CHICAGO BLOG » liberismo http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Wed, 11 Aug 2010 19:13:21 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 it hourly 1 Campioni d’Italia /2010/08/11/campioni-ditalia/ /2010/08/11/campioni-ditalia/#comments Wed, 11 Aug 2010 15:29:14 +0000 Camilla Conti /?p=6762 Ultima notizia dal libero mercato. Dopo l’acquisizione definitiva di International Power da parte di GdF-Suez, l’Inghilterra non ha più gestori di energia a controllo inglese. Il settore elettrico di Sua Maestà Britannica è ormai gestito da francesi, cinesi, tedeschi e spagnoli. L’operazione con cui GdF si è portata a casa il 70% di International Power, creando un gruppo che, nelle intenzioni, dovrebbe diventare il primo al mondo, con posizioni di leader nelle regioni a maggior crescita, come l’America Latina, il Medio Oriente e l’Asia, non è stata commentata dal governo inglese. Viceversa il premier francese, François Fillon, ha dichiarato che una tale operazione industriale “dimostra la vitalità delle grandi imprese francesi, in un settore particolarmente strategico”. Entusiasmo prevedibile, anche perchè GdF è finanziata in maniera sostanziale dallo Stato , che ne detiene il 35%.  Anche la Francia ha aperto il suo mercato dell’energia, ma è difficile pensare che lo lascerà passare sotto controllo straniero. E l’Italia? Ha ragione  fabrizio Onida a sostenere sulle pagine del Sole24Ore che tutti i Paesi attuano misure per favorire i propri campioni nazionali e attrarre investimenti. Non c’è alcun motivo per scandalizzarsi: che male c’è se lo facciamo anche noi? In realtà, come ben dimostra l’operazione Gdf, ci sono due Europe: quella francese, che sostiene i campioni, ma anche quella britannica che al contrario non ha mai esitato troppo a cedere le sue utilities. Per quanto ci riguarda, l’Italia ha assistito a un’irruzione nel mercato nazionale dell’elettricità grazie al portage fatto fare, anni fa, dalle banche alla Fiat degli Agnelli a favore di Edf su Edison. Irruzione che oggi si sta praticamente sciogliendo nella vicenda A2A. Nel nostro caso il nodo principale da sciogliere è la politica industriale sul nucleare. Se i progetti allo studio rimarranno solo sulla carta, allora l’azionista pubblico si dovrà porre il problema di spingere Enel non solo a ridimensionare il debito per continuare ad assicurare i dividendi allo Stato. Ma anche ad accelerare lo shopping mondiale. Stesso discorso vale per Terna che ha un debito risibile e oggi potrebbe finanziare importanti acquisizioni con mere operazioni di mercato a basso costo. Perché campioni non si nasce, ma si diventa.

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Fidenato “padrone a casa sua” e la Lega ogm /2010/08/11/fidenato-padrone-a-casa-sua-e-la-lega-ogm/ /2010/08/11/fidenato-padrone-a-casa-sua-e-la-lega-ogm/#comments Wed, 11 Aug 2010 12:52:24 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6759 E’ difficile commentare i fatti, quando cose che sembrano ovvie generano un intenso dibattito politico. Vuol dire che, in verità, ovvie non sono. E questo non può essere privo di conseguenze. Comunque, i fatti. Una banda di delinquenti fa irruzione illegalmente in un campo di mais di proprietà di Giorgio Fidenato, campo peraltro posto sotto sequestro dall’autorità giudiziaria perché si suppone vi siano state seminate alcune piante di mais transgenico. I delinquenti fanno piazza pulita di tutto il mais, convenzionale o geneticamente migliorato che sia. Il ministro dell’Agricoltura, Giancarlo Galan, commenta seccamente: “squadristi”. Il suo predecessore e attuale governatore della regione Veneto, Luca Zaia, dice invece: “è stata ripristinata la legalità”. E aggiunge: “sugli ogm sono un no global”.

Ora, in questa vicenda ci sono tante componenti che non vanno mischiate. C’è la giusta battaglia di Fidenato perché l’Italia si adegui alle direttive europee sugli ogm (nel nostro paese vige una moratoria di fatto). C’è la sua azione dimostrativa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla costante aggressione ai diritti degli agricoltori che vorrebbero poter usare gli ogm. Ci sono vari e complessi risvolti giudiziari. C’è un ministro dell’Agricoltura che tenta di allineare il nostro paese sulla rotta della modernità (bravo, bravo, e bravo Galan). Ma c’è, poi, qualcosa di molto grave. Cioè, che due irruzioni di fila in due campi di proprietà di Fidenato – della vicenda di pochi giorni prima avevo parlato qui – vengono sostanzialmente metabolizzate e tollerate. Il mondo politico, con poche eccezioni, si divide tra quelli che apertamente sostengono i metodi fascisti di Greenpeace e quelli che li appoggiano in modo un filo più democristiano. C’è che quasi nessuno si sente in dovere di esprimere solidarietà a Fidenato e al Movimento Libertario (per quel che vale, lo faccio – oltre che ovviamente a titolo personale – anche a nome di Chicago-blog e dell’Istituto Bruno Leoni), di sperare che le denunce presentate abbiano un seguito. Ci sono, soprattutto, due questioni.

