costi di transazione per un ammontare che può raggiungere il 20% della somma inviata. Non è impossibile che faccia presa sugli europei, abituati ad effettuare bonifici bancari a costi irrisori o nulli, l’argomento per cui ogni commissione su queste operazioni sarebbe un latrocinio. A questo punto, la conoscenza del fatto che un bonifico dall’Unione Europea agli Stati Uniti può costare anche 30€ dovrebbe tacitare ogni rivendicazione: le operazioni di questo tipo hanno un prezzo, quindi non stupisce che transazioni più complesse (e un bonifico da un paese UE a un paese africano, rispetto ad uno interno ad un solo paese della Comunità, lo è sicuramente) abbiano prezzi più elevati.

Mi permetto di dubitare che, se si trattasse di un mercato così profittevole, nessuno sarebbe entrato per sfruttarne le potenzialità. Certo, potrebbe esserci poca concorrenza, oggi, per ragioni a me non note: ma l’appello non sembra esattamente richiamare materia da antitrust.

Eppure, le più di centoventicinquemila firme già raccolte non possono essere frutto della semplice ignoranza di un dato di fatto, come l’evidenza che i bonifici bancari hanno un costo – e un prezzo. Quello che i promotori della raccolta di firme vogliono dirci è che Western Union sta ottenendo profitti “ingiusti”, praticando commissioni che sono slegate da un livello che loro sostengono essere “etico”.

È invece la scarsa comprensione dei meccanismi di mercato, o in altre parole l’incapacità di effettuare le corrette analogie tra fenomeni esistenti, la base dell’ampio sostegno raccolto dalla proposta: come possono, i firmatari, ignorare la discriminazione di prezzo esistente, ad esempio, nel settore assicurativo? D’altra parte, il compito delle compagnie assicurative è proprio prezzare il rischio, come il compito degli uffici di Western Union è farsi carico dei rischi (di cambio, ad esempio), della burocrazia e della semplice gestione del trasferimento di valuta.

Nel suo libro Difendere l’indifendibile, Walter Block prende le parti, tra gli altri, dei tassisti abusivi. Block sostiene che la loro lotta alla rendita monopolistica detenuta dai tassisti dotati di licenza permette a chi non avrebbe goduto di un servizio di trasporto, come chi vive in quartieri degradati, di avervi accesso – ovviamente pagando un premio al rischio al tassista abusivo. Il prezzo maggiorato che i clienti di quel taxi dovrebbero pagare è l’essenza del problema di cui stiamo discutendo: proibendo ai tassisti abusivi di offrire quel servizio, ad esempio obbligandoli ad acquistare una licenza, restringendo l’offerta e poi regolamentando le tariffe, l’unica conseguenza sui quartieri degradati è che saranno privi di un servizio di trasporto, perché nessuno vorrà offrirlo alle nuove condizioni.

Analogamente, l’applicazione di quello che i firmatari sembrano sostenere non avrà gli effetti redistributivi che l’appello promette: al contrario, se dovesse essere mai attuata, avrebbe l’effetto di rendere ancora più difficoltosi i trasferimenti dei lavoratori emigrati dai paesi in via di sviluppo. La necessità di una visione pragmatica del problema (abbiamo il diritto di sognare con i risparmi degli altri?) ci impone di ammettere che l’unica alternativa a commissioni così elevate potrebbe essere una rinuncia delle compagnie a offrire il servizio a molti potenziali clienti. Siamo davvero pronti a pagare un prezzo così alto al desiderio di essere buoni?

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Chi il rigassificatore ferisce, di inedia perisce… /2010/12/20/chi-il-rigassificatore-ferisce-di-inedia-perisce%e2%80%a6/ /2010/12/20/chi-il-rigassificatore-ferisce-di-inedia-perisce%e2%80%a6/#comments Mon, 20 Dec 2010 22:44:59 +0000 Luciano Lavecchia /?p=7874 di Carlo Stagnaro e Luciano Lavecchia

Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso del Comune di Agrigento contro il progetto del Rigassificatore di Porto Empedocle, un progetto che risale a 6 anni fa, che prevede una capacità di 8 mld di m3, e investimenti per 650 mln. Il rigassificatore peraltro insiste sul territorio di comune diverso da Agrigento, Porto Empedocle, favorevole all’iniziativa, insieme al Ministero dell’Ambiente e la Regione Siciliana. Il sindaco di Agrigento, supportato da organizzazioni ambientaliste assortite e dalla consueta carovana del “no”, lamenta il mancato coinvolgimento nella Conferenza dei Servizi della sua Amministrazione. Insomma, più che un esempio di NIMBY (not-in-my-backyard) siamo davanti ad un caso di BANANA (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything), ove un’opera infrastrutturale di respiro nazionale (il gas costituisce il 38% dell’energia primaria consumata in Italia nel 2009), con tempi di approvazione biblici (sei anni!), riceve l’autorizzazione (la Valutazione d’Impatto Ambientale – VIA) dagli enti locali coinvolti, ma viene bloccata per le bizze di un Comune vicino. A color che opporranno che Agrigento è effettivamente prossima a Porto Empedocle, e che un rigassificatore è un impianto che coinvolge un’area ampia, rispondiamo che se ogni opera infrastrutturale deve richiedere il parere di ogni stakeholder, e del vicino di ogni stakeholder, e del vicino del vicino, e di suo cugino e degli amici del cugino, si capisce perché questo paese è 157 nella categoria “enforcing contracts” (su 183 paesi) della Survey Doing Business della World Bank (per il 2011). Va da sé che, considerando i tempi geologici, c’erano tutte le possibilità per ascoltare, senza avere necessari mante il sindaco presente, gli interessi dei cittadini di Agrigento (e anche quelli di Palermo, Catania, Napoli, Roma, Milano e Londra, già che ci siamo..) Al danno (per il Paese) la beffa (per il territorio): oltre alle ricadute occupazionali (500 operai previsti a regime), ENEL – titolare dell’investimento – prevedeva opere compensative per 50 mln di euro, fra le quali un nuovo molo per navi da crociera, riqualificazione dell’illuminazione della Valle dei Templi e disponibilità gratuita di acqua potabile ed industriale per tutto il territorio agrigentino (un’area dove al 2011 vi sono ancora comuni che ricevono l’acqua ogni 4 giorni! – ne abbiamo già parlato e ne parleremo ancora) e royalties annue da 2 mln per il Comune e 2,5 per la Regione. Insomma, ricadute più che positive per una Regione in affanno. Eppure, davanti al rispetto per i sacri confini della Patria e l’ambiente, nulla regge, niente può corrompere le candide anime dei nuovi luddisti. Oltretutto la Sicilia non è nuova nell’opposizione ai rigassificatori, come nel caso del progetto di Priolo-Melilli ove è in atto un duro scontro fra la Confindustria locale e la Regione Siciliana. Porto Empedocle sembrava fino ad ora immune da questi problemi (esiste un vasto comitato favorevole e persino lo scrittore Andrea Camilleri, noto per le sue posizioni contro il Ponte sullo Stretto). ENEL ha annunciato ricorso davanti al Consiglio di Stato, ultima speranza per il progetto. La vicenda suscita due riflessioni, entrambe deprimenti. La prima dovrebbe deprimere i consumatori elettrici. E’ ragionevole aspettarsi che, se e quando il terminale entrerà in funzione, sarà alimentato da gas nigeriano. Lo stesso gas che avrebbe dovuto rifornire un terminale – mai realizzato e sempre per opposizioni pregiudiziali – a Monfalcone. Quel gas, garantito da un contratto di lungo termine tra l’azienda di Viale Regina Margherita e il paese africano, raggiunge oggi la Francia grazie a uno swap con Gaz de France, non senza aver prima originato penali che ancora oggi gli italiani pagano in bolletta perché, ai tempi della liberalizzazione, l’extracosto dovuto all’investimento mai realizzato venne riconosciuto come straded. Così, i consumatori sborsano ogni anno più di 100 milioni di euro, e grazie alla sortita del comune di Agrigento continueranno a pagarli. La seconda questione, più generale, riguarda la natura e l’effetto della giustizia amministrativa. Nessuno di noi è un giurista, ma ci pare ovvio che il senso del diritto amministrativo sia quello di garantire il rispetto delle forme e delle procedure, non quello di offrire alle pubbliche amministrazioni l’occasione per dire la propria sempre e comunque, anche fuori tempo massimo. Il comune di Agrigento, se riteneva di dover essere coinvolto, avrebbe dovuto alzare la voce durante la conferenza dei servizi, non ora che i giochi sono fatti. Tanto più che il suo territorio è toccato dall’opera solo indirettamente, perché attraversato dal tratto di gasdotto che dovrebbe allacciare il rigassificatore alla rete nazionale e che, peraltro, è di competenza Snam, non Enel. Insomma: comunque la si guardi, siamo di fronte all’ennesimo caso studio su come spaventare gli investitori, scacciare gli investimenti, e perpetuare la stagnazione economica. Una cosa sola ci resta da fare: protestiamo, protestiamo, protestiamo!

