CHICAGO BLOG » Mercato del lavoro http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 11:09:36 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Quel duro conservatorismo travestito da “sociale” /2010/12/19/quel-duro-conservatorismo-travestito-da-sociale/ /2010/12/19/quel-duro-conservatorismo-travestito-da-sociale/#comments Sun, 19 Dec 2010 14:32:16 +0000 Oscar Giannino /?p=7868 Premessa. Parlerò d’altro, di mercato, Italia, e Corriere e Repubblica di oggi. Ma prima dirò perché non ho aggiunto commenti a chi al precedente mio post su Marchionne – chi fosse interessato, trova un mio ulteriore articolo sul tema, sul Messaggero di oggi – mi ha definito “trinariciuto liberista”, aggiungendo che urlo perché ho poche idee, e che ho anche seri problemi psicologici, e che infine non attaccherei i giornalisti di destra ma solo queklli di sinistra che fanno “eguali porcate”. Non l’ho fatto perchè i commenti non si riferivano al tema Fiat e Marchionne, ma alla puntata radiofonica sui radio24 in cui ho duramente criticato i direttori di quei giornali che, a proposito degli scontri di piazza il giorno della fiducia al governo, hanno per un giorno intero presentato la cosa proponendo ai propri lettori sequenze fotografiche nelle quali si avvalorava l’ipotesi che violenze e incendi nel centro di Roma fossero stati opera di agenti delle forze dell’ordine travisati, quando invece alla stessa ora in cui si selezionavano nelle redazioni i materiali fotografici per i siti e si chiudevano le edizioni del giorno dopo, veniva compiuta la scelta  di non pubblicare le foto che smentivano radicalmente tale tesi, comprovando il fermo del presunto agente travisato che invece era un minorenne manifestante. Ribadisco la durezza del mio giudizio contro quiei direttori, e ribadisco che l’ordine dei giornalisti – che vorrei abolito – se esiste dovrebbe  fare qualcosa, e non punire a senso unico. Se vi sfugge la gravità di quel che è avvenuto siete liberi di pensare che il matto sia io; se dimenticate che Feltri mi ha licenziato e che ho detto in radio, tv e per scritto che non mi riconosco nel giornalismo mazziere e muscolare filoberlusconiano, siete liberi e padroni di inveire conto di me e insultarmi, perché non siete tenuti a sapere che da sempre e coi fatti – facendomi cacciare o comunque andandomene da diverse testate – ho cercato di dare  prova e di volere un giornalismo moderato e sui fatti economici, civili e e culturali capace di proporre un’alternativa alta e di qualità al predominio della stampa sedicente liberale made in Repubblica-Espresso, sempre pronta a piegare i problemi di fondo a un giudizio politico contro questo o contro quello. Io sono però cresciuto in una città sconvolta dalla violenza per oltre 10 anni, Torino, perché negli anni tra il 1969 e il 1974 moltissimi intellettuali, giornalisti, uomini di cultura e del teatro, dell’università e delle accademie, iniziarono a dire anch’essi allora che le proteste potevano benissimo degenerare in violenze, visto il livello intollerabile delle risposte politiche che venivano dai governi democristiani di allora. L’effetto furono innumerevoli funerali e omicidi, una situazione completamente sfuggita di mano a tutti, nelle fabbriche come nelle scuole e università, situazione che poneva ogni settimana a chi stava nei licei ed era politicizzato ma odiava la violenza e la sua giustificazione intellettuale – come me , allora giovane repubblicano ugolamalfiano – il problema di denunciare o meno chi distribuiva molotov e pistole – pistole – ai minorenni che sfilavano e assaltavano sedi di partiti e luoghi o aziende simboli del capitalismo. Cari lettori del blog tutto questo non c’entra nulla con Berlusconi, comunque la pensiate. Tutto questo c’entra con una sola cosa, che è molto diversa. Se prestigiosi giornali e intellettuali ripetono l’errore dei primi anni 70, io penso che la mia esperienza di allora obblighi me ad alzare la voce per dire che è un errore gravissimo, e che non c’è passione politica antiberlusconiana che possa evitare a tutti – comunque votino – e massime se hanno grandi media in mano, di definire con precisione chuirurgica reati e delitti dove si compionio reati e delitti: assaltare i bancomat, incendiare veicoli privati e delle forze dell’ordine, pestare la gente per strada, tuitto ciò  è reato e delitto, e la protesta degli studenti e la comprensione verso di essa non devono e non possono  giustificare alcun ammiccamento. Tutto questo solo per dire che, se la cosa si ripresentasse, rifarò puntualmente quel che ho fatto e detto. E lo griderò ancora più forte, se necessario. Perchè io ai funerali, troppi funerali, ci sono andato, e l’ingegner Ghiglieno ammazzato per strada sotto i nostri occhi ce l’ho sempre in testa, come il povero studente universitario fuori sede bruciato vivo da una molotov sotto i nostri occhi per il solo fatto di essere andato in bagno prima di un appello in un bar a via Po, tacciato di essere “covo di fascisti”.  Veniamo al tema di oggi: il conservatorismo “sociale” sui grandi media, sul Corriere della sera. parlo degli articoli del mio amico Massimo Mucchetti, che conosco e stimo molto. E che continuerò a stimare anche dissentendo radicalmente da quanto scrive.

Gli articoli che ha scritto sul caso Fiat sono andati in crescendo, fino a chiedersi esplicitamente se ciò che va bene alla Chrysler debba andar bene all’Italia, se esista davvero il piano “Fabbrica Italia” di Marchionne, se la richiesta di regole nuove negli stabilimenti – più produttività ma in cambio di più salario detassato, parecchio in più, migliaia di euro che altrimenti non vanno ai lavoratori -  non sia solo una scusa teatrale, per non investire alla fine inItalia e abbandonare il campo, seguendo il nuovo orizzonte mondialista di una Fiat AUTO  mera azionista di Chrysler, forte in Brasile e Polonia ma con l’Italia ridotta a palla al piede. Non sono d’accordo su nulla, tanto meno che la risposta vera sarebbe adottare la cogestione alla tedesca: in Germania i sindacati hanno esattamente accettato tra 2002 e 2005 svolte di contratti aziendali come e peggio di quelli che Mucchetti respinge, perché in Germania si trattò di lavorare di più senza aumenti salariali, e tra 2002 e 2007 così la Deutschland AG aumentò di 17 punti la sua produttività manifatturiera abbassando al contempo di 13 punti percentuali il CLUP. Da noi, accadeva l’esatto opposto. E continuando a dire no a Marchionne, continerà ad accadere l’esatto opposto. Come Cisl e Uil hanno capito benissimo.

Oggi Mucchetti spiega ancor meglio quale sia la cornice delle sue critiche, parlando di Amazon che apre in Italia, ma proponendo a chi vuol lavorarvi di farlo da Paesi esteri, perché hanno tasse e regole del lavoro meno ostili di quelle italiane. Ed è a questo che bisogna dire no, scrive Mucchetti, perché questa mondializzazione che avviene grazie alla libera circolazione di persone, servizi e capitali serve gli interessi dei Paesi emergenti, ma uccide il ceto medio in quelli come l’Italia. E siccome gli italiani votano, dice Mucchetti, buisognerebbe che votassero contro chi propone di non erigere argini a questa barbarie.

Eugenio Scalfari, su Repubblica di oggi, fa il paio con gli interessi. Così, i lettori di Repubblica si vedono proposta la paradossale storiella di un euro a due velocità che sarebbe frutto della cospirazione delle nove maggiori banche mondali che pensano solo a come rilanciare la speculazione, individuando nell’euro il modo per continuare a fare utili arbitraggiando sui cds sovrani.