La prima è politica. Che io sappia, solo Galan sul fronte istituzionale, e Piercamillo Falasca e Giordano Masini di Libertiamo su quello del più ampio confronto interno al centrodestra, hanno trovato scandalose e inaccettabili le dichiarazioni di Zaia. Il “governo del fare” non si è accorto che un autorevole esponente della maggioranza stava appoggiando la squadraccia no global e difendendo la distruzione della proprietà altrui. Il Pdl è troppo occupato con case e ville per accorgersi dei terreni agricoli. Il Pd, anche questa volta, è non pervenuto. A questo punto, non vedo cosa ci sia da scandalizzarsi quando Nichi Vendola dice che Carlo Giuliani è un eroe. Strappa un sorriso che la punta di diamante dell’involuzione vendoliana del centrodestra sia il partito che, a long time ago in a galaxy far, far away, aveva come slogan: padroni a casa nostra. Altro che mutazione genetica. Del resto, si sa, la politica procura strani compagni di letto.

La seconda questione è più profonda, e riguarda il senso del nostro paese per la proprietà privata. Semplicemente, ci fa molta più paura che un poverocristo in Friuli pianti 6 (sei) piantine di mais ogm, del fatto che una banda di corsari gli calpesti il terreno. Del resto, questo è coerente con lo scandalizzarsi dell’evasione fiscale più che del fisco rapace, del mancato rispetto delle leggi più che delle leggi irrispettabili. La realtà è questa: il nostro ceto politico, come dimostra quotidianamente coi suoi comportamenti privati e con le sue decisioni pubbliche, si sente autorizzato a tutto e tenuto a nulla, e in particolare autorizzato a disporre liberamente di noi e dei nostri beni e tenuto a non rispettare né noi, né i nostri beni, né i nostri diritti.

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Manuel Ayau, un uomo di cui non sentirete parlare /2010/08/04/manuel-ayau-un-uomo-di-cui-non-sentirete-parlare/ /2010/08/04/manuel-ayau-un-uomo-di-cui-non-sentirete-parlare/#comments Wed, 04 Aug 2010 18:56:19 +0000 Alberto Mingardi /?p=6713 Difficilmente ne avrete sentito parlare, ma Manuel Ayau (nato il 27 dicembre 1925 e venuto a mancare ieri) è un uomo la cui vita ha avuto un senso. Pochi hanno fatto quanto lui  per la libertà individuale e la scienza economica, nel suo disastrato Guatemala e non solo.
Ayau era un imprenditore ma a partire dagli anni Settanta prese a dedicare una quota sempre più ampia non solo dei suoi averi ma del suo tempo e più in generale delle sue energie a quell’universo di idee caro anche ai lettori di questo blog. Partecipò attivamente ai lavori della Mont Pelerin Society che, prima di Internet, era pressoché l’unico strumento di cui per tenersi in contatto disponeva la piccola comunità di studiosi che a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta gettò le basi della lenta e progressiva “rinascita” del liberalismo classico dopo le due guerre. “Muso”, come lo chiamavano gli amici e tutti coloro che in qualche maniera finivano per sentirlo amico pur avendo avuto scambi episodici con lui, era per molti come per Bob Higgs “un eroe”. Qui qualche cenno biografico e qui il podcast di un bel documentario-conversazione del Liberty Fund. E’ stato uno straordinario “imprenditore intellettuale”, cui dobbiamo (così lo dobbiamo a Ralph Harris, a Jacques Garello, a Leonard Read e a pochissimi, temerari altri) la sopravvivenza delle idee di mercato in una stagione terribile, cui l’ingresso nelle sedi ufficiali del dibattito pubblico era loro interdetto, grazie a delle piccole e agili “istituzioni corsare”.
Ayau ha fatto tantissime cose della vita. E’ stato un uomo d’impresa fra i maggiori del suo Paese, ha fatto il consigliere d’amministrazione di imprese importanti, non si è sottratto all’amaro calice della politica, ha fondato nel 1959 il primo think-tank liberale del suo Paese e dell’America latina (il Centro de Estudios Economico-Sociales) ma la sua grande opera è stata l’Universidad Francisco Marroquin. Una straordinaria università privata, che ha fatto nascere e crescere, con l’obiettivo (raggiunto) di farne un centro di eccellenza in grado di accompagnare il progresso civile del suo Paese. Credo sia l’unica università del mondo dove gli studenti si trovano a passare a fianco di busto di Ludwig von Mises (cui è intitolata la biblioteca) e a uno di Friedrich von Hayek. E’ sicuramente l’unica che pubblica una rivista chiamata “Laissez Faire”. Tutti gli studenti undergraduate, indipendentemente dalla specializzazione, debbono sostenere un corso di economia e uno di “filosofia sociale” (basato sul pensiero politico di Hayek).
Ci sono signori che spergiurano di voler fondare una “università del pensiero liberale” e che potrebbero mantenerne a dozzine, ma al massimo ne parlano il 26 di dicembre di ogni anno, se proprio non c’è di meglio da fare, e palesando una curiosa idea di corpo docente che andrebbe da Tony Blair a Putin.
Muso Ayau è stato un uomo che, con disponibilità immensamente inferiori, ma credendo in qualcosa, una vera “università del pensiero liberale” l’ha costruita – coinvolgendo a vario titolo Friedrich von Hayek, Milton Friedman, Jim Buchanan, Gordon Tullock, Vernon Smith. Lascia un’eredità destinata a fiorire sempre di più, in un Paese non facile, grazie alla sua determinazione, alla sua tenacia, alla sua straordinaria fiducia nella capacità delle idee di cambiare le cose. Gli sia lieve la terra.
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L’eccezione sbagliata a favore delle livree pubbliche /2010/07/28/leccezione-sbagliata-a-favore-delle-livree-pubbliche/ /2010/07/28/leccezione-sbagliata-a-favore-delle-livree-pubbliche/#comments Wed, 28 Jul 2010 10:46:33 +0000 Oscar Giannino /?p=6663 E’ l’eccezione invocata e riconosciuta a proprio  vantaggio da chiunque indossi una livrea pubblica, a fare dello Stato in quanto tale un agente corruttore nella storia. Per questo, oggi, boccio – molto a malincuore – Giorgio Napolitano. Che – evitiamo subito equivoci – non ha parlato per sé, ma a difesa dei diplomatici italiani.