di Carlo Stagnaro e Luciano Lavecchia

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Cournot e Bertrand in aeroporto /2010/12/16/cournot-e-bertrand-in-aeroporto/ /2010/12/16/cournot-e-bertrand-in-aeroporto/#comments Thu, 16 Dec 2010 19:55:31 +0000 Camilla Conti /?p=7863 Come incidono il potere contrattuale delle compagnie e le discriminazioni tarrifarie praticate dai gestori sul mercato aeroportuale e sul consumatore finale? A questa domanda hanno cercato di rispondere empiricamente Jonathan Haskel, Alberto Iozzi and Tommaso Valletti del Ceis di Tor Vergata ricorrendo a due modelli standard di oligopolio applicate al settore: quello di Cournot e quello di Bertrand.

Nel primo caso le imprese concorrono sulla quantità da produrre, il prezzo di mercato risulta maggiore del prezzo in concorrenza perfetta ma minore del prezzo in caso di monopolio, il guadagno di ogni impresa risulta positivo. Il modello di Bertrand, invece,  prevede due sole imprese in cui si ipotizza che ciascuna di esse fissi il prezzo a cui vendere il proprio prodotto, assumendo che l’altra non modifichi il suo prezzo.

Ciascuno dei produttori non può migliorare, quindi, la sua posizione praticando una politica di prezzi più bassi senza provocare un egual ribasso da parte del concorrente. Ebbene, il potere contrattuale delle compagnie con  i gestori aeroportuali  sul fronte dei diritti di atterraggio (landing fees) ha un effetto sui prezzi praticati ai consumatori finali solo nel caso di duopolio alla Bertand mentre nel modello alla Cournot ciascuna compagnia può tenere per sé il surplus.

Lo studio dimostra ad esempio che un aumento della concentrazione a monte o della sostituibilità tra gli aeroporti aumenta sempre la tassa di atterraggio. Non solo. La capacità di mettere in campo un contropotere attraverso un aumento della concentrazione a valle, dipende dal regime di concorrenza tra compagnie aeree e dalla possibilità per gli aeroporti di attuare discriminazioni di prezzo: la concentrazione delle linee aeree consente di ridurre la tassa di atterraggio quando la concorrenza a valle è in quantità, ma se la concorrenza a valle è nei prezzi, le tasse si riducono solo quando gli aeroporti non possono praticare listini differenziati.

Nello stesso paper, viene infine analizzata la trasformazione del business aeroportuale negli ultimi anni. Partendo dai cambiamenti avvenuti nella struttura del mercato: il successo delle compagnie low cost ha fatto scendere in campo nuovi giocatori come gli scali più decentrati. Scali gestiti da privati hanno avviato una dura battaglia a colpi di tariffe per attirare compagnie aeree anche in grandi città come Mosca, Melbourne, Miami e Londra.

Non solo. Secondo: 55 Paesi hanno privatizzato parzialmente o completamente il loro aeroporti.  Non vanno infine sottovalutati i cambiamenti normativi attuati anche a livello europeo e la sempre maggiore congestione degli scali.

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In alto i tassi reali, disastro reale in arrivo /2010/12/16/in-alto-i-tassi-reali-disastro-reale-in-arrivo/ /2010/12/16/in-alto-i-tassi-reali-disastro-reale-in-arrivo/#comments Thu, 16 Dec 2010 18:56:12 +0000 Mario Seminerio /?p=7860 Altra disastrosa asta di titoli di stato in Eurolandia, questa volta in Spagna. All’indomani della messa in outlook negativo da parte di Moody’s, Madrid ha piazzato due emissioni, a 10 e 15 anni, per le quali aveva preventivamente ridotto l’importo di emissione, nel tentativo (fallito) di contenere l’impatto di mercato sui rendimenti.