Berlusconi farà orrore – lo ripeto solo per evitare che lo ritiriate in causa. Ma queste visioni proposte dai due maggiori quotidiani italiani fanno rabbrividire. Sono una puntuale riproposizione del peggior conservatorismo economico-sociale che affligge il nostro Paese. Non è che si spieghi – lo fa benissimo Irene Tinagli oggi sulla Stampa – che al nostro paese, ai suoi giovani così privi di futuro come alle classi dirigenti così evidentemenre non all’altezza, che a tutti noi farebbe bene capire come è cambiato il mondo, e come uil cambiamento è ultreriormente accelerato dal opost crisi. E cioè che non è affatto scritto chy i Paesi avanzati perdano la priopria forza e reddito procapite, se capiscono – come la Germania -  che anche con l’esplosione della crescita dei paesi a basso costo della manodopera si resterà forti puntando sull’alto capitale umano e sulle tecnologie, su sistemi di formazine basati sul solo merito e non sul posto agli insegnanti, su welfare più magri di risorse ma solo concentrate su chi è davvero svantaggiato e non come capita da noi alll’esatto contrario, con meno spesa pubblica e meno tasse come puntualmente hanno capito i britannici sotto il governo Cameron-Clegg. No, si preferisce dire che davanti a noi c’è solo il disastro dell’impoverimento, che le tensioni sull’euro non sono provocate da chi non ha capito e continmua a crescere troppo poco a spesa pubblica e tasse troppo alte, no a  volerle e anzi a crearle sono gli orchi cattivi della finanza e delle banche straniere, che per questo Marchionne  è del giro tanto lo sanno tutti che è canado-svizzero, e per di più si accusa chi non la pensa così di stare solo al caldo con le proprie rendite, e di perseguire il modello Ruby Rubacuiori berlusconiano. Si fa in fretta, dice Massimo, a dire ai figli degli altri che la loro vita sarà quella di fare i lavapiatti.

No, non si fa in fretta. Io due settimane fa ho indicato Londra a una nuova coppia di giovanissimi amici, motivatissimi e stracapaci, due giornalisti che hanno già malgrado la loro età verde esperienze estere senza essere figli di nessuno, ma mettono in conto di doversi fare un bel fondoschiena vista la situazione italiana dell’editoria.  Indico la via della formazione estera a moltissimi figli di coppie che conosco, senza che debbano essere milionari, perché nopn per tutti c’è la Bocconi come dice massimo, ma l’alternativa non è detto che sia la dequalificata università italiana pubblica dove – con tutte le numerose eccezioni – comunque impera l’idea che la formazione sia una mangiatoia per chi ci lavora e non una fonte di skills oper chi la frequenta.  Non aver paura del mondo nuovo e libero, e indicare ai figli find alla più tenera età la via di buttarcisi dentro per imparare a nuotar meglio, è la differenza tra chi pensa sia eternabile il sistema degli alti costi inefficienti italiani – dall’università al mercato del lavoro, dal funzionamento della Pa ai 28 mila precari assunti a tempo indeterminato in Sicilia la settima ascorsa con tutti i partiti d’accordo, fino ai 900mila euro stanziati due giorni fa dalla regione campania per dare la laurea di specializzazione a tutti i dipendenti dopo aver speso ancor più per quella magistrale, naturalmente senza frequentare nè dare esami se non all0′uinterno del palazzo regionale ah ah – e trra chi invece pensa che proprio la concorrenza tra ordinamenti pubblici e privati obbligehrà più presto che tardi anche il nostro paese, a canmbiare testa e idee, e a tornare ad essere quel che siamo stati in molte luminose parti della nostra antica e recente storia italiana, cioè capaci di affermarci nel mondo e di migliorare il nostro reddito procapite attraverso il meglio di cui siamo capaci, non di sdraiarci sui fasti del passato e dello Statuto dei lavoratori e di tasse e spesa oltre il 5905 del Pil come propongono Mucchetti , Scalfari e tutti i conservatori sociali. Votino per o contro Berlsconi- perché sono maggioranza da ambo le parti -  in realtà la pensano allo stesso modo, tranne dividersi su chi comanda.

Io capisco bene che all’Italia a basso reddito dipendente come ai giovani espropriati dei diritti insostenibili dei propri genitori – io vengo di lì, di lavori ne ho cambiati a decine da quando avevo 17 anni, casupole e abituri e città e paesi –   tutto quel che proponiamo noi possa sembrare una traversata nel deserto. Capisco bene dunque quale sia la presa, dell’appello “sociale” dei Mucchetti e degli Scalfari. Ma resta la domanda: perché tedeschi e  britannici lo capiscono, e da noi no? O meglio, lo capiscono per i fatti loro un bel po’ di milioni di italiani, quelli che reggono il Paese sui mercati continuando a fare impresa che esporta e se la batte malhrado tutti gli osctacoli, anche se non so fino a quando? Perché la differenza sta appunto nelle classi dirigenti, nei giornali e nelle università e tra gli intellettuali, ancor prima che tra i capipartito. Perché capipartito per merito e mercato verranno, solo se i pifferai del conservatorismo sociale appariranno col tempo meno autorevioli e  più smentiti dai fatti. Noi qui, microbi trinariciuti, lavoriamo per quello. Senza culo al caldo né Ruby Rubacuori, ma rapinati di tasse. Buona domenica a tutti.

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Assegni di disoccupazione vs disoccupazione strutturale /2010/12/11/assegni-di-disoccupazione-vs-disoccupazione-strutturale/ /2010/12/11/assegni-di-disoccupazione-vs-disoccupazione-strutturale/#comments Sat, 11 Dec 2010 11:48:37 +0000 Pietro Monsurrò /?p=7827 E’ noto che pagare la gente per non lavorare fa passare la voglia di lavorare. Si chiama azzardo morale: le persone dovrebbero essere responsabili delle proprie azioni, altrimenti finiscono a comportarsi come le banche e i politici. D’altra parte, non tutta la disoccupazione è volontaria: alcuni non è che non lavorano perché “se ne approfittano”, ma perché non possono essere impiegati altrove.

In questo articolo discuto due questioni strettamente connesse. La prima è: stiamo osservando, negli USA, disoccupazione da “assegno” o disoccupazione strutturale? La seconda è: esiste un modo per distinguere i lavoratori che non “possono” lavorare per i problemi strutturali dell’economia (sicuramente moltissimi) e quelli che semplicemente non vogliono? Non parlerò invece dei salari minimi, perché è banale che anche questi siano causa di disoccupazione,  quasi esclusivamente proprio tra i lavoratori più deboli.

In questo articolo e nei commenti a quest’altro articolo si argomenta il punto, piuttosto ovvio, che gli assegni generano disoccupazione (un’analisi dell’effettiva rilevanza degli effetti in questione è tutt’altro che ovvia: basta il 10% del vecchio stipendio di assegno per generare moral hazard, o basta prendere il 10% in meno dello stipendio per  mantenere voglia di lavorare? Probabilmente una via di mezzo: bastano poche centinaia di euro per avere un effetto significativo sulla disoccupazione, ma la cosa dipende anche da fattori culturali e morali).

Il primo articolo linkato dice: le vacancies sono cresciute, ma anche la disoccupazione di lungo termine, dunque il problema è l’assegno di disoccupazione. La conclusione è prematura. Se aumentano le vacancies per le infermiere, e i disoccupati sono principalmente operai edili, la disoccupazione di lungo termine può aumentare anche all’aumentare delle vacancies. Come al solito, i dati aggregati non dicono quasi nulla sulla realtà economica: la macroeconomia non esiste.

L’articolo cita tre tipi di mestieri in cui pare ci siano molte vacancies: infermieri, professori, operai industriali. Infermieri e professori non si possono produrre in tempi brevi: se c’è domanda in eccesso dei loro servizi, le vacancies possono naturalmente rimanere a livelli elevati per anni (se l’aumento della domanda non era previsto, cioè se non c’erano professori e infermieri “semilavorati” quasi pronti per entrare sul mercato).

L’industria è più strana: di operai licenziati ce ne sono stati molti (solo nell’automotive si sono persi centinaia di migliaia di posti di lavoro), e se ci sono vacancies o è perché sono già tutti rientrati (molto probabilmente no: l’effetto aggregato sarebbe stato visibile), o perché si richiedono skills ultraspecialistici, o perché ci sono gli assegni di disoccupazione, come sostiene l’articolo. Probabilmente in questo settore l’assegno può essere una spiegazione rilevante per la persistenza della disoccupazione.

Esiste poi un problema di carattere strutturale più subdolo, che, parafrasando un paper di Peek e Rosengren, potremmo chiamare “unemployment evergreening”. Chiunque lavori nel settore immobiliare saprà che deve contrarsi e licenziare: cambiare mestiere è quindi necessario per milioni di americani. Ma il settore immobiliare è anche tenuto artificialmente in piedi, e finché le istituzioni vanno contro i fondamentali, può aver senso aspettare e vedere se si creano posti di lavoro artificiali. Queste aspettative sono pericolose perché rendono persistente la disoccupazione strutturale e rallentano la ripresa, esattamente come il “loan evergreening” a cui si riferivano Peek e Rosengren.