Premessa obbligata. Credo che il Capo dello Stato meriti un voto positivo per l’equilibrio con cui è costretto ogni giorno che Dio manda in terra a barcamenarsi, per evitare che esplodano in maniera irreversibile le aspre conflittualità interistituzionali e politiche che minano la vita pubblica del nostro Paese. Alla luce del suo passato e della sua matrice politica, inevitabilmente tale da insospettire e indispettire il centrodestra, penso  che tutto sommato il governo Berlusocni dovrebbe comunque accendere un cero al Presidente della Repubblica. Ci fosse stato oggi uno Scalfaro al Quirinale, Berlusconi e la sua squadra avrebbero chiodi ancor più puntuti e fitti sui giacigli da fachiro ai quali sono costretti, per altro dai  propri gravi errori e mancanze.  Ma oggi no, Napolitano non mi è piaciuto per niente.

Che cosa ha detto il Capo dello Stato?  Che i tagli alla finanza pubblica non devono mortificare  funzioni delicate ed essenziali dello Stato. Parlava a difesa della diplomazia, poiché ieri e oggi è in corso una conferenza di tutti i capimissione italiani all’estero, su come meglio promuovere l’Italia. E parlava mentre alla Camera è in corso l’esame della manovra.  Secondo me, per questa dichiarazione Napolitano merita un’insufficienza secca, a matita verde.

Mi racconta una persona strepitosa che lavora al servizio studi Camera di come ieri le sia capitato di dover consolare e ridar fiato a un consigliere di municipalità napoletano – l’equivalente dei consigli di quartiere – il quale, fermo ai tagli ai gettoni di presenza disposti nella versione originale e tremontiana della manovra, cheideva se almeno si potesse recuperare la loro corresponsione pregressa, bloccata da aprile in avanti. Senonché il consigliere era ignaro che al Senato i gettoni erano stati naturalmente reintrodotti. Ed è rinato a nuova vita, apprendendolo. Come, naturalmente, tra esame parlamentare e ripensamenti del governo sono stati puntualmente accolte le richieste dei magistrati, e di molti altri.

La spesa pubblica italiana va ridotta di molti punti di PIl. Da un capo dello Stato serio, non costretto a sporcarsi con la polvere ultrademagogica della politica, noi povere mosche bianche liberiste abbiamo il dovere di aspettarci l’esatto contrario di quel che ha fatto. Non serve confermare ogni categoria pubblica nella sua convinzione di centrale ed essenziale insostituibilità, e nella sua richiesta che i tagli riguardino tutti gli altri ma non avvengano a casa propria. E’ la malattia italiana publica permanente, quella di giustificare i propri aumenti retributivi e i propri privilegi  con quelli degli altri, i parlamentari agganciati ai magistrati, i magistrati a lamentare che i parlamentari hanno più indennità e meno rischi, gli ordinari accademici a puntare il dito contro i  medici in policlinici con integrazioni loro negate, e via proseguendo fino all’ultimo consigliere di quartiere, appunto.

Così, con questa mentalità comparativa sempre e sono in senso incrementale, il costo pubblico si gonfia incessantemente, ma tutti comunque lamentano di essere discriminati. Sogno un capo dello Stato capace di dire anche a magistrati e diplomatici – i signori che guadagnano di più, nella macchina pubblica – che nessuno deve fare eccezioni e che comunque le dotazioni dovranno diminuire.  Non credo sia chiedere troppo. E’ l’eccezione invocata e riconosciuta a proprio  vantaggio da chiunque indossi una livrea pubblica, a fare dello Stato in quanto tale un agente corruttore nella storia.

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Crisi economica e anomal-Italy /2010/07/19/crisi-economica-e-anomal-italy/ /2010/07/19/crisi-economica-e-anomal-italy/#comments Mon, 19 Jul 2010 19:24:34 +0000 Oscar Giannino /?p=6592 Ho appena finito di leggere un paper benemerito che consente di spiegare in due parole la persistente anomalia politica italiana. Anche se naturalmente ciascuno è libera di pensarla  liberi come volete, senza ricorrere alla consueta categoria “B come Berlusconi”  (per inciso: il presidente Fini a Palermo ha appena finito di dire alla commemorazione di Borsellino che alle istituzioni bisogna portare rispetto anche se chi se le incarna talora non è all’altezza, e secondo me non si riferiva a se stesso: che circo Barnum ormai, questo Pdl, rispetto al mandato che aveva ottenuto! ). No, parlo di amomalia politica alla luce dei comportamenti e delle proposte concrete della destra e della sinistra, di fronte alla crisi economica, e in chiave comparata cioè rispetto alla media  degli altri Paesi Ocse. Di questo tratta lo studio del professor Vincenzo Galasso, dell’IGIER Bocconi. Vale i 5 dollari che vi sono necessari a scaricarlo, se non siete abbonati al SSRN.Galasso ha esaminato i comportamenti di fronte a crisi economiche di una certa serietà delle diverse coalizioni politiche al governo in 25 diversi Paesi Ocse, negli anni dal 1975 al 2008.  L’analisi empirica mostra che nelle crisi la reazione politica prevalente è quella di liberalizzare i mercati dei prodotti, per stimolare crescita aggiuntiva, mentre al contempo si riregolamenta cioè si abbassa la concorrenza dei mercati finanziari. Ma c’è una differenza tra destra e sinistra. La prima nelle crisi tende a libneralizzare di più i mercati e a rendere più flessibile il mercato del lavoro, ma a privatizzare di meno facendo invece dimagrire il welfare. La sinistra, al contrario, nelle crisi privatizza di più della destra per fare cassa pur di non toccare il welfare, e  adotta meno liberalizzazioni della destra nel mercato del lavoro e dei prodotti. In generale, più le coalizioni sono frammentate e dunque maggiore il potere d’interdizione di ciascuno dei suoi componenti, maggiore è la regolamentazione conseguente su lavoro, prodotti e finanza.

