CHICAGO BLOG » informazione http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 RAI: il monopolio mai abolito – Daniele Venanzi /2010/10/22/rai-il-monopolio-mai-abolito-daniele-venanzi/ /2010/10/22/rai-il-monopolio-mai-abolito-daniele-venanzi/#comments Fri, 22 Oct 2010 16:16:42 +0000 Guest /?p=7355 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Daniele Venanzi:

Nello stato sociale il cittadino è costretto a cedere parte del suo guadagno alle istituzioni in cambio di servizi di cui non ha mai richiesto l’usufrutto e per i quali non è stato messo in condizioni di pattuire il prezzo. Lasciando da parte le convinzioni liberomercatiste, bisogna ammettere che esiste una scala gerarchica basata sull’utilità sociale nella lunga lista dei servizi erogati dallo stato al cui vertice vi sono sicurezza, sanità e istruzione.

Il modo migliore per cominciare a discutere del ridimensionamento delle competenze statali è iniziare a spuntare quella lista dal basso e depennare le voci di maggiore spreco e minore utilità pubblica. Basta un po’ di ragionevolezza per comprendere che la scomparsa improvvisa del welfare in una situazione di pressione fiscale particolarmente penalizzante pari a circa 70 punti percentuali e di mercato drogato dall’ingerenza statale comporterebbe grandi squilibri sociali tanto tra i privati cittadini quanto tra gli imprenditori.

La priorità va assegnata a quelle liberalizzazioni che pongono termine alla stagione del finanziamento pubblico a pioggia volto ad accentrare e mantenere posizioni di privilegio e di comando nelle mani dello stato tramite il possesso di aziende dalla presso che inesistente funzione di ammortizzazione sociale.

La RAI abusa sin dalla sua nascita di un privilegio di casta che comporta in primo luogo una gravosa spesa sulle spalle di ogni contribuente e in secondo momento una concorrenza tutt’altro che leale nei confronti delle altre emittenti televisive, poiché la sua esistenza è garantita non solo dall’offerta proposta sul mercato, i cui risultati verrebbero in condizioni normali ripagati dagli introiti pubblicitari, ma da un’imposta riscossa annualmente assicurata dallo stato che, di tanto in tanto, stabilisce persino degli aumenti, a riprova che non vi è alcun modo in cui la TV statale possa fallire per mancanza di fondi o quanto meno essere penalizzata dalle scelte del mercato. In questo modo la qualità del servizio viene compromessa poiché la RAI, a differenza delle sue concorrenti, non necessita di un palinsesto migliore per batterle. Nel caso in cui invece riesca ad ottenere un miglior dato Auditel, quest’ultimo sarà in ogni modo falsato dai maggiori fondi disponibili grazie all’imposizione tributaria al fine di rendere la trasmissione più concorrenziale.

La sentenza n. 202 della Corte Costituzionale che nel 1980 sancì la libertà di esercizio delle trasmissioni via etere su scala nazionale, permettendo così la nascita delle principali concorrenti dei canali di stato, non decretò di fatto la completa abolizione del monopolio, poiché la RAI continua ad essere la voce ufficiale dei governi che si susseguono all’amministrazione della cosa pubblica, ignorando qualsiasi logica di mercato.

È sufficiente pensare al terremoto che investe i vertici dell’azienda di Viale Mazzini ogni qualvolta il paese torna alle urne ed esprime la sua preferenza per una nuova maggioranza. Quello della televisione di stato è un espediente volto ad assicurare ai poteri forti del paese un canale preferenziale attraverso il quale diramare informazioni, spesso arbitrariamente distorte, e influenzare la coscienza comune secondo la propria volontà. Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, da strenuo difensore della libertà individuale, comprese i meccanismi perversi per cui si pretendeva di istituire il servizio di (dis)informazione pubblico ancora prima che questo fosse creato.

Seguendo l’insegnamento del filosofo libertario Murray N. Rothbard, potremmo asserire che l’informazione non è un diritto, bensì una libertà, poiché nessuno può negare a ciascun individuo le libertà di informarsi e di informare, il che lederebbe in primo luogo quelle di pensiero e parola. Questo però non implica, per i motivi sopra elencati, che lo stato possa arrogarsi il diritto di istituire il monopolio su dei media attraverso la creazione di reti di sua proprietà con la subdola e menzognera pretesa di garantire un’informazione equa e accessibile ad ogni cittadino.

Bisogna tenere a mente che da sempre i giornali sono fondati e diretti da privati cittadini e di sovente sono organi d’informazione ufficiale di partiti e movimenti politici. L’esistenza stessa del privato nel settore dell’informazione rende utopica la becera pretesa statalista del fare della divulgazione delle notizie un coro che decanta all’unisono le sole verità dello stato.