Esiste un meccanismo per fare lo screening tra i lavoratori che hanno problemi a cercare lavoro e lavoratori che ci marciano, in modo da minimizzare il moral hazard aiutando solo i primi? Se un muratore disoccupato vede un job opening come infermiere e non fa domanda, non è il lavoro per lui. Se vede un job opening come operaio in fabbrica e preferisce rimanere con l’assegno, il dubbio che stia approfittando della possibilità di vivere senza lavorare è invece più che lecito.

E’ probabile che molti lavoratori, come dice il secondo articolo, abbiano problemi economici reali, e poco costa dar loro un sussidio: i problemi strutturali comportano un aumento del “tasso naturale di disoccupazione”. Però distinguere chi non lavora perché non può da chi non lavora perché non vuole permetterebbe di liberare risorse per i disoccupati veri (non quelli volontari), ridurre il costo dell’assistenza, e aumentare l’offerta di lavoro nelle aziende che si stanno espandendo, accelerando la ripresa e facilitando la ristrutturazione dell’economia.

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Quel ridicolo, demenziale sciopero del calcio /2010/12/07/quel-ridicolo-demenziale-sciopero-del-calcio/ /2010/12/07/quel-ridicolo-demenziale-sciopero-del-calcio/#comments Tue, 07 Dec 2010 20:19:22 +0000 Oscar Giannino /?p=7804 Alla fine la trattativa tra Lega Calcio e Associalciatori è ripresa a oltranza, dopo il richiamo dell’Alta Corte del Coni. E un accordo a non rompere pare, in extremis, definito. Ma bisogna dirlo comunque. E’ stata l’idea stessa dell’Associazione dei calciatori italiani che è sul punto di esser ritirata, aver proclamato cioè per domenica sciopero negli stadi, a rappresentare un’amara fotografia dei tempi in cui viviamo. Non si possono usare mezzi termini. Il solo averla procalamata e minacciata esprime una grande mancanza di senso della misura. E di consapevolezza. Laddove senso della misura e consapevolezza non vanno commisurati alla condizione del giocatore professionista di calcio, ma rapportati invece alla condizione generale del Paese, e a come concretamente se la passano ogni giorno milioni e milioni di cittadini e lavoratori italiani. In quattro parole: uno schiaffo alla miseria.

Bisogna per forza immaginare che si tratti di un eccesso a cui l’Assocalciatori è giunta dopo mesi di braccio di ferro, visto che già a settembre scorso la situazione era al punto odierno e un primo sciopero fu evitato in extremis. Solo che in questi mesi, evidentemente, si è persa di vista l’Italia, si è smarrito il senso profondo delle cose, quello che tutte le collega in una diversa scala di valori e proporzioni. Si stenta a credere che, se davvero raccolti in una grande assemblea, i calciatori italiani, che ogni domenica sono esposti agli incoraggiamenti e agli applausi ma anche ai fischi dei tifosi, davvero avrebbero potuto condividere e votare una simile decisione. Non dico l’avvocato Campana ma loro che calcano i campi, quanto meno, dovrebbero sapere che una simile decisione li esporrebbe non solo a sacrosanta protesta, ma a un vero e proprio dileggio. A una rottura profonda con il cuore, la testa e la pancia dell’Italia.

Assocalciatori ha ripetuto che ila questione dei fuori rosa – ancora una volta accantonata, a stare alle indiscrezioni – configura un diritto essenziale, sul quale non si tratta. Ma una rapida cernita alla gerarchia dei diritti individuali e collettivi del lavoro italiano, come sanciti dal diritto e dalla giurisprudenza, difficilmente troverebbe un giurista disposto a sostenere davvero che allenarsi obbligatoriamente con l’intera squadra, e non con un programma differenziato deciso dalla società sportiva, configuri per il giocatore professionista un diritto costituzionale inalienabile. Si può comprendere che i giocatori la pensino diversamente, di fronte alla valutazione di un tecnico e della società di non considerarli più tendenzialmente prima e sistematicamente poi in prima rosa, e di avviarli infine a cessione. Ma è pazzesco essere anche solo sfiorati, dall’idea di poter accostare come analoga questa situazione del professionista del pallone al licenziato da uno stabilimento.

E’ invece proprio questa, la convinzione che i calciatori hanno diffuso intorno a sé, con il loro sciopero minacciato. Nessuno nel loro mondo associativo si è posto una mano sulla coscienza, pensando al milione di italiani espulsi in due anni dal mondo del lavoro per effetto della crisi, e al milione e duecentomila che già non trovavano lavoro prima della discesa di 6 punti del Pil? E per quanto i calciatori non guadagnino proprio tutti i pacchi di milioni di euro l’anno che sono appannaggio dei più grandi campioni, possibile che non ricordino che il reddito medio degli italiani annuo sta intorno ai 20 mila, e sotto in molte aree del Paese?

Si dirà: quando si tratta del proprio contratto, ogni categoria pensa al suo. Giusto. Ma l’apporto a una squadra di un calciatore non si misura coi tempi scanditi e i volumi metrici delle produzioni in reparto, né le pause e i recuperi sono quelli di un operaio o di un impiegato. Soprattutto se pensiamo poi alle tante anomalie che nei decenni hanno caratterizzato il calcio nella sua dimensione societaria, e che gravano ancora sulla sostenibilità di moltissimi club, per via delle debolezze del loro conto economico consolidato, dell’aver chiuso un occhio a criteri di redazione dei bilanci patrimoniali fuori dal codice civile, dell’aver consentito quotazioni in Borsa in assenza di asset materiali.

Tener conto di tutto questo, è il minimo che si possa chiedere ai calciatori italiani. E’ un bene per loro innanzitutto, che lo sciopero sia revocato. La prossima volta che dovessero ritenere di essere a un punto di rottura con i club, pensino a forme di protesta del tutto diverse. Organizzino incontri gratuiti per i disoccupati, per esempio. Tre maxi amichevoli, una per i colpiti dall’alluvione in Veneto, una per i terremotati dell’Aquila, una per le vittime della mafia e della ndrangheta. Facciano capire a tutti che si battono per quel che è giusto e con spirito solidale, ma senza dimenticare mai che cosa l’Italia di oggi coi suoi problemi gravi, rispetto ai loro.

Nel gennaio del 411 avanti cristo Atene fu attraversata da una febbre improvvisa, allorché Aristofane alle feste Lenee rappresentò una sua commedia. Si intitolava Lisistrata, e metteva in scena lo sciopero delle ateniesi e spartane, contro la guerra del Peloponneso combattuta per anni dai mariti. Era uno sciopero particolare: il primo sciopero del sesso. Eppure, la commedia fu un grande successo: proponeva uno sciopero mai visto, ma per uscire da una terribile guerra. La lezione è questa: quanto più si sta in alto nella piramide sociale, tanto più uno sciopero sembra ai più che stanno in basso solo quel che si riduce a essere. Uno schiaffo alla miseria.

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Zapatero: Eppur si muove… /2010/12/02/zapatero-eppur-si-muove%e2%80%a6/ /2010/12/02/zapatero-eppur-si-muove%e2%80%a6/#comments Thu, 02 Dec 2010 09:37:14 +0000 Andrea Giuricin /?p=7743 La crisi del debito ha avuto un effetto immediato in Spagna. Il Governo Zapatero ha annunciato ieri una serie di azioni che vanno in direzione della liberalizzazione e della privatizzazione in diversi settori. La Spagna aveva raggiunto due giorni fa, un differenziale record rispetto ai Bund tedeschi di quasi di 300 punti, il più alto di sempre dal momento dell’entrata dell’euro. Dopo Grecia ed Irlanda, la sfiducia dei mercati sembrava andare dritta verso la Penisola Iberica. Il Governo Zapatero ha deciso di non aspettare ed ha deciso di operare misure nella giusta direzione. L’Italia, invece, chiude il parlamento per evitare Vietnam politici, titolano oggi i giornali: c’è di che riflettere, sulle risposte diverse agli spread in salita.

Non che non permangono dei gravi errori nella politica economica del governo guidato dal leader del Partito Socialista, dato che le riforme delle Casse di Risparmio e del mercato del lavoro sono state troppo timide, ma il passo effettuato ieri non è da sottovalutare.