In Italia, oggi condividiamo con l’esperienza accumulata in 33 anni da 25 Paesi avanzati solo quest’ultima caratteristica negativa. Poiché tanto nei governi di centrosinistra che di centrodestra susseguitisi al governo da 16 anni a questa parte sempre una componente minoritaria aveva potere di veto, il tasso di regolamentazione complessivo resta superiore alla media sia sul mercato dei prodotti sia in quello del lavoro (Italia solo liberalizzata al 49%, dice il recentissimo Indice delle liberalizzazioni curato da IBL).

Ma destra e sinistra italiane restano anomale, rispetto a media OCSE. La destra nella crisi non taglia il welfare di troppo e anzi è fiera di difenderlo, rinviando riforme strutturali degli ammortizzatori sociali come del costo standard sanitario. Si limita, ed è già molto, a contenere la dinamica della spesa pubblica aggiuntiva, ma senza indicare la necessità di condurla di 6-7 punti sotto l’attuale 53,5% di Pil a livelli quanto meno tedeschi. Soprattutto, non liberalizza praticamente nulla. Quanto alla sinistra, non solo non privatizzetrebbe più alcunché, se oggi fosse al potere, ma raccoglie un milione e quatttrocentomila le firme contro una privatizzazione dell’acqua che semplicemente non esiste, e grida e urla contro un’aziendalizzazione delle università e della sanità altrettanto fantasmatiche.

L’effetto “B” esiste, come anomalia. Chi dice di no. Ma pensate anche a questo paper, se siete davvero convinti che l’unica anomalia sia “B”. Perché ce n’è una ancor maggiore, che riguarda l’intera politica italiana attuale. Ammalata di statalismo e regolamentite da sinistra a destra, con pochissime, purtroppo irrilevanti eccezioni.

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Bugiardi e mentitori /2010/07/19/bugiardi-e-mentitori/ /2010/07/19/bugiardi-e-mentitori/#comments Mon, 19 Jul 2010 17:01:21 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6585 Oggi il Forum dei movimenti per l’acqua ha consegnato in Cassazione oltre un milione e quattrocentomila firme per i tre quesiti referendari contro la “privatizzazione” dell’acqua. Secondo gli organizzatori, “nessun referendum nella storia repubblicana ha raccolto tante firme”. In un contesto normale parlerei dei tre referendum, del loro contenuto e delle ragioni per cui sono contrario (qui Luigi Ceffalo e qui Piercamillo Falasca e Rosita Romano spiegano le nostre posizioni sul decreto Ronchi e dintorni). Oggi non lo faccio. Oggi faccio qualcosa che normalmente non farei: parlare degli organizzatori. Perché penso che le firme raccolte siano firme estorte.

Quasi un milione e mezzo di persone hanno firmato contro la “privatizzazione” dell’acqua, sulla scorta di slogan del tipo “l’acqua non si vende” o “l’acqua non è una merce”. Mi dispiace per questo milione e mezzo di persone – statisticamente, 2,5 italiani su cento – ma sono stati fregati, ingannati e presi per il culo da gente senza scrupoli. A me sta bene il dibattito politico, anche violento: mi piace, mi diverte e generalmente non mi sottraggo. Ma deve esserci un minimo di onestà intellettuale da parte di tutti. Non capisco perché un’azienda deve essere punita (giustamente) se fa pubblicità ingannevole, e un’organizzazione politica no.

Ecco come gli organizzatori descrivono le ragioni dei referendum:

Perché l’acqua è un bene comune e un diritto umano universale. Un bene essenziale che appartiene a tutti. Nessuno può appropriarsene, né farci profitti. L’attuale governo ha invece deciso di consegnarla ai privati e alle grandi multinazionali. Noi tutte e tutti possiamo impedirlo. Mettendo oggi la nostra firma sulla richiesta di referendum e votando SI quando, nella prossima primavera, saremo chiamati a decidere. E’ una battaglia di civiltà. Nessuno si senta escluso.

Ora, io non so se l’acqua sia un bene comune e un diritto umano universale, e non sono neppure sicuro di sapere cosa ciò significhi. So che non c’è nulla, nella normativa attuale, che in principio contraddica queste posizioni; nulla che impedisca a ciascuno di avere accesso all’acqua; nulla che tolga l’acqua agli assetati. Non so neppure cosa voglia dire che nessuno può appropriarsene, visto che, ogni volta che bevo un bicchiere d’acqua, ho la sensazione di appropriarmene senza per questo provare sensi di colpa. So però che “l’attuale governo” non ha deciso un tubo che abbia l’effetto di consegnare l’acqua “ai privati e alle grandi multinazionali”. So però che, se passassero i referendum, come dicono gli stessi organizzatori,

Dal punto di vista normativo, il combinato disposto dei tre quesiti sopra descritti, comporterebbe, per l’affidamento del servizio idrico integrato, la possibilità del ricorso al vigente art. 114 del Decreto Legislativo n. 267/2000.
Tale articolo prevede il ricorso ad enti di diritto pubblico (azienda speciale, azienda speciale consortile, consorzio fra i Comuni), ovvero a forme societarie che qualificherebbero il servizio idrico come strutturalmente e funzionalmente “privo di rilevanza economica”, servizio di interesse generale e scevro da profitti nella sua erogazione.