Il rendimento medio sul decennale è uscito al 5,446%, contro il 4,615% della precedente asta di questo bond, lo scorso 18 novembre. Il titolo quindicennale è stato collocato ad un rendimento del 5,953%, contro il 4,541% dell’asta del 21 ottobre. Campanello d’allarme nel bid-to-cover, il rapporto tra le quantità domandate e quelle offerte. Per il decennale, tale quoziente scende infatti da 1,84 a 1,67. Meglio le cose per il quindicennale, la cui copertura aumenta da 1,44 a 2,52.

Premesso che i rendimenti obbligazionari stanno salendo un po’ ovunque, anche in modo vistoso (ne parliamo tra poco), proviamo a chiederci in che modo la Spagna, che ha una crescita del Pil prossima allo zero, riuscirà a reggere il servizio del debito di titoli per i quali il mercato chiede quasi il 6 per cento. E soprattutto, ricordate che l’inflazione non sta salendo, quindi ci troviamo in un contesto di tassi reali positivi e crescenti, una vera iattura per ogni debitore. Proseguendo su questa traiettoria, aggiungendo le pesanti aste di titoli pubblici che Spagna e Portogallo dovranno effettuare a inizio 2011, la probabilità che la Spagna finisca nei guai è piuttosto elevata. E dopo la Spagna, eccetera eccetera.

A proposito di rendimenti obbligazionari in rialzo, a conferma del fatto che la scienza economica è sempre più un’opinione, è in corso un ampio e corposo dibattito circa le cause di tale fenomeno. Da una parte vi sono quelli che ritengono che si tratti della discesa in campo dei mitici bond vigilantes, cioè del mercato, che reagisce al lassismo fiscale americano ed alla eurocrisi di debito. Altri, come Martin Wolf, si rallegrano invece del fatto che i tassi reali sono in aumento, perché ciò vuol dire che la ripresa è tra noi, oltre che per altri motivi “minori”, come la vigorosa domanda di capitale dei paesi emergenti che incontra un risparmio disponibile in calo planetario, a causa dell’invecchiamento dei paesi sviluppati. Wolf peraltro cade vittima di un gioco di specchi, scambiando l’inflazione effettiva (che è ferma o addirittura declinante un po’ ovunque in Occidente) con le attese inflazionistiche implicite nei titoli di stato indicizzati all’inflazione.

Può essere tutto, ma senza scomodare troppe teorie e wishful thinking, non potrebbe più banalmente essere che siamo a fine anno, molti investitori istituzionali (soprattutto hedge fund) decidono la nuova asset allocation (uscendo dall’obbligazionario) ed il mercato è scarsamente liquido per motivi di stagionalità? Non è che deve sempre e comunque esserci una spiegazione coerente con la teoria economica, sapete? Ah, e nel frattempo, il mutuo trentennale standard americano ha superato il 5 per cento. Con tanti saluti alla rivitalizzazione del mercato. Però i tassi reali sono in aumento, ergo, c’è la ripresa. Non sequitur, quanti crimini si compiono nel tuo nome.

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ABS: frenare senza slittare? /2010/12/08/abs-frenare-senza-slittare/ /2010/12/08/abs-frenare-senza-slittare/#comments Wed, 08 Dec 2010 09:15:23 +0000 Pietro Monsurrò /?p=7811 Gli ABS a cui mi riferisco non sono i sistemi di frenata anti-slittamento delle automobili, ma le Asset Backed Securities: uno strano nome, suggeritomi da un’amica, per indicare il modello proposto pochi giorni fa – e parrebbe oggi prevedibilmente bocciato dai tedeschi – dai ministri lussemburghese e italiano Juncker e Tremonti sulle pagine del Financial Times. Gli autori propongono infatti di creare un’agenzia europea (EDA: European Debt Agency) che svolga una funzione di credit transformation per i titoli pubblici di tutti i paesi europei, sia quelli finanziariamente solidi come la Germania che quelli finanziariamente su, od oltre, l’orlo del baratro come la Grecia.