Tornando all’analisi della situazione italiana, la RAI grazie al canone ha generato nel 2009 introiti pari a 1.645,4 milioni di euro (bilancio ufficiale del 31.12.2009 disponibile sul sito RAI) che risulta a seguito di vari aumenti nel corso degli anni l’imposta più evasa dai contribuenti. I ricavi ottenuti dalla riscossione dell’imposta superano notevolmente i guadagni generati dagli spot pubblicitari: 998,5 milioni di euro (medesima fonte). Il ricavo netto totale RAI pari a 3.177,8 milioni di euro è leggermente inferiore a quello di Mediaset Italia che ammonta a 3,228,8 (fonte bilancio Mediaset 2009). Ma il notevole apporto finanziario al tesoretto costituito dalla riscossione del canone penalizza la godibilità della programmazione concorrente, in quanto, a differenza della RAI, necessita di una maggiore presenza di spazi pubblicitari al fine di sovvenzionarsi.

Le cifre dovrebbero far riflettere da un lato sul vantaggio che l’emittente statale detiene sulle rivali e dall’altro sull’ingiustizia di tale tassazione dimostrata dal modo in cui ne rispondono i cittadini. Il privilegio RAI si traduce, tra le tante ingiustizie, nella possibilità di stipulare contratti con i dipendenti ben al di sopra del loro valore di mercato, come testimoniato dalle eccessive retribuzioni dei cosiddetti “conduttori d’oro”. In questo modo si è in presenza di un “monopolio della qualità”, poiché i restanti principali canali televisivi non posso permettersi il lusso di strapagare i propri dipendenti migliori perché ne risentirebbe eccessivamente il bilancio aziendale.

Ai detrattori della liberalizzazione delle trasmissioni via etere vale la pena ricordare che già da molti anni prima della scesa in campo delle reti Mediaset il palinsesto RAI era principalmente composto da trasmissioni di svago e intrattenimento piuttosto che da programmi di informazione o approfondimento culturale, per cui le altre realtà inseritesi nel mercato non possono essere imputate di aver concorso a svilire la qualità media dell’offerta televisiva. Lo stato non detiene in alcun modo l’illiberale principio di auctoritas per cui si ritiene in diritto di imporre ai cittadini cosa è giusto guardare sui propri teleschermi.

Tirando le somme è ragionevole credere che l’imposta sul canone televisivo sia la prima delle tasse da abolire in un processo di liberalizzazione dell’Italia poiché, come dimostrato, racchiude nella sua natura l’essenza del principio liberale per il quale non possa esserci libertà individuale se si rinuncia a quella economica. Ne consegue che la cittadinanza dovrebbe chiedere con maggior forza ai propri rappresentanti l’abolizione della suddetta imposta per garantire anche agli individui più onesti e rispettosi delle istituzioni la liberazione da questa volgare forma di finanziamento della propaganda statalista. Infatti, non è l’evasione la strategia vincente con cui aggredire il burocratismo, poiché fino al momento in cui non sarà la legge a decretare la fine di questo sopruso il paese non potrà dirsene ufficialmente liberato.

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L’invettiva di Penati sul caso Rep-Prof /2010/09/27/linvettiva-di-penati-sul-caso-rep-prof/ /2010/09/27/linvettiva-di-penati-sul-caso-rep-prof/#comments Mon, 27 Sep 2010 10:45:38 +0000 Oscar Giannino /?p=7153 Ogni tanto ci vuole. Una sana invettiva che svuota i polmoni e scarica le meningi, collassa le endorfine e ripristina l’equilibrio metabolico. Tipo quella diAlessandro Penati oggi su Repubblica, che purtroppo non lo linka se non a pagamento, dunque se non l’avete letto qui solo una sintesi. E’ una replica invettivista all’intervista che Cesare Geronzi ha rilasciato a Massimo Giannini di Repubblica, dopo che questi aveva romanzato la vicenda della defenestrazione di Profumo come una resa all’asse Berlusconi-Letta-Geronzi. L’allineata delle tre botte mediatiche di Repubblica  Giannini-Geronzi-Penati dice molto , per me, di come si seguano in Italia le vicende finanziarie.

Prima lettura della vicenda Profumo: tutta politica – nella parte del male il centrodestra, naturalmente, della famigerata macchina occupapotere che è il centrodestra, ci mancherebbe – presentata come master&commander della finanza.  Polvere negli occhi ai lettori intribaliti, i molti che se anche parli del colore degli occhi dicono che la colpa è tutta di Silvio oppure tutta di pierluigi: la politica pagherebbe se fosse vero e andasse davvero così, ma con questo bel modo i media scaldano gli spalti calcistici di una politica ridotta a circo.