Possiamo distinguere tre categorie di decisioni:

-         Semplificazione e abbassamento delle imposte

-         Liberalizzazioni

-         Privatizzazioni.

Il primo punto è coraggioso, perché si decide di abbassare in parte l’imposta sulle società al 25 per cento per quelle piccole-medie imprese che fatturano meno di 10 milioni di euro annuali (precedentemente era pari a 8 milioni di euro) e la base imponibile per l’applicazione di questo livello di tassazione sale da 120 a 300 mila euro.

Tutte le aziende avranno la libertà di scegliere l’ammortamento dell’imposta sulle società nel periodo compreso fino al 2015, in modo da diminuire in tempo di crisi la pressione fiscale.

Abbassare la tassazione d’impresa è importante per aumentare la competitività. Inoltre, come segnalato anche dalla World Bank nel rapporto Paying Taxes, la riduzione di questa imposta non diminuisce le entrate.

Si elimina inoltre l’iscrizione obbligatoria alla Camera di Commercio, che diventa solamente volontaria. Questo permetterà un risparmio di 250 milioni di euro annuali per le imprese. Si favorirà inoltre la creazione dell’impresa in 24 ore.

Il secondo punto è relativo ad un aumento della liberalizzazione del mercato del lavoro. Si permette un’entrata più libera delle agenzie di lavoro private, in un mercato del lavoro profondamente rigido che vede una disoccupazione al 20,7 per cento e una disoccupazione giovanile superiore al 43 per cento.

Sul mercato del lavoro non viene tuttavia meno una certa “vena socialista”; infatti si rafforza il piano “PRODI” di protezione e inserimento sul mercato del lavoro con circa 1500 impiegati pubblici in più per favorire l’inserimento professionale.

Il terzo punto è forse il più controverso. Il Governo Zapatero vuole compiere privatizzazioni per circa 14 miliardi di euro, che arriverebbero dalla vendita del 30 per cento delle “Lotterie di Stato” e il 49 per cento degli aeroporti (AENA).

Controverso perché il Governo vende senza perdere il controllo, volendo mantenere una politica aeroportuale nazionale e pubblica. E la gestione aeroportuale pubblica non è stata certo delle più brillanti, dato che nel 2009 AENA ha perso circa 340 milioni di euro.

Un punto aggiuntivo, ma non meno importante è il taglio della spesa che arriva dall’eliminazione del sussidio di disoccupazione di lungo periodo (dopo 2 anni di sussidi a circa l’80 per cento dell’ultimo stipendio) di 426 euro mensili.

Il passo di Zapatero è stato certamente coraggioso, ma quasi obbligatorio, viste le condizioni tempestose nelle quali la nave Spagna stava navigando nel mercato delle aste pubbliche. Bisogna ricordare che lo stesso primo ministro aveva portato il deficit all’11,1 per cento sul PIL nel 2009.

Queste decisioni sono importanti, ma le prossime settimane non saranno facili per la Spagna che si ritrova un sistema di “cajas” davvero deboli e che potrebbero “saltare” da un momento all’altro.

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Euro debole = illusione occupati /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/ /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/#comments Tue, 16 Nov 2010 19:04:18 +0000 Oscar Giannino /?p=7620 L’Europa è di nuovo piegata su se stessa nel tentativo di evitare la crisi dell’eurodebito. In molti tra coloro che in Italia lavorano per l’export almeno si consolano, all’idea che l’euro si deprezzi riscendendo verso quota 1,3 sul dollaro invece che verso 1,5. In realtà, la gara a deprezzare le valute è la vera guerra in corso tra dollaro e yuan, e l’euro rischia di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro. Detto questo, chi qui scrive trova invece apprezzabile che sempre più numerose voci europee si levino polemicamente rilevando che non rende un servizio a nessuno, la FED, artificiosamente deprimendo il corso del dollaro e i rendimenti decennali del debito pubblico americano, con la sua politica eterodossa di acquisiti di titoli sul mercato e cioè attraverso la monetizzazione del debito, come avveniva in Italia prima che via Nazionale e Tesoro divorziasssero, sancendo la piena autonomia della banca centrale dalle tendenze deficiste della politica. La vera risposta a chi consiglia sempre il deprezzamento della moneta per difendere l’occupazione sul mercato domestico sta proprio nell’andamento dell’economia americana.

E’ il nocciolo della politica praticata da Obama e Bernanke, secondo i quali un dollaro debole aiuta a ridurre la disoccupazione USA, che nel suo aggregato ristretto è al 9,6% e in quello allargato, comprendente cioè gli “scoraggiati” a diverso titolo, sale al 16% e oltre. Tuttavia, è un assunto fallace.

Nigel Gault, chief economist al desk americano di Global Insight, ha rielaborato la relazione tra andamento del dollaro e occupati nell’ultimo decennio. Dal 2001, il dollaro ha visto il suo valore deprezzarsi del 31% rispetto a un basket comprendente le cinque maggiori valute nel commercio mondiale. L’export americano negli stessi anni è aumentato del 45%. Ma l’occupazione manifatturiera americana è diminuita negli stessi anni di un terzo, scendendo da 16,4 a 11,7 milioni. Se ci fermiamo all’ultimo trimestre cioè agli effetti sul breve, da giugno a settembre il dollaro è sceso del 10% rispetto alle stesse valute, e l’export americano a settembre è salito dello 0,3%, al livello più alto nell’ultimo biennio. Ma la disoccupazione non diminuisce.

Per almeno due ordini di ragioni. La prima che l’export dei Paesi avanzati verso i Paesi che “tirano”, Cina e Asia innanzitutto, è soprattutto ad alto valore aggiunto, e dunque prodotta laddove macchine, automazione e tecnologie inevitabilmente continueranno a sostituire intensità di lavoro umano. La seconda ragione è che più aumenta l’export in quei Paesi più aumenta il totale di occupati delle imprese esportatrici in quei Paesi stessi: assai più che nei mercato domestici in cui le imprese esportatrici sono radicate. Secondo le cifre elaborate dall’United States Bureau of Economic Analysis il totale dei dipendenti all’estero delle aziende americane esportatrici è più che raddoppiato, negli anni 1998-2008 con l’ingresso della Cina nel WTO, passando da 5 a 10,5 milioni. Occupare dipendenti in Paesi a basso costo del lavoro aiuta a realizzare margini che son più che mai preziosi per investire di più nella qualità di innovazioni, processi e prodotti che vengono “pensati” e sperimentati nei paesi avanzati di provenienza. E più il processo diventa esteso e radicato, meno ovviamente sui bilanci aziendali incide il fattore valutario sulla competitività complessiva delle ragioni di scambio.

E’ esattamente lo stesso fenomeno avvenuto su scala europea per le grandi imprese tedesche delocalizzando nell’Est europeo non appartenente all’euro, a inizio degli anni 2000. Oggi come oggi, per BMW o Mercedes e Audi che hanno triplicato la loro produzione locale in Cina, il fattore cambio dell’euro è praticamente del tutto indifferente rispetto agli enormi margini che realizzano con oltre 500mila vetture di classe elevata vendute su quel mercato nel 2010.

Se tutto ciò è vero per l’economia USA, dove il 65% della crescita viene dalla domanda interna e solo un terzo dall’export, è a maggior ragione vero per noi, dove avviene l’esatto opposto. Chi si augura un euro debole per esportare meglio ha ragione nel breve, basta che sia chiaro che con l’occupazione l’effetto cambio c’entra poco o nulla: per quella serve essere più produttivi, non artifici monetari che nel mondo globalizzato servono più che altro da maschere agli alti debiti pubblici dei governi. Maschere che del resto non reggono più, in America come in Europa.

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Quando, a Milano, la Camera del Lavoro dava lezioni di liberismo /2010/10/27/quando-a-milano-la-camera-del-lavoro-dava-lezioni-di-liberismo/ /2010/10/27/quando-a-milano-la-camera-del-lavoro-dava-lezioni-di-liberismo/#comments Wed, 27 Oct 2010 16:55:30 +0000 Carlo Lottieri /?p=7415 La presentazione pubblica, martedì scorso, del coraggioso volume di Riccardo Cappello (“Il cappio. Perché gli ordini professionali soffocano l’economia”, edito di recente dalle edizioni Rubbettino) ha offerto spunti di notevoli interesse. Oltre a Donatella Parrini, a Nicola Iannello e all’autore, ha partecipato all’iniziativa – tenutasi in un’aula del Senato (qui vi è la registrazione) – anche Pietro Ichino, che come gli altri intervenuti ha mostrato di apprezzare il volume,  si è espresso apertamente contro il corporativismo che domina l’Italia e contro la legge di riforma in discussione (che quelle logiche si propone di rafforzare), e infine ha pure ricordato un gustoso episodio, da lui vissuto in prima persona.