L’EDA emetterà obbligazioni omogenee comprando obbligazioni eterogenee. Ad esempio, potrebbe comprare 60€ di titoli tedeschi al 3%, 30€ di titoli italiani al 5% e 10€ di titoli greci al 7% (cifre arbitrarie) e offrire un’obbligazione unica da 100€ con rendimento ad esempio del 3.5%. Dopo un anno, riceverebbe capitale e interesse dai governi tedesco, italiano e greco (per un ammontare, in base ai numeri che ho dato, letteralmente, di 104€), e pagherebbe 103.5€ agli investitori nel fondo EDA, tenendo 0.5€ come profitti (al lordo delle spese di gestione). Se la Grecia pagasse per problemi di credito solo il capitale, cioè 10€, anziché anche gli interessi del 7%, il fondo EDA perderebbe invece 0.2€. Si tratta cioè di un gigantesco veicolo di investimento strutturato di proprietà pubblica.

Secondo i piani di Juncker e Tremonti, il fondo dovrebbe comprare il 50% delle emissioni primarie dei paesi europei in condizioni finanziarie normali, e fino al 100% delle emissioni primarie dei paesi europei in crisi finanziaria. Essendo il debito pubblico dei paesi dell’eurozona attualmente pari a circa 9.5 triliardi di euro e il PIL pari a circa 8,5 triliardi di euro, un fondo del genere allo stato attuale dovrebbe detenere circa il 55% del PIL dell’area euro. Tremonti e Juncker dicono il 40%, ma perché considerano il PIL europeo anziché quello dell’eurozona, e assumono che nessun paese europeo economicamente rilevante (e Grecia e Irlanda non lo sono) si trovi a dover vendere tutte le sue emissioni all’EDA perché effettivamente tagliato fuori dai mercati finanziari.

Come andrebbe gestito il fondo? Essendo un fondo pubblico, l’ABS in questione verrebbe gestito da politici o da persone appuntate dai politici. Possiamo quindi supporre che il fondo introdurrà pesanti distorsioni allocative ai mercati, visto che il suo scopo è proprio schermare i paesi finanziariamente più deboli dalle conseguenze della propria incapacità, miopia ed irresponsabilità politiche. Si comporterà come la banca centrale: farà di tutto per impedire l’aggiustamento del mercato, posticipare le dovute riforme, nascondere i problemi, riempirsi le casse di asset privi di valore per aiutare le banche (in questo caso i governi). Considerando che la manipolazione del credito è probabilmente la principale causa dell’instabilità economica e finanziaria (come ho sostenuto al recente Rothbard Seminar di Milano: “Azzardo morale, processo di mercato e crisi finanziarie”), la cosa non lascia ben sperare.

Un problema preliminare è che se il fondo deve dare liquidità al mercato, deve avere una leva ragionevole, altrimenti non riuscirebbe a garantire la credit transformation. Se il fondo venisse capitalizzato con il 2% di capitale, basterebbero perdite del 2.5% per generare perdite per gli obbligazionisti. Un capitale proprio del 2%, cioè una leva di 50 a 1, costerebbe 100 miliardi di euro. Un fondo decentemente capitalizzato richiederebbe cioè nuovi capitali per diverse centinaia di miliardi di euro. A spese ovviamente del contribuente.

Il fondo EDA eliminerebbe almeno metà del mercato primario (cioè di emissione), e quando serve l’intero mercato, dei titoli pubblici europei. L’EDA acquisterebbe titoli pubblici, assicurandone la liquidità fungendo da compratore dominante o addirittura unico. Inoltre comprerebbe titoli pubblici già emessi dai vari stati europei nel caso in cui gli investitori vogliano disfarsene, ad un prezzo pari a quello di mercato meno un haircut. Ad esempio, con un haircut del 3% sui titoli greci, l’EDA si troverebbe a comprare 100€ di titoli greci a 97€ dagli investitori che vogliano disfarsene, di fatto agendo da pavimento per i prezzi dei titoli pubblici.