Seconda lettura: si cede una pagina intera a chi viene attaccato in prima lettura come fosse un incrocio tra Belzebù e Astarotte, e Geronzi obiettivamente ha buon gioco nel rispondere alle panzane della prima lettura con considerazioni che appaiono talora addirittura di elementare buon senso, tipo quelle dedicate all’evoluzione involutiva delle fondazioni.  Con questo artificio i rapporti di Repubblica con Geronzi restano in realtà ottimi, perché il giornalista che ha dato una prima lettura tanto forzatamente lontana dalla replica, per quanto sia bravo esita a reggere il fronte e dunque ecco la nostalgia delle sane fondazioni di un tempo, ché quelle sì difendevano stabilità banche e non facevano politica (tradotto, se la facevano per la Dc e per i post Dc non è politica, se in Intesa Bazoli le spiana quando pensano di avanzare candidati propri fa bene, perché “difendere la stabilità della banca” significa “difendere i banchieri  che guidano le banche”, di conseguenza fondazioni autoreferenziali e banchieri autoreferenziali uguale Eden in Terra: ma si può dico? io mi sbellico in solitudine… ho considerato l’intervista di Geronzi qualcosa da ritagliare e appendere al muro per la sua bravura, a conferma del fatto che chi nei decenni ha creato Capitalia e l’ha poi dissolta negli attivi di Unicredit poco prima della crisi insegna che il miglior banchiere italiano è appunto quello relazionale, un evocatore di realismo magico, uno strepitoso psicologo di politici malretti e imprenditori malgestiti, perchè quel che conta è la visione “sistemica” come si suol dire  e non i numeri; gli incroci azionari e i relativi semafori e non le strade fluide del mercato; gli intrecci e le rotatorie di potere e mai i viadotti su livelli diversi in cui ciascuno, banche, assicurazioni, imprese, segua la sua strada senza inchinarsi a logiche improprie diverse da sana crescita, stabilità patrimoniale e massimizzazione del risultato….: ha torto Geronzi? sui libri e nella teoria noi diciamo di sì, ma nella realtà italiana lui ha ragione, ragionissima, ragionissimissima da ven de re.., e capisco da molto tempo che rida sorrida e derida, chi crede in cose diverse )

Terza lettura: solo dopo e solo alla fine, contando sul fatto che per i lettori quel che continuerà a contare è la prima sceneggiata tutta politica rappresentata da Repubblica a cadavere di Profumo ancora caldo; solo dopo e solo alla fine, numeri e considerazioni di mercato lasciati ad Alessandro Penati, sempre più nella veste di lupo solitario che ulula alla luna nella steppa. E così, ooplà, chi propone letture deformate e devianti si copre il sedere sia con chi il potere lo esercita davvero e ne sorride, sia con la sparuta minoranza di noi mercatisti che vorrebbero a contare fossero solo numeri e bilanci e attivi, sia soprattutto con coloro che Profumo lo hanno cacciato davvero, cioè i tedeschi di Rampl e i signori delle fodnazioni Crt, Cariverona e Cassamarca e Carimonte.

Palle in politica, rinculi di potere, e parole vane di mercato: che cosa questa triade c’entri con far capire come e perchè Profumo sia andato a casa, o sono scemo io oppure spiegatemelo voi.

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Andrew Keen e i privilegi della classe creativa /2010/08/25/andrew-keen-e-i-privilegi-della-classe-creativa/ /2010/08/25/andrew-keen-e-i-privilegi-della-classe-creativa/#comments Wed, 25 Aug 2010 11:59:54 +0000 Alberto Mingardi /?p=6846 L’Aspen Forum del Technology Policy Institute si è chiuso con un discorso di Andrew Keen, personaggio di cui ignoravo l’esistenza fino ad oggi  ma il cui libro è stato anche tradotto in italiano. Colpa mia non averlo né visto né letto, e se qualcuno invece l’ha fatto m’interesserebbe molto sapere che ne pensa.

Keen è un personaggio singolare, che alza la bandiera della “cultura del secondo novecento” (in Italia diremmo: post-sessantottina) sostenendo che si tratti del massimo prodotto di sempre della creatività umana. Prodotto che egli legge come in buona misura frutto di un “eco-sistema culturale” che ha consentito ai “creativi” (cinematografari, scrittori, musicanti) di trarre abbondante soddisfazione dal proprio lavoro. Di qui, parte con una filippica contro Internet, che di quella cultura sarebbe l’assassino. Sostanzialmente: lo sviluppo della rete avrebbe segnato una svolta ideologica per cui la qualità nella produzione culturale (si tratti di una rivista o di un CD) non dovrebbe essere più considerata degna di remunerazione monetaria. Questo ingenera una estrema “democratizzazione” della cultura, per cui tutto, non avendo prezzo, ha lo stesso valore: zero. Quei modelli di business che puntavano sulla costituzione di “piattaforme per la condivisione di contenuti” sperando di potere poi remunerare gli autori attraverso la pubblicità (un modello di per sé non certo nuovo: pensate alla televisione commerciale) sarebbero per Keen già obsolete, e in realtà sarebbero state sin dall’inizio votate al fallimento. Perché? Perché, banalizzo, “la qualità si paga”.