Ora, se i promotori dei referendum fossero persone oneste, direbbero che questo significa tornare all’Italia del passato, un’Italia nella quale gli attuali problemi sono germogliati e cresciuti e hanno raggiunto la dimensione attuale. Direbbero che tornare alla gestione pubblica pura significa tornare alla gestione truffaldina e clientelare delle cricche o, nella migliore delle ipotesi, a una onesta e inefficiente gestione da parte di gente che nella vita non ha alcuna competenza nella gestione di un servizio industriale quale è quello idrico. Direbbero che gli investimenti o si fanno o non si fanno, e se si fanno in qualche modo vanno finanziati. Dunque, tariffa oppure tasse poco cambia (se non sotto il profilo redistributivo e dell’efficienza, e in entrambi i casi con una netta preferenza per le tariffe). Direbbero che, se gli investimenti non si fanno, non è che i cittadini non paghino nulla: pagherebbero, come pagano oggi, un pesante tributo alle perdite e all’illegalità degli allacci abusivi. Direbbero che tutte le storie che quotidianamente leggiamo sulle cricche e sul malaffare e sulle tangenti e che giustamente ci fanno provare schifo per una classe politica incapace e corrotta e composta non da ladri gentiluomini ma da ladri di polli, semplicemente le ritroveremmo – all’ennesima potenza – anche nel settore idrico.

Direbbero che a loro non gliene frega un cazzo dell’acqua e delle merci e dei diritti, ma che gliene frega solo di perseguire l’obiettivo della politicizzazione della vita economica, sociale e civile del paese, e che hanno trovato nell’acqua il ventre molle di una inesistente cultura delle liberalizzazioni. Direbbero onestamente che loro vogliono la gestione pubblica non perché vi sia alcuna evidenza che sia migliore o più efficiente o più economica, ma solo perché per loro il pubblico è bene, il privato è il male e il profitto è lo sterco del demonio.

Direbbero tutto questo se fossero onesti, ma poiché onesti non sono, e in nulla si differenziano dalle cricche se non nel fatto che le cricche tangentare fanno meno danni, non lo dicono e non lo diranno. Fottendosene bellamente del fatto che il paese va e andrà sempre più a puttane anche grazie al loro generoso contributo.

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Sulla Consob e le critiche di Giavazzi /2010/07/16/sulla-consob-e-le-critiche-di-giavazzi/ /2010/07/16/sulla-consob-e-le-critiche-di-giavazzi/#comments Fri, 16 Jul 2010 17:43:26 +0000 Camilla Conti /?p=6568 Stamani finalmente si è riletto sul Corriere della Sera un editoriale del professor Francesco Giavazzi. E diciamo finalmente perché, con ogni sincerità, preferiamo di gran lunga i suoi – anche se non sempre li condividiamo in tutto – rispetto a quelli recenti di altri editorialisti che indicano la via del “tutto pubblico” per uscire dalla crisi. Crisi in cui ci troviamo perché, secondo gli stessi, l’Italia si è arresa al crac del capitalismo anglosassone. Cioè “l’idea che la mera privatizzazione dell’economia potesse restituirci un’etica pubblica”. Evidentemente c’eravamo addormentati e ci siamo persi il film. Detto questo, stamattina Giavazzi ha fatto il contropelo alla Consob. Ma poiché siamo sensibile al tema affrontato, abbiamo voluto approfondire.  A dire la verità, qualcosa non ci quadra nel ragionamento del professore e abbiamo alcune osservazioni da fare. L’editoriale esordisce puntando il dito sul fatto che l’Autorità della Borsa da un mese è senza presidente. E su questo concordiamo pienamente: il governo dovrebbe preoccuparsi perché così non si tutela il mercato. Poi passa ad attaccare l’Autorità che esercita il suo ruolo di garante “in modo solo formale e burocratico”.  Ed ecco l’esempio: “Un’eccellente media impresa bergamasca, un caso di imprenditoria di qualità, la Gewiss, quotata in Borsa, è stata recentemente oggetto di un’offerta pubblica di acquisto (Opa) da parte del socio di controllo. A un investitore interessano soprattutto due cose: le motivazioni dell’offerta e il prezzo. Nelle 89 pagine del documento di offerta, approvato dalla Consob, queste informazioni non ci sono”.Prima osservazione. Le informazioni ci sono eccome e si possono trovare nel documento d’Opa facilmente rintracciabile sul sito gewiss.it. Del prezzo d’Opa si parla a pag 47 dove, tra l’altro, viene specificato che il prezzo offerto di 4,20 “incorpora un premio del 43,5% rispetto alla media aritmetica ponderata dei prezzi ufficiali registrati di borsa registrati nel corso degli ultimi 12 mesi”. Le carte parlano e del resto non si è mai visto un documento d’offerta che non indichi il prezzo d’offerta. Non solo. Per quanto riguarda le motivazioni a base dell’Opa, sono contenute nelle pag. 53, 54 e 55. Tra queste si legge ” È intenzione dell’Offerente, infatti, attraverso la promozione dell’Offerta ed il conseguimento della revoca delle Azioni dalla quotazione, far sì che l’Emittente possa concentrare i propri investimenti sul rafforzamento della posizione nel proprio mercato di riferimento nonché operare, a tal fine, con maggiore flessibilità ed efficienza nell’ambito della propria attività, così come descritto nel successivo Paragrafo G3. Poiché tali obiettivi di rafforzamento competitivo sono perseguibili nel lungo periodo, ciò potrebbe influenzare negativamente la redditività di breve-medio periodo dell’Emittente con un impatto negativo sul corso del titolo Gewiss (già caratterizzato da un ridotto volume medio giornaliero di scambi), eventualmente amplificato dalle poco favorevoli condizioni dei mercati borsistici. L’Offerente ritiene che tali obiettivi di sviluppo e riorganizzazione possano essere più agevolmente ed efficacemente perseguiti con un azionariato a base ristretta piuttosto che con un azionariato diffuso ed in una situazione caratterizzata da minori oneri e maggiore flessibilità gestionale e organizzativa”. Linguaggio da prospetto, ma le informazioni non mancano. L’editoriale prosegue  sottolineando i “legittimi sospetti” degli investitori che la società, tolta dalla Borsa, verrà venduta in blocco con un premio sul prezzo dell’Opa: “nel Bel Paese succede spesso”, ci spiega Giavazzi. “Un investitore istituzionale scrive all’offerente per chiedergli se il dubbio è fondato, e informa la Consob. Risposta dell’offerente: leggete il documento, nel quale però di spiegazioni non vi è traccia”. Giavazzi si riferisce alla lettera indirizzata al manager-imprenditore Domenico Bosatelli (e per conoscenza a Consob) da Nextam Partners che ha aderito a denti stretti all opa Gewiss. Nelle scorse settimane la sgr aveva contestato diversi aspetti dell’offerta finalizzata al delisting del gruppo milanese di installazioni elettriche. E nella missiva  la societa’ di gestione aveva chiesto piu’ chiarezza sui motivi dell’offerta e sui rischi impliciti legati al mantenimento di Gewiss a Piazza Affari. Non solo. Nextam aveva messo in discussione il prezzo di offerta, considerato troppo basso. Ma la risposta di Bosatelli c’è stata. Secondo l’imprenditore il prezzo di 4,2 euro sarebbe “congruo”, visto che per definirlo sarebbe stata condotta un’analisi dei multipli di mercato. L’azionista di maggioranza ha inoltre rassicurato gli azionisti sulle prossime mosse escludendo la possibilita’ che l’Opa sia preliminare a un successivo passaggio di proprieta’. Alla fine Nextam ha deciso di aderire all’Opa, pur ribadendo le proprie perplessita’ di fondo. Ma le spiegazioni sono comunque arrivate. E hanno lasciato traccia. Non si capisce quindi perché, come contesta più avanti il professore, Consob dovesse chiedere che all’investitore venisse data una risposta piùarticolata e più seria. Più in generale, ci preme inoltre ricordare che dichiarare l’equità del prezzo di un’Opa non spetta alla Consob, il cui ruolo non è dire se il prezzo è giusto ma evitare il ripetersi di terremoti come quelli di Cirio e Parmalat. L’esempio citato nell’editoriale per dimostrare, scrive l’autore, “l’incapacità di tutelare davvero gli interessi dei risparmiatori” ci lascia dunque perplessi. Noi di Chicago-Blog che amiamo tanto l’America ricordiamo al professor Giavazzi che a Wall Street quando parte un’ Opa la si saluta “Democracy at work“ direbbero loro. Perché anche l’azionista più potente della società è trattato alla pari di quello più piccolo.