Tutto dipende dal taglio dei capelli, dunque. L’haircut sarà un prezzo politico forzato al mercato dal market-maker di turno (l’EDA), esattamente come il prezzo del credito interbancario a breve (e occasionalmente anche a lungo) è fissato da un’altra autorità politica, la Banca Centrale Europea: l’equilibrio di mercato non conta, dunque, come non conta l’efficienza allocativa. Il prezzo verrà fissato in base a considerazioni di carattere politico, e paesi grandi come l’Italia avranno ovviamente una certa leva per prevenire eventuali aumenti dell’haircut. Oppure verrà fissato in modo da impedire che i paesi irresponsabili paghino le conseguenze delle proprie azioni, esattamente come la BCE agisce con le banche: l’unico problema è che eliminare le conseguenze dei propri errori incentiva proprio quel tipo di azioni che producono rischi sistemici. La soluzione ad un’overdose non è assumere un’altra dose di droga.

Juncker e Tremonti parlano inoltre di profitti. Solo se il mercato sovrastima la probabilità di fallimento dei titoli europei è però possibile fare profitti dalla trasformazione di credito. Se la crisi dovesse perdurare, l’EDA dovrebbe essere ricapitalizzata dai contribuenti europei, cosa che potrebbe capitare anche alla BCE, dovesse subire perdite sui rifiuti tossici che ha comprato negli ultimi anni (la BCE, in realtà, potrebbe stampare moneta per ricapitalizzarsi, anche se con alcuni vincoli legali da rispettare).

Non è impossibile che il mercato sovrastimi la probabilità di fallimento dei paesi sovrani. Un agente neutrale al rischio che stimasse la probabilità di fallimento della Grecia pari al 33% sarebbe indifferente tra un titolo tedesco al 3% e un titolo greco al 4%. Spread superiori implicano probabilità di fallimento stimate superiori, oppure avversione al rischio da parte degli investitori, cosa che in tempo di crisi ha un ruolo fondamentale nel determinare gli spread. L’EDA potrebbe operare come agente relativamente neutrale al rischio e arbitraggiare i tassi, guadagnando profitti. O potrebbe correggere stime di fallimento supposte eccessive. In entrambe i casi, si fornirà credito a costo inferiore ai paesi che hanno ampiamente dimostrato di non saperne fare buon uso. Fare arbitraggio sulla risk aversion privata, e peggio ancora sostituirsi al pricing di mercato del rischio, è una garanzia per manipolare i mercati e generare moral hazard: l’EDA complementerebbe dunque il ruolo, nefasto nel lungo termine perché incompatibile col regolare funzionamento dei mercati, della banca centrale.

Eppure non è detto che queste valutazioni siano eccessivamente pessimistiche. Se la crisi durerà ancora a lungo (quella giapponese va avanti imperterrita da 20 anni), il debito pubblico continuerà a crescere e la struttura finanziaria dei paesi e delle banche europee rimarrà fragile e soggetta a potenziali reazioni a catena (perdite sugli asset => perdite sul capitale bancario => perdite per deleveraging => ulteriori perdite sugli asset), diventa forse ragionevole pensare che nessuno vorrà tenere titoli PIGS decennali in portafoglio. L’Irlanda ha voluto garantire le sue banche e ora ne pagherà le conseguenze. L’unica differenza è che l’Europa nel suo complesso è sufficientemente grade da potersi permettere di creare disastri ben maggiori prima che il banco salti. Un po’ come il Giappone, che resiste da ormai due decenni a qualsiasi tentativo di razionalizzare la sua economia, sacrificando lo sviluppo economico, e dunque le generazioni future.

Nessuno si fiderà mai dell’euro finché l’unico scopo delle autorità fiscali e monetarie europee sarà quello di nascondere la polvere sotto il tappeto: una qualunque colf farebbe un lavoro migliore, e ad un costo di molto inferiore. L’Europa ha bisogno di realizzare le perdite delle banche, ridurre la fragilità sistemica ricapitalizzando i mercati finanziari, e tagliare la spesa pubblica, il deficit e il debito per migliorare le prospettive di crescita economica nel lungo termine ed allontanare lo spettro dei fallimenti sovrani. Il resto non solo non serve, ma genererebbe ulteriori distorsioni, incentivi perversi, e scuse per non riformare.