È un discorso affascinante anche se di dubbia consistenza. In prima battuta, a me possono piacere molto sia Bob Dylan che Saul Bellow e Philip Roth, ma prima di sostenere che i loro siano prodotti culturali intrinsecamente superiori a, chessò, Richard Strauss o Edvard Grieg piuttosto che Stendhal e Vittorio Alfieri ci penserei non due ma mille volte. Società diverse, in momenti diversi, hanno “pagato” gli artisti, i filosofi, i giornalisti, i musicisti in modo molto diverso. E siccome le preferenze sono individuali, ciascuno di loro può avere una diversa idea della moneta con cui desidera essere pagato.

C’è però un elemento di verità, o perlomeno a me sembra, nel discorso di Keen. Soprattutto grazie ad Amazon (Kindle) e a Apple (iPod/iTunes e giornali/iPad) si stanno affermando su Internet anche soluzioni per cui “la qualità si paga”. Questo vuol dire che tutto ciò che non è a pagamento fa schifo, oppure sia destinato a scomparire, perché dal momento che tutti hanno a disposizione tempo in quantità limitata lo dedicheranno solo ai contenuti “premium” per cui sborsano fior di quattrini? O, ancora, ciò che è gratuito sarà ridotto al rango di “assaggino”, per indurre all’acquisto, per esempio, di file audio o video?

Forse la faccenda è un po’ più complessa. Mi pare evidente che, con buona pace dei discografici, non esiste alcun tabù sociale che metta alla pari il donwnload illegale (com’era del resto ieri, con le videocassette copiate) con il furto. Mi pare altrettanto evidente che, con buona pace dei tecnofili, il libro va bene così com’è, non c’è bisogno di trasformarlo in una sorta di raccolta di link, e iniziative come il Kindle abbiano successo proprio perché ci consentono di procurarci in modo più pratico i cari vecchi libri.

Internet ci ha stupiti sin qui, e ci stupirà negli anni a venire. Non sarà tutta gratis, non sarà tutta a pagamento. I contenuti gratuiti, spiega Keen, danno l’impressione che “tutti siano uguali”, avvantaggiano il dilettante rispetto al reputato professionista delle arti e delle lettere. Ma siccome anche per leggere questo blog uno spende del tempo, davvero pensiamo che i lettori non sappiano giudicare e filtrare da sé i contenuti, investendo come meglio credono tempo e denaro?

È curioso che un “autoritario di sinistra”, come si definisce Keen, pensi che solo un prezzo in moneta possa rendere giustizia al valore di un’opera dell’ingegno – soprattutto perché, in tutta evidenza, anche al di fuori di Internet (pensiamo a libri o cd) i prezzi non riflettono solamente il “valore intrinseco” dell’opera, eterna chimera degli apologeti della “classe creativa”.

PS: Seth Godin sceglie di pubblicare in proprio sul web. La qualità che si paga, o la disintermediazione degli editori?