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Liberismo e legalità /2010/07/16/liberismo-e-legalita/ /2010/07/16/liberismo-e-legalita/#comments Fri, 16 Jul 2010 09:45:35 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6559 Quanto è diversa, e come e perché, la “nuova Tangentopoli” da quella vecchia? La mia sensazione è che siamo all’eterno ritorno dell’eguale, per la banale ragione che le cause profonde che hanno portato a Mani pulite sono state rimosse solo in parte. Non so quanto ci sia di vero nei diversi filoni di inchieste di cui le cronache di questi giorni sono piene: immagino che alcune arriveranno a delle condanne, altre finiranno nel nulla; qualcuno ne uscirà pulito, altri no. Penso che sospetti fondati convivano con sonore sciocchezze (suvvia, la P3, se questi progettano il golpe le “istituzioni democratiche” possono dormire sonni tranquilli, come peraltro fanno in tutte le possibili interpretazioni del termine). Penso che, per certi versi, la cosa più desolante sia il panorama tristemente zeppo di ladri di galline: almeno, i mariuoli della Prima repubblica avevano una loro dignità. Ma penso che tutte queste cose – così come il concentrarsi su specifiche indagini, per sostenere le tesi dei pm o difendere le ragioni dei sospettati – sia in fin dei conti fuorviante. Il problema vero non è che qualcuno delinqua: succederà sempre. Il problema vero è: perché la delinquenza, la corruzione, la propensione ad aggirare le leggi per aiutare gli amici degli amici (con annessa mancia) è così comunemente diffusa?

La risposta ovvia è che l’origine di tutto sta nel collateralismo tra politica e affari. Come tutte le risposte ovvie è probabilmente vera, ma come molte risposte ovvie è anche tautologica. Perché politica e affari sono collaterali? In realtà, messa così è ipocrita e populista, perché ovunque nel mondo ci sono punti di contatto tra politica e affari. La miglior formulazione che riesco a trovare della domanda è: perché in Italia politica e affari hanno così tanti punti di contatto, sovrapposizioni, linee di confine tanto sfumate? E’ chiaro che, meno punti di contatto ci sono, meno numerose e meno sostanziose sono le tentazioni. Se la tentazione fa l’uomo ladro, a parità di tutto il resto (non credo che gli italiani in generale, e perfino i politici italiani, siano antropologicamente meno onesti degli altri), meno tentazioni vuol dire meno ladri. Meno ladri – o meno zone esposte al furto – vuole anche dire più facilità nel controllo e nell’enforcement, più deterrenza, e quindi ancora meno ladri (perché cresce il costo opportunità del furto). (Uso le parole “ladri” e “furto” in senso del tutto generico e populista).