Avvocato e al tempo stesso iscritto alla Cgil, per anni Ichino ha operato presso la Camera del Lavoro, a Milano, a difesa di quanti avevano bisogno di una tutela legale. I professionisti che la Cgil metteva a disposizione dei propri associati, però, non ricevano un onorario in linea con i minimi fissati dall’ordine degli avvocati, ma venivano retribuiti secondo un meccanismo che in qualche modo anticipava il contigent fee: una piccola quota percentuale di quanto l’operaio otteneva, in caso di successo, finiva all’avvocato. Ed era certamente meno di quanto un legale avrebbe ottenuto in un rapporto professionale ordinario.

Si capisce perché le cose funzionassero così. Gli avvocati prestavano tale servizio anche sulla base di una motivazione ideale, e lo facevano indirizzandosi spesso a persone con un reddito modesto, che non avrebbero avuto tutela se avessero dovuto retribuire il legale secondo i parametri prefissati.

Quando però la cosa si seppe, l’avvocato Ichino venne convocato dall’ordine, a quel tempo guidato da Giuseppe Prisco, che gli fece presente come il suo comportamento e quello degli altri avvocati della Camera del Lavoro fosse illegale. Ichino però non indietreggiò, chiedendo anzi a Prisco e all’ordine di adire le vie legali nei loro riguardi, dato che poteva essere una buona occasione per mettere in discussione i minimi stessi e aprire un contenzioso in grado di smuovere la situazione. All’italiana, alla fine l’ordine finse di non vedere e tutto restò come prima.

L’episodio è interessante, anche perché fa piacere constatare come – in date circostanze – la Camera del Lavoro abbia giocato “su posizioni liberiste”. Quando la regolazione impedisce a un sindacato di operare secondo le proprie logiche e seguendo la propria ispirazione, è normale che esso si ribelli dinanzi a quella forma di dirigismo e la metta in discussione. Ma è triste dover prendere atto che, qualche decennio dopo, il tema della difesa corporativa dei compensi professionali minimi resta d’attualità, a causa di un ceto politico che continua a essere prigioniero della parte più miope e arretrata del mondo dei professionisti.

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Disoccupazione giovanile e colpe delle famiglie /2010/10/24/disoccupazione-giovanile-e-colpe-delle-famiglie/ /2010/10/24/disoccupazione-giovanile-e-colpe-delle-famiglie/#comments Sun, 24 Oct 2010 19:33:37 +0000 Oscar Giannino /?p=7362 Viogliamo dirlo che in realtà gran parte della diosoccupazione giovabnile nel nostro Paese è figlia di un colossale errore culturale, più e prima che della debolezza del nostro tessuto produttivo? A me par proprio così, anche se è impopolare dirlo. E mi sembra sia confermato dall’indagine Excelsior Unioncamere rielaborata da Confartigianato di cui ha scritto oggi il Corriere della sera.

Ogni anno, agli studenti in università, sottopongo questionari su svariati argomenti. Non sono tenuti a rispondere, e garantisco naturalmente l’anonimato, ma chiedo loro di farlo per consentirmi di conoscere meglio chi mi trovo di fronte, che cosa pensi e quali idee si sia fatto non solo delle materie che studia, ma soprattutto della professione per la quale ciascuno ha in mente di prepararsi, del mondo del lavoro e dell’Italia più in generale. Anno dopo anno, accumulo questi piccoli test su un campione di un centinaio di studenti quasi sempre alla fine della laurea di specializzazione, ragazzi che in media hanno più 26 o 25 anni che 23 o 24 come dovrebbe essere. Chiedo anche che esperienza di lavoro abbiano accumulato, chi di loro abbia trascorso almeno più di quattro settimane impegnandosi in lavori a tempo o part time, reperiti come e con quale soddisfazione. Il test comprende anche una domanda sulla prima retribuzione attesa, per un’eventuale occupazione a tempo indeterminato. E poi una sulla remunerazione che sarebbe da ciascuno considerata ragionevole e giusta per lavorare a tempo pieno, al di là di quella ottenibile.

Nel mio campione annuale, gli universitari giungono a fine studi senza avere un’esperienza di lavoro vera in circa i due terzi dei casi, e in alcuni anni si sale addirittura a tre quarti. L’anno scorso, la media delle risposte alla domanda “ma tu quanto davvero riterresti giusto esser pagato, per un lavoro che credi di poter svolgere al meglio”, ha barrato la casella 2600-2800 euro. Netti, s’intende. Commentando, dissi scherzando che se mi indicavano in quale galassia stesse il pianeta in cui poteva avvenire una cosa simile, li avrei seguiti nel viaggio siderale. Seriamente, aggiunsi, le vostre aspettative sono così grossolanamente distanti dal vero perché conoscete poco la realtà del lavoro, ne avete un’idea sbagliata e per questo ancor più frustrante di quanto la realtà del mercato sia problematica in sé.

E’ impopolare dirlo, in un Paese dove a prevalere – anche nell’informazione – è la continua denuncia del lavorio sfruttato, del precariato che rapina presente e speranze future di famiglia dei giovani, e delle imprese che pagano poco e vogliono molto. Ma a me sembra che la difficoltà del lavoro giovanile molte volte dipenda da altro. Da un enorme condizionamento culturale, figlio del balzo in avanti nel benessere avvenuto in una sola generazione – tra fine anni 70 e soprattutto negli 80 – mentre per altri Paesi ha richiesto decenni. Moltissime famiglie – anche tra i redditi medi e bassi – tengono artificialmente i propri figli il più a lungo possibile “protetti” da ogni esperienza concreta di lavoro, da ogni seria consapevolezza delle remunerazioni realmente percepite per mansione e qualifica. La licealizzazione e l’università di massa realizzano così un doppio paradosso: un esercito di studenti (e d’insegnanti) frustrati poi perché le scelte d’indirizzo non corrispondono affatto né alla realtà del mercato del lavoro italiano, né tanto meno alle sue remunerazioni, e insieme l’impossibilità di perseguire sul serio merito ed eccellenza.

Non è solo il mio modestissimo test annuale, a comprovarlo. L’ennesima e ben più autorevole conferma è venuta da Confartigianato e dal rapporto Excelsior Unioncamere sulle difficoltà di reperimento di manodopera da parte delle imprese italiane. Apprendiamo così che se la disoccupazione è oggi all’altissima percentuale del 27,9% per i giovani tra 15 e 24 anni, essa al nwetto di un problema forte che continua a sussistere al Sud potrebbe praticamente azzerarsi o quasi altrove se solo formazione e aspettative dei giovani fossero indirizzate al mondo del lavoro vero, e non a uno che non c’è se non nelle menti delle loro ipertutelanti famiglie. Perché anche in questo difficile 2010 il 26,7% del fabbisogno di lavoro delle imprese italiane risulta insoddisfatto. Al vertice della classifica dei lavori rifiutati dai giovani, qualifiche tecniche come quella di installatori di infissi, panettieri e pastai, tessitori e maglieristi, addetti all’edilizia e pavimentatori, falegnami e verniciatori, saldatori e conciatori. Come si vede, qui non stiamo parlando di braccianti o muratori non specializzati, ma di quella che per secoli è stata l’aristocrazia del lavoro artigianale e d’opificio, tramandata con lunghi tirocini per la formazione di un capitale di conoscenza che non è solo manuale, ma interagisce oggi con macchinari e processi avanzati e specializzati.

In Germania questo non avviene, perché quel Paese ha avuto la lungimiranza di mantenere un canale di formazione professionale ad alta priorità nelle scelte sia dell’istruzione pubblica che delle famiglie. Dipendesse da chi scrive, parificherei in tutto e per tutto il tirocinio e l’apprendistato nelle piccole imprese, in quelle artigianali e di commercio, al titolo professionale dispensato dal sistema pubblico, oggi scartato dal più delle famiglie e dai giovani ignorando che retribuzioni per mansioni tecniche specializzate sono superiori a quelle impiegatizie a cui i laureati finiscono spesso per incanalarsi, pieni di delusione.