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Manuel Ayau, un uomo di cui non sentirete parlare /2010/08/04/manuel-ayau-un-uomo-di-cui-non-sentirete-parlare/ /2010/08/04/manuel-ayau-un-uomo-di-cui-non-sentirete-parlare/#comments Wed, 04 Aug 2010 18:56:19 +0000 Alberto Mingardi /?p=6713 Difficilmente ne avrete sentito parlare, ma Manuel Ayau (nato il 27 dicembre 1925 e venuto a mancare ieri) è un uomo la cui vita ha avuto un senso. Pochi hanno fatto quanto lui  per la libertà individuale e la scienza economica, nel suo disastrato Guatemala e non solo.
Ayau era un imprenditore ma a partire dagli anni Settanta prese a dedicare una quota sempre più ampia non solo dei suoi averi ma del suo tempo e più in generale delle sue energie a quell’universo di idee caro anche ai lettori di questo blog. Partecipò attivamente ai lavori della Mont Pelerin Society che, prima di Internet, era pressoché l’unico strumento di cui per tenersi in contatto disponeva la piccola comunità di studiosi che a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta gettò le basi della lenta e progressiva “rinascita” del liberalismo classico dopo le due guerre. “Muso”, come lo chiamavano gli amici e tutti coloro che in qualche maniera finivano per sentirlo amico pur avendo avuto scambi episodici con lui, era per molti come per Bob Higgs “un eroe”. Qui qualche cenno biografico e qui il podcast di un bel documentario-conversazione del Liberty Fund. E’ stato uno straordinario “imprenditore intellettuale”, cui dobbiamo (così lo dobbiamo a Ralph Harris, a Jacques Garello, a Leonard Read e a pochissimi, temerari altri) la sopravvivenza delle idee di mercato in una stagione terribile, cui l’ingresso nelle sedi ufficiali del dibattito pubblico era loro interdetto, grazie a delle piccole e agili “istituzioni corsare”.
Ayau ha fatto tantissime cose della vita. E’ stato un uomo d’impresa fra i maggiori del suo Paese, ha fatto il consigliere d’amministrazione di imprese importanti, non si è sottratto all’amaro calice della politica, ha fondato nel 1959 il primo think-tank liberale del suo Paese e dell’America latina (il Centro de Estudios Economico-Sociales) ma la sua grande opera è stata l’Universidad Francisco Marroquin. Una straordinaria università privata, che ha fatto nascere e crescere, con l’obiettivo (raggiunto) di farne un centro di eccellenza in grado di accompagnare il progresso civile del suo Paese. Credo sia l’unica università del mondo dove gli studenti si trovano a passare a fianco di busto di Ludwig von Mises (cui è intitolata la biblioteca) e a uno di Friedrich von Hayek. E’ sicuramente l’unica che pubblica una rivista chiamata “Laissez Faire”. Tutti gli studenti undergraduate, indipendentemente dalla specializzazione, debbono sostenere un corso di economia e uno di “filosofia sociale” (basato sul pensiero politico di Hayek).
Ci sono signori che spergiurano di voler fondare una “università del pensiero liberale” e che potrebbero mantenerne a dozzine, ma al massimo ne parlano il 26 di dicembre di ogni anno, se proprio non c’è di meglio da fare, e palesando una curiosa idea di corpo docente che andrebbe da Tony Blair a Putin.
Muso Ayau è stato un uomo che, con disponibilità immensamente inferiori, ma credendo in qualcosa, una vera “università del pensiero liberale” l’ha costruita – coinvolgendo a vario titolo Friedrich von Hayek, Milton Friedman, Jim Buchanan, Gordon Tullock, Vernon Smith. Lascia un’eredità destinata a fiorire sempre di più, in un Paese non facile, grazie alla sua determinazione, alla sua tenacia, alla sua straordinaria fiducia nella capacità delle idee di cambiare le cose. Gli sia lieve la terra.
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Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/5 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni5/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni5/#comments Mon, 12 Jul 2010 10:34:30 +0000 Alberto Mingardi /?p=6483 Breve secondo giro di tavolo. Pilati è un “ottimista tecnologico” e invita a considerare la televisione non in se stessa, ma rispetto ai suoi competitori per l’attenzione del pubblico (YouTube, etc). Sulla Spagna, segnala come la tv pubblica senza canone abbia fatto bilanci disastrosi, e così pure i privati in un mercato “frammentato” (quello vantato positivamente da Gentiloni): il finanziamento dei contenuti, nel mondo di oggi, spinge ai consolidamenti. Le economie di scala sono molto rilevanti.

Sulle tlc, Pilati sottolinea differenza fra privatizzazione e liberalizzazione. La liberalizzazione del settore ha funzionato bene (pensiamo al mercato della telefonia mobile). Se mancano gli investimenti sulla rete, dipende dal modo in cui Telecom è stata privatizzata: Telecom non è stata in grado di difendere l’asset che aveva ricevuto in eredità dalla SIP (la rete). Il problema di oggi è che dopo aver caricato il debito delle acquisizioni sul patrimonio della società a Telecom mancano risorse. Gli operatori mobili hanno bisogno di risorse trasmissive in quantità maggiore di oggi: serve un riassetto delle frequenze, che ne sposti dal settore televisivo (dove sono usate in modo inefficiente) alla telefonia. Bisogna “aprire il trading delle frequenze” consentendo agli operatori di negoziare i diritti di uso che hanno accumulato nel tempo. Altrimenti si rischia saturazione reti operatori mobili.

Dopo la richiesta di un commento sulle assicurazioni da Bellasio, Pilati nota come l’indennizzo diretto non abbia fatto scendere i prezzi. Per Pilati, il differenziale di prezzo delle polizze con gli altri Paese va spiegato anche alla luce di una lettura del contesto italiano: troppi sinistri, troppa litigiosità, incertezza del diritto, frequenza delle frodi.