Penso a questi temi da qualche giorno, principalmente perché ho trovato molto interessante – e molto poco condibisibile – un bell’articolo di Massimo Mucchetti sul Corriere di mercoledì (qui una mia letterina al Foglio e qui la risposta di Massimo). Prima di cercare di esprimere la mia lettura delle cose, e delle cause, e dunque suggerire la riforma che io farei se fossi il Dittatore Benevolente di questo paese, vorrei attirare la vostra attenzione su due grafici. I grafici, costruiti su dati World Governance Indicators, mettono in relazione la corruzione (che ho definito come l’opposto del “controllo della corruzione” misurato dalla Banca mondiale) con la qualità della regolazione (figura di sinistra) e la rule of law (figura di destra). La scala su entrambi gli assi va da -2,5 a 2,5, dove valori più alti sono “buoni” per qualità della regolazione e rule of law, cattivi per la corruzione.

Questi due grafici mostrano una cosa molto semplice, molto intuitiva e molto indagata in letteratura (a partire almeno da qui). Cioè che i paesi regolati meglio – dove meglio è normalmente sinonimo di poco – sono meno corrotti, e i paesi con una più forte cultura della rule of law sono meno corrotti. Una correlazione non è necessariamente una causa, ma sarebbe davvero sorprendente che questa correlazione non indicasse un nesso di causalità, e ancor più sorprendente sarebbe se il nesso di causalità andasse in direzione opposta (cioè la corruzione determina la qualità della regolazione e la rule of law).

Cosa dicono questi grafici? Dicono essenzialmente quello che ho cercato di esprimere nella lettera al Foglio, e che ribadisco qui. La corruzione (e anche la cattiva regolazione, o la regolazione “catturata”, che in fondo è corruzione d’alto bordo) esiste perché il sistema legale è sufficiente confuso, o sufficientemente folle, o entrambe le cose da rendere il comportamento corruttivo “conveniente”, dati i rischi e i payoff attesi. Quindi ci sono solo due modi per ridurre la corruzione: uno è aumentare i rischi, cioè armare la mano della magistratura o di chiunque sia impegnato a controllare/intervenire contro la corruzione. Ma questo è un metodo relativamente inefficiente, perché gli stessi controllori possono essere corrotti e perché, in ogni caso, non si può pensare (e non sarebbe neppure desiderabile) avere un paio d’occhi in ogni angolo di strada.

L’altro modo è rendere più difficile la corruzione, cioè aumentarne i costi; oppure renderla meno utile, cioè abbassare i payoff. Per rendere difficile la corruzione, bisogna adottare sistemi legali (autorizzativi, fiscali, ecc.) trasparenti. Esempio banale e d’attualità: la mafia e la corruzione stanno all’eolico come le mosche al miele perché i procedimenti autorizzativi sono fottutamente opachi e discrezionali. Rendeteli lineari, e avrete meno corruzione. Per abbassare i payoff della corruzione, bisogna restringere la zona grigia in cui Stato e mercato di sovrappongono, facendo chiarezza e tagliando le unghie a politici e burocrati: io corrompo un politico o un burocrate se penso, in questo modo, di poter guadagnare di più (per esempio aggiudicandomi una gara con un’offerta più bassa o alzando i costi di ingresso sul mercato per la concorrenza). Ripeto una precisazione già fatta: uso il termine “corruzione” in modo piuttosto indifferente rispetto a cattura del regolatore, perché le due cose, sebbene diverse sotto il profilo giuridico, sono abbastanza indifferenti riguardo gli effetti economici. Se dunque il politico o il burocrate non ha il potere di aiutarmi, non ha senso che io lo corrompa. Perché c’è la mafia nell’eolico e non, che so, nei panifici (suppongo), e soprattutto perché la mafia nell’eolico è una patologia cronica e nei panifici sarebbe solo una manifestazione acuta di un problema? Perché i politici hanno molte meno possibilità di influenzare il business del pane di quanto non abbiano con quello del vento.

In senso molto brutale sto dicendo che se ci sono poche leggi/norme/regole e sono chiare, ci sono anche poche norme da violare, e la violazione è per definizione più facilmente identificabile. Sto cioè dicendo che, come le tasse per essere pagate devono essere pagabili, le leggi per essere rispettate devono essere rispettabili, e per essere rispettabili devono essere poche, chiare, e possibilmente “giuste”. Quindi, chi crede che la legalità sia un valore (senza farne un feticcio, e non voglio qui entrare nella discussione sul rispetto di leggi ingiuste), non dovrebbe invocare più regolamentazione, più sbirri e più paletti o vincoli: dovrebbe invocare meno norme, meno Stato e più mercato. Basta leggere la cronaca di questi giorni per rendersi conto che le cose stanno così, ed è proprio il proliferare delle norme l’alveo in cui la corruzione/cattura si verifica, non il suo opposto. Non il capitalismo selvaggio, ma lo statalismo impiccione.

Se le etichette hanno un senso – e raramente ce l’hanno – chi oggi crede che esista una questione morale, come esisteva nei primi anni Novanta, dovrebbe riconoscere che la questione morale è figlia dello statalismo all’italiana. Se la legalità è il fine, lo strumento non può che essere la deregulation e il liberismo.