Ma non bastano solo le riforme ordinamentali e della formazione. Ciò che serve davvero è un cambio di mentalità. Ed è l’intero Paese a doverlo fare. Riconciliarsi con il lavoro vero significa spingere i figli fin da giovanissimi a sporcarsi le mani, a non disprezzare la manualità, a mettersi alla prova, a uscire di casa anche dieci anni prima di quanto ormai capiti. Apriamo tutti gli occhi, questa deve essere la parola d’ordine. Se in larga misura la disoccupazione giovanile deriva da un difetto percettivo, l’incapacità di vedere è nostra, non figlia di un destino cinico e baro.

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Fincantieri. Non sappiamo né il giorno né l’ora, ma sappiamo che quel giorno e quell’ora arriveranno /2010/09/30/fincantieri-non-sappiamo-ne-il-giorno-ne-lora-ma-sappiamo-che-quel-giorno-e-quellora-arriveranno/ /2010/09/30/fincantieri-non-sappiamo-ne-il-giorno-ne-lora-ma-sappiamo-che-quel-giorno-e-quellora-arriveranno/#comments Thu, 30 Sep 2010 08:08:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7175 Tra smentite, richieste e mezze promesse di nuove commesse pubbliche, dietrofront, rassicurazioni e manifestazioni, l’unica cosa certa per Fincantieri sono i conti. Nel primo semestre 2010 i ricavi sono scesi del 10,7 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In flessione sono pure tutti i principali indicatori finanziari, e se il portafoglio ordini non è vuoto, non è neppure pieno abbastanza: gran parte degli impianti restano sotto utilizzati e la parola più ricorrente dentro le fabbriche è ancora “cassa integrazione”. Non tutti i rischi, dunque, sono stati scongiurati: forse perché non potevano essere scongiurati.

All’origine di questa tempesta ci sono le indiscrezioni – smentite – sul Piano industriale 2010-2014 che, per far fronte a una crisi che è contemporaneamente strutturale e congiunturale, avrebbe previsto 2.500 esuberi, la chiusura di due stabilimenti (Riva Trigoso e Castellammare di Stabia) e un’accelerazione nel graduale processo di riposizionamento del baricentro del gruppo dalla sponda tirrenica a quella adriatica (compresa l’accentuazione dei poteri decisionali a Trieste). Le interpretazioni più politiciste leggono in questa vicenda un “carotaggio” voluto dal management per saggiare le reazioni a una serie di provvedimenti che, almeno in parte, tutti sanno essere inevitabili; altri ancora vi vedono l’ennesima prova dell’influenza leghista, determinata a attirare o trattenere investimenti pubblici nelle zone elettoralmente più generose.

Può esserci del vero in queste interpretazioni, ed è sicuramente politica la scelta (se sarà fatta e nella misura in cui è già stata fatta) di portare la testa e il sistema nervoso di Fincantieri da Genova a Trieste. E’ politica anche la decisione – posto che si debbano chiudere degli impianti – di farlo a Riva e Castellammare anziché, poniamo, ad Ancona. Ma dietro queste scelte politiche c’è una razionalità industriale che è difficile negare: se la si nega, le cose non potranno che andare peggio. Soprattutto per quei lavoratori che continueranno a cullarsi nell’illusione di un posto per la vita.

La razionalità, dicevo, sta nel contesto di una crisi che è congiunturale per la cantieristica, e strutturale per Fincantieri. L’effetto della congiuntura è evidente nel bilancio 2009 (che del 2010 è solo l’antipasto): gli ordini sono in calo del 30 per cento rispetto al 2008, gli investimenti di un quarto, i margini dell’11 per cento. In crescita, soltanto indebitamento (più 135 per cento), passivo di cassa (circa raddoppiato), e il personale: che cresce del 15 per cento a causa dell’acquisizione di Fincantieri Marine Group ma, se si considera la sola capogruppo, è anch’esso in lieve calo. Per questo è alquanto bizzarro che la classe politica ligure (e, suppongo, anche quella campana) abbia accolto le indiscrezioni sul (falso?) piano industriale come un fulmine a ciel sereno. Il fulmine può esserci stato, ma il cielo era burrascoso da almeno quarant’anni.

Del possibile accorpamento degli stabilimenti liguri di Riva Trigoso e Muggiano si parla da decenni. E’ un tormentone che si ripresenta ogni volta che il barometro economico internazionale segna cattivo tempo. Finora, la baracca si è mantenuta in piedi grazie all’uso delle commesse militari in funzione anticiclica, non senza che nel periodo più recente si siano superati un difficile processo di efficientamento e lo sviluppo di produzioni di nicchia (navi da crociera e super yacht). Durante le crisi precedenti, il calo congiunturale veniva controbilancianto con le commesse pubbliche. Oggi questo non è più possibile, perché l’Italia non è in procinto di muovere guerre (e dunque se la può cavare con la flotta che ha), e soprattutto perché sono venute meno le due fondamentali leve attraverso cui il meccanismo veniva finanziato. La sovranità monetaria si è spostata a Francoforte, sicché non esiste più il bottone dell’inflazione; mentre i vincoli del bilancio pubblico impediscono di incrementare il deficit, e dunque per costruire nuove navi militari dovremmo rinunciare ad altre spese che comunemente sono considerate più importanti, come quelle per la sanità, l’istruzione e le pensioni. Per giunta, molti interventi strutturali sono stati già portati a termine, come il trasferimento della sede per la cantieristica da Genova a Trieste negli anni Ottanta e il feroce taglio dei costi. Questi si sono ridotti di circa il 40 per cento, nell’ultimo decennio, soprattutto attraverso il ricorso massiccio ad appalti esterni e l’ingresso di manodopera straniera.

E’ in quest’ottica che vanno visti anche i bilanci degli esercizi precedenti, nei periodi di vacche grasse. Le commesse pubbliche non sono mai mancate, e hanno fatto da base – anche per la, uh, chiamiamola disponibilità della Difesa a ritirare le navi in ritardo e senza troppe pretese – per un rilancio che è avvenuto soprattutto grazie alla capacità di Fincantieri di re-inventarsi come soggetto capace di stare al passo coi tempi. Venendo meno il driver di mercato, il gruppo si è istanteamente ritrovato in un passato non troppo remoto. Venendo meno – complice il rigore tremontiano – il supporto pubblico, la bolla Fincantieri è, se non scoppiata, quasi. Così, siamo allo stesso punto in cui ci trovavamo negli anni Novanta: l’azienda non regge e, dato l’outlook macroeconomico, rischia di non avere il fiato per arrivare alla ripresa.

La peculiarità del 2010, rispetto alle crisi precedenti, è appunto questa: il danno della recessione non può essere tamponato né con misure di efficienza (perché in buona parte già implementata), né facendo appello al buon cuore del Tesoro, né liberandosi di lavoratori prossimi alla pensione (già congedati tra prepensionamenti normali, speciali, e all’amianto). Se queste sono le condizioni al contorno, le mosse previste dal piano industriale “fantasma” sono, almeno in prima approssimazione, una risposta possibile.

In questo senso, c’è oggettivamente poco da fare. E’ sempre meglio un’azienda più piccola ma viva, di una grande, grossa e morta. Se i politici liguri e campani e i rappresentanti dei lavoratori non si schiodano dall’ostinata difesa dell’esistente, il crollo potrà forse essere rimandato, ma non evitato – almeno se il management è davvero convinto che questa sia la strada da percorrere. Meglio, allora, concentrarsi sui margini negoziali veri, che riguardano essenzialmente due aspetti: le modalità e i tempi del ridimensionamento. Senza dimenticare, però, che la proprietà pubblica è anche in questo caso un impaccio, perché finisce per politicizzare una scelta tecnica e industriale, fa sì che tutto venga sempre buttato in un indistinto “tengo famiglia”. E’ un’illusione, e lo è sempre più, ma è un’illusione difficile da sconfiggere. Dunque: privatizzare è necessario, come premessa per un ordinato svolgimento delle razionalizzazioni.