Bellasio nota come il PD faccia tutto fuorché incalzare il governo sulle liberalizzazioni.  Sulla tv, Daniele chiede a Gentiloni se non sia stato sbagliato, per la sinistra, evitare sempre il tema di privatizzazione della Rai. Gentiloni risponde che le forze di centro-sinistra hanno “problemi al loro interno”, e cita la vicenda del referendum sulla privatizzazione (cosiddetta) dell’acqua. Dice però che è dalle parti del Governo che le liberalizzazioni sembrano mordere il freno (“manca pure il ministro del ramo”).

Sul mercato del lavoro, Gentiloni sostiene che per salvaguardare il maggiore grado di apertura del lavoro vanno cambiati gli ammortizzatori sociali (per evitare “effetti boomerang” anche sul piano sociale). Evitare il cortocircuito con una forma di “flexecurity”.

Gentiloni è d’accordo con Pilati sul tema delle frequenze, siamo fra i Paesi più avanzati per accesso alla banda larga sul mobile, vanno redistribuite le frequenze ma c’è un “problema di posizione dominante dei grandi soggetti, che vogliono tenersi le frequenze anche se è evidente che oggi non sanno che farsene”. Gli operatori scommettono sull’innovazione, accaparrando frequenze pensando di potere poi andare all’incasso in un secondo momento. Per questo, il sacrificio non lo possono fare solo le tv locali “deve essere fatto a tutti i piani del palazzo dei televisionari”. La sua proposta è quella di un’asta pubblica delle frequenze (e non libero scambio dei diritti d’uso fra operatori, come proponeva Pilati).

Il dibattito è chiuso, Bellasio auspica che ci rivedremo l’anno prossimo “superando la soglia psicologica del 50%”. Come dalle migliori tradizioni italiche, ora si passa al buffet.

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Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/4 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni4/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni4/#comments Mon, 12 Jul 2010 10:14:47 +0000 Alberto Mingardi /?p=6480 Interviene Gentiloni. Gentiloni comincia notando come le liberalizzazioni purtroppo sembrino inattuali: sembra problematica la “prosecuzione di un disegno”, quello dell’apertura dell’economia, che ha coinvolto “prima la destra e poi la sinistra” fra la caduta del muro e l’attentato alle torri gemelle. “Avverto il pericolo che dopo il trionfo delle idee liberali a fine Novecento si inneschi ora una controtendenza”.

Gentiloni è “preoccupato dalla dottrina dell’antimercatismo del nostro ministro dell’economia” che non è “sufficientemente attenuata dai discorsi sull’art.41″ ma pure dal fatto che il leader del Pse all’Europarlamento, Schulz (sì, il “kapò” di Berlusconi), parli di “riscoprire le radici anticapitaliste della sinistra”. Segnala che il governo non ha licenziato la legge annuale sulla concorrenza “idea che non va mitizzata ma neanche fatta cadere”.

Gentiloni ha un punto interrogativo sul tema della tv: la tecnologia ha abbassato le barriere all’entrata, ma non è convinto sulla scelte del benchmark spagnolo. In Spagna, spiega Gentiloni, c’è un mercato frammentato e un operatore pubblico poco pesante, ma una regolamentazione ex ante fortissima.

Sui servizi pubblici locali, Gentiloni segnala come ci sia una sorta di “union sacreé” contro ogni genere di riforma effettiva. Mancano i regolamenti attuativi del decreto Ronchi, c’era stata la rivolta di mezza maggioranza contro il Lanzillotta. Questo perché, dice Gentiloni, evitando la liberalizzazione in un quadro di crescente devoluzione si può finire per consolidare situazioni ibride, che servono a piazzare persone e in alcuni casi ingenerano fenomeni di corruttela. Il fatto che si vada avanti a non fare nulla, per i veti di poteri locali e forze anti-mercato, è grave.  Il risultato potrebbe essere non “meno Stato, più società” ma “più ingerenza pubblica nell’economia e (di conseguenza, aggiungo io) più fattori corruttivi della politica”.

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Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/ 3 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni-3/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni-3/#comments Mon, 12 Jul 2010 09:54:02 +0000 Alberto Mingardi /?p=6478 Stagnaro conclude citando Rahm Emanuel: non bisogna sprecare una buona crisi. Bellasio giustamente sottolinea come purtroppo Emanuel e Obama abbiano approfittato della crisi non certo per andare nella direzione della libertà economica.

Interviene Antonio Pilati. Servizi pubblici locali, gas e tlc sono per Pilati l’ambito su cui rilanciare l’azione liberalizzatrice. Non sono riuscito a sentire tutto l’intervento di Pilati e mi scuso per la sintesi.