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Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/5 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni5/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni5/#comments Mon, 12 Jul 2010 10:34:30 +0000 Alberto Mingardi /?p=6483 Breve secondo giro di tavolo. Pilati è un “ottimista tecnologico” e invita a considerare la televisione non in se stessa, ma rispetto ai suoi competitori per l’attenzione del pubblico (YouTube, etc). Sulla Spagna, segnala come la tv pubblica senza canone abbia fatto bilanci disastrosi, e così pure i privati in un mercato “frammentato” (quello vantato positivamente da Gentiloni): il finanziamento dei contenuti, nel mondo di oggi, spinge ai consolidamenti. Le economie di scala sono molto rilevanti.

Sulle tlc, Pilati sottolinea differenza fra privatizzazione e liberalizzazione. La liberalizzazione del settore ha funzionato bene (pensiamo al mercato della telefonia mobile). Se mancano gli investimenti sulla rete, dipende dal modo in cui Telecom è stata privatizzata: Telecom non è stata in grado di difendere l’asset che aveva ricevuto in eredità dalla SIP (la rete). Il problema di oggi è che dopo aver caricato il debito delle acquisizioni sul patrimonio della società a Telecom mancano risorse. Gli operatori mobili hanno bisogno di risorse trasmissive in quantità maggiore di oggi: serve un riassetto delle frequenze, che ne sposti dal settore televisivo (dove sono usate in modo inefficiente) alla telefonia. Bisogna “aprire il trading delle frequenze” consentendo agli operatori di negoziare i diritti di uso che hanno accumulato nel tempo. Altrimenti si rischia saturazione reti operatori mobili.

Dopo la richiesta di un commento sulle assicurazioni da Bellasio, Pilati nota come l’indennizzo diretto non abbia fatto scendere i prezzi. Per Pilati, il differenziale di prezzo delle polizze con gli altri Paese va spiegato anche alla luce di una lettura del contesto italiano: troppi sinistri, troppa litigiosità, incertezza del diritto, frequenza delle frodi.

Bellasio nota come il PD faccia tutto fuorché incalzare il governo sulle liberalizzazioni.  Sulla tv, Daniele chiede a Gentiloni se non sia stato sbagliato, per la sinistra, evitare sempre il tema di privatizzazione della Rai. Gentiloni risponde che le forze di centro-sinistra hanno “problemi al loro interno”, e cita la vicenda del referendum sulla privatizzazione (cosiddetta) dell’acqua. Dice però che è dalle parti del Governo che le liberalizzazioni sembrano mordere il freno (“manca pure il ministro del ramo”).

Sul mercato del lavoro, Gentiloni sostiene che per salvaguardare il maggiore grado di apertura del lavoro vanno cambiati gli ammortizzatori sociali (per evitare “effetti boomerang” anche sul piano sociale). Evitare il cortocircuito con una forma di “flexecurity”.

Gentiloni è d’accordo con Pilati sul tema delle frequenze, siamo fra i Paesi più avanzati per accesso alla banda larga sul mobile, vanno redistribuite le frequenze ma c’è un “problema di posizione dominante dei grandi soggetti, che vogliono tenersi le frequenze anche se è evidente che oggi non sanno che farsene”. Gli operatori scommettono sull’innovazione, accaparrando frequenze pensando di potere poi andare all’incasso in un secondo momento. Per questo, il sacrificio non lo possono fare solo le tv locali “deve essere fatto a tutti i piani del palazzo dei televisionari”. La sua proposta è quella di un’asta pubblica delle frequenze (e non libero scambio dei diritti d’uso fra operatori, come proponeva Pilati).

Il dibattito è chiuso, Bellasio auspica che ci rivedremo l’anno prossimo “superando la soglia psicologica del 50%”. Come dalle migliori tradizioni italiche, ora si passa al buffet.

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Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/4 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni4/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni4/#comments Mon, 12 Jul 2010 10:14:47 +0000 Alberto Mingardi /?p=6480 Interviene Gentiloni. Gentiloni comincia notando come le liberalizzazioni purtroppo sembrino inattuali: sembra problematica la “prosecuzione di un disegno”, quello dell’apertura dell’economia, che ha coinvolto “prima la destra e poi la sinistra” fra la caduta del muro e l’attentato alle torri gemelle. “Avverto il pericolo che dopo il trionfo delle idee liberali a fine Novecento si inneschi ora una controtendenza”.

Gentiloni è “preoccupato dalla dottrina dell’antimercatismo del nostro ministro dell’economia” che non è “sufficientemente attenuata dai discorsi sull’art.41″ ma pure dal fatto che il leader del Pse all’Europarlamento, Schulz (sì, il “kapò” di Berlusconi), parli di “riscoprire le radici anticapitaliste della sinistra”. Segnala che il governo non ha licenziato la legge annuale sulla concorrenza “idea che non va mitizzata ma neanche fatta cadere”.

Gentiloni ha un punto interrogativo sul tema della tv: la tecnologia ha abbassato le barriere all’entrata, ma non è convinto sulla scelte del benchmark spagnolo. In Spagna, spiega Gentiloni, c’è un mercato frammentato e un operatore pubblico poco pesante, ma una regolamentazione ex ante fortissima.

Sui servizi pubblici locali, Gentiloni segnala come ci sia una sorta di “union sacreé” contro ogni genere di riforma effettiva. Mancano i regolamenti attuativi del decreto Ronchi, c’era stata la rivolta di mezza maggioranza contro il Lanzillotta. Questo perché, dice Gentiloni, evitando la liberalizzazione in un quadro di crescente devoluzione si può finire per consolidare situazioni ibride, che servono a piazzare persone e in alcuni casi ingenerano fenomeni di corruttela. Il fatto che si vada avanti a non fare nulla, per i veti di poteri locali e forze anti-mercato, è grave.  Il risultato potrebbe essere non “meno Stato, più società” ma “più ingerenza pubblica nell’economia e (di conseguenza, aggiungo io) più fattori corruttivi della politica”.

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