Partiamo dalla tempistica: forse, Fincantieri sarebbe disposta a barattare la pace sociale con un allungamento delle scadenze, per esempio rimandando il D-Day dal 2014 al 2016 o 2018. In questo modo, si potrebbe contenere l’emorragia occupazionale, sia accompagnando i dipendenti più anziani (quelli che restano) alla pensione, sia trovando soluzioni per trasferire gli altri verso gli stabilimenti più promettenti, sia incentivando uscite volontarie (sulla falsariga dell’accordo Telecom di agosto). Si potrebbero, così, minimizzare i licenziamenti unilaterali: ma, dati i numeri, è possibile che alcuni restino, senza contare l’impatto sui fornitori e l’indotto.

Qui si aprirebbe uno spazio dove una politica responsabile vedrebbe esaltato il proprio ruolo non già in quanto colonna reggente, ma crepata, dello status quo, bensì come soggetto incaricato di gestire la transizione. Qualche suggerimento, di cui il ceto politico dovrebbe far tesoro, sta nel programma elettorale di Filippo Penati, candidato del centrosinistra alla regione Lombardia. In quelle pagine, il giuslavorista e senatore Pd Pietro Ichino, adatta alla normativa vigente la sua proposta di riforma del mercato del lavoro. All’azienda viene chiesto di destinare una parte del vantaggio economico ottenuto con la maggiore flessibilità di fatto (seppure a diritto vigente) alla copertura del costo sociale derivante dalle loro scelte. Essa, cioè, dovrebbe impegnarsi a erogare servizi per la riqualificazione del lavoratore licenziato e la ricerca di un nuovo impiego (col contributo della regione); interamente a carico dell’impresa sarebbe, invece,

un congruo indennizzo economico al lavoratore licenziato e un congruo trattamento complementare di disoccupazione, che costituirà anche un potente incentivo all’efficienza dei servizi di ricerca e riqualificazione mirata: più sarà rapida la rioccupazione dei lavoratori, minore sarà il costo del trattamento complementare.

La logica di questo approccio è difendere i lavoratori, creando per loro degli “scivoli” e aiutandoli trovare una nuova, e più produttiva, occupazione. Al contrario, la tentazione di salvaguardare gli attuali stabilimenti senza riguardo alla competitività può avere costi sociali assai più consistenti dei benefici. Infatti, per mantenere livelli occupazionali altrimenti insostenibili, si rischia o di dissestare le finanze pubbliche (come nel passato), oppure di trovarsi a gestire un crollo improvviso. Il conflitto lascia solo macerie. Quella della responsabilità e della lungimiranza è una via stretta e irta di ostacoli, ma almeno non porta dove finiscono i sentieri lastricati di buone intenzioni. La smentita del piano industriale 2010-2014 non cancella le ragioni di una riorganizzazione. Bisogna augurarsi che politici e sindacalisti usino bene il tempo a loro disposizione, senza farsi trovare impreparati a un appuntamento di cui non sappiamo né il giorno, né l’ora. Ma che sappiamo prima o poi ci sarà.

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Studiare per lavorare… o far lavorare /2010/09/29/studiare-per-lavorare-o-far-lavorare/ /2010/09/29/studiare-per-lavorare-o-far-lavorare/#comments Wed, 29 Sep 2010 07:08:41 +0000 Leonardo Baggiani /?p=7163 Tra poco scade l’appuntamento con l’Agenda di Lisbona, e vedremo quanti Paesi hanno davvero fatto dei passi avanti verso un’Economia della Conoscenza, in cui è considerato essenziale l’aumento della quota di laureati in quanto segno di incremento di capacità lavorativa ad alto livello; è plausibile che una tale “superiore” capacità lavorativa sia più remunerativa per l’economia intera, permettendole di rispondere alla potenza manifatturiera degli “emergenti” puntando su settori diversi. Intanto L’OCSE divulga un po’ di dati che riguardano anche parte del 2009: i laureati aumentano, guadagnano più dei non-laureati, e risentono meno dell’aumento della disoccupazione; questo ovunque, tranne che in Italia.

A quanto si legge, un po’ in tutto il mondo l’istruzione terziaria ha aperto canali para-universitari professionalizzanti. In Italia invece tale formazione è “dispersa” tra le riforme dell’istruzione secondaria (istituti tecnici) e titoli triennali universitari. Dobbiamo quindi pensare che fino a pochi anni fa, a parte la buona volontà di singoli docenti, non ci fosse niente di “professionalizzante” (sensazione che ogni mio collega ragioniere e parte dei miei colleghi universitari ha avuto). Personalmente non so quanto debba essere professionalizzante l’università, ma pretenderei lo fossero sicuramente le varie “specializzazioni” e corsi “post-laurea” così come un istituto tecnico che pretende di formare “periti”. In Italia si è di fronte, pare, ad un incremento di lauree di dubbio valore scientifico e poco apprezzate sul mercato del lavoro; l’incremento dei laureati non rappresenta pertanto un effettivo “valore” per il Belpaese, che quindi resta e resterà indietro nello sviluppo economico. È con questo che l’OCSE spiega l’anomalia italiana sulla disoccupazione: solo in Italia la crisi ha mietuto più vittime tra i laureati che tra i non-laureati, perché in Italia il disallineamento tra titolo conseguito e aspettative occupazionali è massimo.

L’OCSE non lo dice, ma lo dico io: in Italia praticamente si studia di più e si creano più indirizzi per favorire il lavoro solo degli insegnanti. La colpa di questo non può essere (solo) di un Ministro dell’Istruzione: c’è dentro tutta la gerarchia e struttura scolastica, l’insipienza non sanzionata di molti insegnanti, il controllo centrale sui programmi, ma pure la disonestà di dipingere un’Italia come potenza tecnologico-scientifica mondiale quando tutto quel che realmente viene sostenuto è la bassa manifattura.

Le classi più mature non sono facilmente recuperabili sul piano dell’istruzione. Politicamente è un grosso problema dir loro “arrangiatevi”, e così lo Stato vede di tutelarle, il che si è tradotto in Italia con il permettere loro di continuare a fare lo stesso lavoro proteggendo e salvando i settori interessati. Direi che questa è un’ottima ragione per la “stasi” indotta in Italia da subdole politiche industriali (si parla tanto dell’assenza di una politica industriale ma, come ho sostenuto qui, se ne può rintracciare per fatti concludenti una che da decenni mantiene invariata la struttura industriale). D’altra parte la “stasi” di una struttura economica imperniata su certa manifattura implica la non-necessità di alti livelli di istruzione, e da questo deriva anche il deprezzamento del merito a favore della pratica e della relazione (qui il ragionamento più in esteso). L’istruzione così perde una forza “trainante”, la “domanda di competenze”, e finisce per avvilupparsi su se stessa cedendo alle logiche burocratiche. È per questo che dico che in Italia si studia non per il proprio lavoro futuro ma per far lavorare gli insegnanti (e magari finendo anche per far lavorare i Paesi esteri che sanno accogliere le capacità di ex studenti italiani).

A corollario va ricordato che in una fase di crisi tendenzialmente (cioè a parte la non perfetta selettività del bust e le solite distorsioni statali) tendono a uscire dal mercato le competenze meno importanti e essenziali; dalla tradizione economica austriaca, o da qualsiasi teoria che non ragioni in termini di “valori oggettivi”, sappiamo che un qualsiasi bene ha un valore in relazione all’impiego che ne può essere fatto nell’economia, pertanto un fattore produttivo che è utilizzato per produzioni di poco valore (o che non è affatto utilizzato) avrà conseguentemente un valore basso (o nullo). Ad esempio, se la struttura produttiva è basata sui braccianti, una laurea in economia dei mercati finanziari o in fisica nucleare non vale nulla, ma vale molto la forza fisica. Per tornare a quanto detto dell’istruzione italiana, se questa è (come non le rimane che essere) subordinata a logiche diverse dall’assecondare l’economia, chi è “forte” di istruzione è il primo a restare disoccupato perché appunto “forte” in qualcosa di “inutile”. Che poi questo si traduca soprattutto in disoccupazione giovanile è logico, perché i più istruiti e con meno esperienza (e l’esperienza è una delle cose più importanti in un contesto “statico”) sono i giovani, che quindi sono quelli che “valgono meno” e i primi a venir scartati. Così io mi spiego i dati OCSE in un modo che nessun canale di informazione ufficiale avrà mai il coraggio di fare.