I sintomi servono ad indicare le malattie: l’abuso dei farmaci sintomatici viola, dunque, il giuramento di Ippocrate. Non è riempiendo le casseforti della BCE di debiti suini (PIGS) o creando un nuovo strumento di manipolazione dei mercati che si risolvono i problemi. Abbiamo messo tonnelate di stucco sulle crepe della diga, ma nessuno pare si sia preoccupato finora di abbassare il livello delle acque a monte facendole defluire a valle. Qualcuno si prenderà la responsabilità di fare una cosa del genere, prima o poi? Sono tre anni che è scoppiata la crisi, e il modello “chiudiamo gli occhi e fingiamo che i problemi scompaiano” è ancora la strategia favorita dalle nostre istituzioni. L’EDA è un piano di lungo termine? Forse in Unione Sovietica, trattandosi di socializzare interi mercati. Può funzionare per prender tempo e prepararsi ad affrontare meglio la crisi? Probabilmente sì, ma che garanzie danno le nostre istituzioni questa volta si comporteranno in maniera lungimirante e responsabile, quando a tre anni dall’inizio della crisi non hanno fatto nulla di tutto ciò?

Come sempre, aveva visto giusto Mises: “Le vie di mezzo portano al socialismo”. Nel nostro, caso, a politiche incompatibili col funzionamento dei mercati, e che sostituiscono a questi l’arbitrio di istituzioni incapaci di guardare in faccia la realtà, di prendere decisioni coraggiose, e di risolvere, in definitiva, più problemi di quanti ne creano. L’importante è stuccare le crepe: prima che la diga salti, si avrà tempo per trovare un capro espiatorio.

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Cosa imparare davvero dalla Norvegia /2010/12/03/cosa-imparare-davvero-dalla-norvegia/ /2010/12/03/cosa-imparare-davvero-dalla-norvegia/#comments Fri, 03 Dec 2010 08:13:13 +0000 Leonardo Baggiani /?p=7767 Come ho scritto altrove a fine 2009, la Banca Centrale Norvegese, Norges Bank, può essere vista come una sorta di “esperimento” sulla possibile evoluzione del Central Banking. Così come, con l’omologa Riskbank, è stata ispirazione e test per la letteratura sull’Inflation Targeting, la Norges Bank può essere considerata anche ispirazione e test di politiche monetarie equilibriste tra stimolo monetario e anti-bubbling (mio termine per le politiche di controllo delle bolle finanziare). In effetti la Norges Bank è stata una delle prime Banche Centrali ad alzare i tassi; un tasso ufficiale al 2% dall’1,25% di fine 2009 ha permesso il rallentamento del tasso di crescita dei prezzi degli immobili dal 15% al 6,3%, sedando una montante “bolla immobiliare” il cui scoppio è giudicato più deleterio del suo (temporaneo) effetto ricchezza.

A parte che questo comportamento costituisce già di per sé un nuovo paradigma (sicuramente rispetto alla politica USA che sostanzialmente ha cavalcato la bolla immobiliare), e a parte tutte le critiche già avanzate alla supponenza di saper distinguere una bolla da un normale riposizionamento dei portafogli, l’esperimento norvegese è tutto qui?

 

Il Central Banking sta cercando una nuova via, dato che la vecchia e sostanzialmente meccanica politica del “spingi sulla disoccupazione, ritira sull’inflazione” non è stata così efficiente e tanto meno efficace. Le Banche Centrali operano in accordo con la Taylor Rule, che è semplicemente un modo di legare l’interventismo monetario agli obiettivi, dovutamente “pesati”, di crescita e di controllo monetario (la Federal Reserve si comportava secondo questa regola già prima che Taylor definisse la regola, perché è in realtà la formalizzazione di una regola “empirica” già esistente); questa attenzione congiunta non ha salvato gli USA (e neppure la UE) dalla recessione. Tanto per far capire che il vecchio paradigma ha dei grossi problemi, secondo la Taylor Rule negli USA i tassi reali dovrebbero scendere al -4%, realizzabile solo con tassi ufficiali allo 0,25% e tasso di crescita dei prezzi al 4,25%, e questo spinge la Federal Reserve a sostenere ulteriori giri di Quantitative Easing, la cui efficacia pure inflazionistica è per lo meno dubbia.