Interviene Maurizio Sacconi. Esprime espressamente per il rapporto “che segnala delle strozzature” anche se si può essere in disaccordo sui contenuti delle “liberalizzazioni”.  Siamo condizionati da tre fattori strutturali che rendono difficile crescere: la “condizione del debito sovrano” e la necessità di intervenire sul debito pubblico,  il declino demografico, la contrazione dei consumi interni.  Sacconi: serve meno Stato e più società, in cui c’è anche “più mercato”. Bisogna snellire le strutture dello Stato, e soprattutto evitare che con il pretesto della “ri-regolamentazione” si aumenti la regolamentazione: “è opportuno continuare a parlare di deregolamentazione”. Questa riflessione va fatta a tutti i livelli: il fatto che esista la Calabria non può servire sempre da alibi per le Regioni del Nord (più efficienti, ma solo rispetto al benchmark). Bisogna ridurre la spesa e la spesa liberata va usata per ridurre le tasse. Il cambiamento è necessario perché noi siamo in competizione con democrazie molto più “semplici” della nostra, con Stati più snelli. Pomigliano, continua Sacconi, è un caso di scuola: Fiat non ha chiesto più soldi, ma ha accettato di fare un “patto con la società”. Passare “da più Stato a più società” significa passare da relazioni segnate dall’intervento pubblico, a momenti di cooperazione spontanea fra individui e corpi sociali. “In questo senso Pomigliano fa scuola”. Anche i percorsi del mercato del lavoro non sono necessariamente formalizzabili in forma di legge: si sostanziano fuori da ogni centralismo regolatorio e si sostanziano in una vasta deregolamentazione. Lo stesso Statuto dei Lavoratori potrebbe essere sostituito non da norme di legge ma in parte può essere rimesso alla deregolabilità ed alla adattabilià  delle parti sociali. Il piano triennale per il lavoro che Sacconi presenterà alle parti sociali si intitolerà “Liberare il lavoro per liberare i lavori”. Sacconi chiude con due rilievi: manca la giustizia, nell’Indice (l’eliminazione del patto di quota lite, dice in polemica con le liberalizzazioni di Bersani, porterebbe ad aumento del “contenzioso temerario”). L’incertezza che grava sulla giustizia è forse il principale problema per le imprese. Sulle telecomunicazioni, Sacconi trova l’indice troppo “generoso” – l’osservazione è però rivolta allo stato degli investimenti sulla rete dell’incumbent.

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Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/2 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni2/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni2/#comments Mon, 12 Jul 2010 09:19:43 +0000 Alberto Mingardi /?p=6474 Stagnaro sottolinea come l’Indice si basi sempre su benchmark che non sono Hong Kong o Singapore, ma Paesi europei, che in qualche senso ci somigliano e dai quali è possibile imparare. Gli indicatori su cui viene valutato, rispetto al benchmark, ogni settore censito dall’Indice sono talora di natura qualitativa, talora quantitativi. A partire dai diversi indicatori, si definisce un “indice di liberalizzazione” per i diversi settori.

Questi ambiti dell’economia sono ritenuti rappresentativi dell’economia italiana e da questi quindici settori si arriva a una definizione del “grado di liberalizzazione” della nostra economia. Dodici dei settori censiti sono propriamente valutabili in termini di liberalizzazione (divisi fra settori infrastrutturati e settori non infrastrutturati), tre invece (PA, fisco, mercato del lavoro) fanno parte del quadro giuridico che influenza l’attività di tutte le imprese.

Quali sono i risultati di quest’anno? L’Italia è in parte un Paese dove vi sono assieme mercati “abbastanza” liberalizzati (sopra il 60% del benchmark europeo) e mercati molto poco liberalizzati (sotto il 40% del benchmark). Un esempio di dinamica positiva è il mercato elettrico: il grado di liberalizzazione è andato crescendo dal 2007 al 2010 (quasi +10 punti percentuali rispetto al benchmark britannico). Il mercato elettrico italiano oggi è radicalmente diverso oggi rispetto a prima dell’avvio della liberalizzazione, dieci anni fa.

In altri settori vale il ragionamento opposto. Per esempio il trasporto ferroviario: l’incapacità di risolvere i conflitti d’interesse in capo a Trenitalia, insieme all’aumento dei sussidi a vantaggio dell’impresa pubblica, ha prodotto paradossalmente un decremento della libertà economica nel settore (nonostante sul piano normativo in realtà esistano regole non peggiore che in altri Paesi europei).