Il modo in cui è letta l’Agenda di Lisbona, per lo meno in Italia, è “create gente istruita, ché loro faranno crescere il Paese”. La realtà è che il mondo sta avanzando, prima il solo occidente ora sempre più anche gli emergenti, verso attività a crescente contenuto di informazione e conoscenza su cui l’istruzione ha un ruolo decisivo, un livello industriale da “occupare” perché gli altri, i più “labour-intensive”, vengano naturalmente (per la teoria dei vantaggi comparati) coperti da Paesi meno sviluppati; per questo far crescere l’istruzione è necessario. E questo è vero in un Paese che è disposto a cambiare. Ma l’istruzione è un fondo, a livello di Paese, una necessità che viene espressa con l’avanzare stesso dell’economia (che deve essere economia “aperta” alle innovazioni anche dall’esterno). Mille ingegneri in più non sono mille brevetti, ma 999 persone capaci di gestire un brevetto da cui emergono mille aziende che hanno bisogno di gente capace. L’imprenditore traina, l’istruzione asseconda, e come una corda tira dietro l’economia. Ma in Italia, si è visto, non c’è vero spazio per l’innovazione o per mettere in discussione l’esistente, e quindi per una vera imprenditoria.

E non si può spingere una corda.

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/2010/09/29/studiare-per-lavorare-o-far-lavorare/feed/ 5
Tagli lineari e preferenza ‘L’ /2010/09/14/tagli-lineari-e-preferenza-l/ /2010/09/14/tagli-lineari-e-preferenza-l/#comments Tue, 14 Sep 2010 13:23:12 +0000 Giordano Masini /?p=7036 Ho ripreso i contatti con una mia vecchia amica, L., con la quale è in corso un’interessante scambio di mail nelle quali ci stiamo raccontando ciò che ci è successo nei lunghi anni in cui non siamo stati in contatto e, dato che, ognuno a modo suo, non riusciamo a tenere fuori le valutazioni generali dalle vicende personali, la discussione finisce spesso “in politica”, ambito nel quale abbiamo visioni radicalmente divergenti. Per fortuna siamo entrambe persone curiose, tolleranti e reciprocamente convinte della buona fede dell’interlocutore, quindi ne è venuta fuori una discussione stimolante della quale voglio riportare qualche spunto.

Qualche giorno fa, mentre si parlava di mercato del lavoro, ho menzionato le cosiddette “categorie protette”, e la sua reazione, come mi aspettavo, è stata piuttosto risentita. Mi scrive che se mi riferisco al pubblico impiego, settore di cui L. fa parte, non le sembra che se la stiano passando troppo bene, e mi porta a conferma qualche dato personale a riprova dell’assunto.

Dunque, L. fa l’assistente sociale in un municipio (non ricordo quale) di Roma. Il lavoro che fa L. (nel modo in cui lo fa L) è un lavoro utile e necessario. Perché i servizi sociali fanno parte di ciò che la pubblica amministrazione deve garantire. E’ anche un lavoro produttivo, nel senso che ciò che L. offre alla comunità ha grande valore, e perché il lavoro che fa L. non lo può fare chiunque. Bisogna studiare, e parecchio, avere spalle larghe e stomaco di ferro, oltre a un’innata e non comune dose di sensibilità. A naso mi verrebbe da dire che il lavoro che fa L. dovrebbe essere pagato a peso d’oro, e che probabilmente molti si dovrebbero contendere la sua professionalità.

Eppure L. guadagna quattro lire, le sue possibilità di fare carriera sono pressocché nulle, e con 46 anni e una discreta anzianità di servizio ancora non riesce a permettersi una casa nella città in cui vive. Mi scrive:

E io sono una fortunata: ho una madre che ha a sua volta una casa di proprietà e che mi vuole abbastanza bene per sacrificarsi a 75 anni per amor mio a cambiare casa ancora una volta. In questo sono nello stesso vergognoso, umiliante sistema che mi addolora vedere nei miei utenti: siamo un mondo che dipende dalle generazioni precedenti; siamo una generazione che sembra non riesca mai a raggiungere l’autonomia, l’autosufficienza; siamo una generazione senza dignità. E non si può proprio dire che sia una scelta.

Il problema è che nello stesso edificio in cui lavora L. (e in altre centinaia di edifici del genere sparsi per Roma e per l’Italia) ci sono tante altre persone (non oso azzardare una cifra) che per lo stesso stipendio di L. svolgono mansioni assai meno utili e produttive. Tanto per fare un esempio, se il lavoro di L. valesse 10, e quello delle quattro signore che siedono stancamente al protocollo valesse 5, e guadagnano tutte 6, sarebbe evidente che L. paga 1/6 dello stipendio delle quattro del protocollo, mentre loro le sottraggono quasi metà dello stipendio.

Viene tolto (ope legis, vedi CCNL) valore al lavoro di L. in modo che il danaro che le spetterebbe possa fare acquisire valore alle mansioni di altri. Passano gli anni, e la situazione, invece di migliorare, peggiora. La competenza di L. viene sempre più svilita, il suo carico di lavoro diviene sempre più pesante e ci sono sempre meno fondi a disposizione per le cose di cui si occupa. Neanche le condizioni di vita dei colleghi degli altri uffici migliora, ma il problema è comunque alla radice, perché quella dignità che L. lamenta di non avere ancora raggiunto in realtà ce l’ha, eccome, è roba sua, conquistata con la sua competenza, professionalità e con l’alta produttività delle mansioni che svolge. Ma le viene regolarmente rubata.

Le cose potrebbero migliorare (ce lo siamo ripetuti fino alla nausea) se si decidesse di affrontare la cosa una volta per tutte: questo non significa necessariamente licenziare una valanga di dipendenti pubblici (cosa che in qualche caso potrebbe anche servire – ne parlava giorni fa Giulio Zanella su nFA), ma più semplicemente la pubblica amministrazione dovrebbe gestire meglio le risorse umane e rivedere le sue priorità: ci sono cose che la pubblica amministrazione deve fare, e bene, altre che sono meno necessarie, altre ancora che non lo sono affatto. Finché ci saranno casi di mansioni create appositamente per impiegare del personale (scavate le buche, poi riempite le buche…) e nessuno dovrà prendersi la responsabilità di impiegarlo in maniera produttiva, le risorse per coprire i costi di queste mansioni le fornirà L., come una tassa nascosta e vigliacca.

Tutto ciò mi porta a due conclusioni: primo, quando si parla di “categorie protette” sarebbe bene ricordare che il costo di questa protezione non lo pagano solo coloro che stanno fuori da queste categorie, ma che all’interno di uno stesso settore c’è chi paga per gli altri. Secondo, e diretta conseguenza del primo: quando, come di questi tempi, si fanno i cosiddetti “tagli lineari” o “tagli orizzontali”, chiamateli come volete, non si risolve un fico secco, anzi, il costo di questi tagli verrà pagato sempre e comunque dalle persone sbagliate, almeno fino a che non si deciderà di prendere il toro per le corna pagandone anche, se è il caso, lo scotto elettorale nel breve periodo.

Se si continua a ritenere che la soluzione ai problemi della pubblica amministrazione sia quello di agire semplicemente e semplicisticamente sul rubinetto, senza mai porsi il problema della direzione del getto, non si uscirà mai dal meccanismo che ci conduce inesorabilmente verso quella preferenza ‘L’ (dove ‘L’ non è più l’iniziale della mia amica, ma la preferenza low, contrapposta ad high) di cui parlava efficacemente Oscar Giannino nel suo post l’altroieri. Perché tagliando la spesa “ad minchiam” continueremo a caricare sulle spalle di L. il costo delle mansioni delle signore del protocollo, la cui reale produttività nessuno si prenderà mai la briga di controllare, e che continueranno a sedere proprio sotto il getto del rubinetto, lasciando agli altri solo gli schizzi. Il lavoro di L. sarà sempre meno gratificante, avrà sempre meno risorse a disposizione, sarà fatto inesorabilmente sempre peggio in un meccanismo che compensa con nuovi costi (che derivano da servizi necessari fatti male) l’eventuale risparmio per le casse dello Stato. Risparmio che il prossimo Visco di turno potrà comunque vanificare agendo di nuovo, semplicemente, sul rubinetto.

E scoraggeremo sempre di più ragazzi e ragazze dal ricercare nello studio e nelle professioni la preferenza ‘H’ che L. inseguiva quando studiava con passione e si lanciava nel mondo del lavoro con l’entusiasmo e la dedizione che le ricordo. A conti fatti, anche se so che L. non sarà d’accordo, non ne valeva la pena.

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