L’attuale ripresa appare troppo legata agli stimoli fiscali e monetari, di cui i primi dovranno per forza di cose rientrare abbastanza presto e i secondi, quindi, non potranno venir velocemente ritirati. In generale vari Paesi stanno optando, o chiedendo, controlli sui movimenti dei capitali, il che è una conferma alla supposizione che si sarebbero cercati “altri” strumenti per controllare gli effetti di un inflazionismo lungi dal venir fermato; non siamo ancora ad un calmiere dei prezzi, in particolare per le materie prime, ma se non avremo rapidamente una vera ripresa (e non la avremo), quello sarà il passo definitivo per permettere di continuare a dilazionare i costi di una crisi che non è stata profonda come avrebbe dovuto. Il passo intermedio sarà, appunto, mettere di fatto dei target anche all’evoluzione dei prezzi di alcuni asset per sedare bolle che dovrebbero inevitabilmente formarsi con il perseverare dell’espansione monetaria che mi attendo sempre più direttamente veicolata al finanziamento del debito pubblico. La politica norvegese può per questo costituire il nuovo paradigma.

 

Ma la forza di una Norvegia che è tra i primissimi Paesi occidentali ad esser usciti dall’ultima recessione non credo sia da ascrivere solo ad un nuovo Central Banking fatto di “moderazione” degli andamenti finanziari.

La Norvegia anzitutto produce petrolio, quindi non deve temere l’entrata (a breve almeno) di nuovi concorrenti oltre quelli già presenti, il che non è un vantaggio da poco. Vero che alzare i tassi come prescritto dal “paradigma norvegese” nell’ultimo anno potrebbe portare, nel veloce mondo attuale della finanza, l’apprezzamento della Corona e quindi problemi di cosiddetta “inflazione importata”, ma allo stesso tempo è abbastanza facile “scaricare” il cambio nel prezzo del petrolio (se in una situazione simile si trovasse la UE, Trichet potrebbe costruirci un primato di forza dell’euro spodestando il dollaro).

Soprattutto però la Norvegia ha il Government Pension Fund, in sostanza un Fondo Sovrano che raccoglie i diritti di sfruttamento pagati dalle società petrolifere e li vincola in investimenti (azionari e obbligazionari) a lungo termine in Norvegia. Ritengo questo punto fondamentale, perché se si guarda l’insieme dei soggetti economici che operano nel Paese questo è costituito da tutte gli abitanti, tutte le società norvegesi, e lo Stato (Stato-apparato); lo Stato norvegese, attraverso il Fondo Sovrano, si pone nell’economia come un “risparmiatore di lungo termine” alzando così il tasso medio di risparmio a livello di sistema (al contrario, ad esempio, dell’Italia dove lo Stato è il primo spenditore in consumi). In questo modo si fornisce una base stabile e domestica (quindi senza rischio di “fuga”) per gli investimenti norvegesi di durata più lunga (a maggior roundabout ed essenzialmente più capital-intensive, in termini “austriaci”). In questo contesto, la Norvegia può contare su una discreta fonte internazionale di reddito che finanzi il suo sviluppo a lungo termine, e un possibile apprezzamento della Corona (scontato in qualche modo per un Paese economicamente forte che si permette, o necessita di, tassi relativamente alti) può diventare una ulteriore spinta ad una ricerca di efficienza a livello internazionale su produzioni che potrebbero essere utili nel futuro (questo legame tra moneta forte e stimolo all’efficienza è stato studiato anche da Arndt, come richiamato qui).

 

In altre parole: un nuovo paradigma del Central Banking, questo anti-bubbling à la norvegese, è solo una parte della verità, quella più esportabile e spendibile politicamente (si veda il beota consenso agli attacchi ad una indefinita “speculazione” finanziaria), che però fa necessaria sponda sì su una onniscienza finanziaria non dimostrabile ma soprattutto su una certa posizione di privilegio industriale e una lungimiranza economica che ha ben pochi riscontri sul resto d’Europa esclusa (forse) l’area germanica.

Oltre a dover sperare in un colpo di lungimiranza della classe politica, come potrebbe l’Italia alimentare un proprio Government Pension Fund? Trascurato il patrimonio archeologico-culturale, buttate via le competenze chimiche nucleari e tecnologiche, ed essendo le braccia dell’est più appetibili di quelle italiane, cosa resta oltre le royalties sulle femmine da esportazione (come dissi qui)?

La politica monetaria non può nulla se non c’è dietro una economia funzionante e una storia di Politica lungimirante: questa è la lezione completa della Norvegia.

 

 

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