Ci sono settori in cui c’è più libertà d’entrata di quanto si creda: i servizi idrici (il peggioramento rispetto al benchmark è dovuto al miglioramento del benchmark stesso). Ci sono settori in cui dovremmo prepararci alla liberalizzazione (i servizi postali: c’è la spada di Damocle di una direttiva europea), ma la classe politica fa lo struzzo…

ps: avete mai notato che Stagnaro ormai parla come un vescovo? (con l’autorevolezza di un vescovo, ma anche con il brio di un vescovo…)

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Ricordate la crisi finanziaria del 33 d.C.? /2010/07/07/ricordate-la-crisi-finanziaria-del-33-d-c/ /2010/07/07/ricordate-la-crisi-finanziaria-del-33-d-c/#comments Wed, 07 Jul 2010 11:23:16 +0000 Guest /?p=6457 Riceviamo da Leonardo Baggiani (IHC) e volentieri pubblichiamo

Sul sito Working Ideas è stato condotto un approfondimento degli Annales di Tacito, storico latino, in quanto richiamati in un discorso di Trichet a Stanford. Oltre a suggerire di leggere questo gustoso articolo, voglio aggiungere qualche riflessione. Trichet trova giustificazione alla politica di quantitative easing e tassi molto bassi della BCE in un’analoga mossa dell’imperatore romano Tiberio. Il passo di Tacito, attualizzato con i termini suggeriti da Trichet stesso suona così: “la distruzione della ricchezza privata provocò il tracollo di onorabilità e reputazione. Alla fine [Governo e Banche Centrali] intervennero in aiuto distribuendo attraverso le banche centinaia di [miliardi] di [euro e dollari], e concedendo la libertà di prendere a prestito senza interessi per tre anni, a patto che i debitori fornissero allo Stato [come collateral] beni fondiari per un valore doppio. La fiducia fu così recuperata, e gradualmente tornarono i prestatori privati”. Perfetto.

Dovremmo però chiederci se le origini della crisi del 33 fossero analoghe a quelle attuali. Andando a ritroso si vede che il dissesto è seguito ad una ondata di vendite di beni fondiari al fine di copertura dei debiti, ma la conseguente svalutazione degli immobili ridusse i possibili recuperi lasciando i più indebitati nell’impossibilità di onorare gli impegni (da qui il dissesto generalizzato ed il “salvataggio” di Tiberio). Tale corsa all’estinzione del debito derivava da una specie di “sanatoria sull’usura”: per legge i prestiti dovevano infatti essere a tasso nullo e coperti da garanzie fondiarie, ma nell’Impero molti, Senatori compresi, avevano prestato “ad usura” cioè con un interesse positivo e magari senza garanzia. Per risolvere il vasto scandalo (già le condanne si sprecavano) fu concesso da Tiberio un anno e mezzo per il rientro dei prestiti ad usura con investimento del recuperato in beni fondiari, pertanto i debitori cercarono come poterono (quelli che poterono) di recuperare i denari liquidando ciò che avevano. Come già detto, le conseguenze delle liquidazioni di massa resero spesso impossibile il recupero delle somme.

Il prestito ad interesse e non garantito era vietato nel 33 d.C. per ragioni di ordine pubblico (“l’usura causa conflitti sociali”, si diceva), per questo il sistema era passato da tassi fissati liberamente tra le controparti, ad un tasso “pubblico” fissato dai Tribuni, fino al tasso zero con copertura fondiaria “inventato” da Cesare. Ma la gente da sempre si ingegna a creare strumenti per replicare ciò che è economicamente giustificato sebbene vietato dalla legge, ed oggi quelle pratiche sarebbero legali perché attualmente l’usura si misura sull’entità dell’interesse, non sulla sua mera esistenza (i ribaltamenti del concetto di usura si susseguono spesso nella storia, come si ricava anche da Hickman).

Trichet richiama la parte finale della cronaca di Tacito per dar ragione alla capacità salvifiche dell’intervento monetario centrale, in grado di costruire nel sistema una fiducia più forte di quanto sarebbe possibile con politiche rigorose tese ad evitare fenomeni di moral hazard. Trichet però non ha ricordato anche che la crisi del 33 derivò sostanzialmente da atti legislativi e giudiziari contro una pratica creditizia, e che questa pratica discende palesemente dalla necessità di aggirare una norma creditizia discriminatoria (tasso zero sì, ma solo a chi avesse terreni): a me pare che l’impianto del diritto di credito di Cesare fosse un sistema per bloccare buona parte della mobilità sociale, e che la soluzione di Tiberio all’illegalità dilagata anche nella società “alta” rimanesse in questa cornice: rientro dei capitali in un ristretto circuito fondiario. Il disastro sociale dovuto all’impossibilità di molti recuperi (il prestito al nulla-tenente, pur giustificato dalle sue capacità di commerciante, non dava possibilità di integrale e immediato rientro) ha “costretto” alla pioggia di sesterzi pubblici con una più intensa concentrazione della proprietà fondiaria. Alla fine Tiberio si è “comprato” una reputazione presso la Roma più “alta” (quella da cui fino a quel momento era costretto a tenersi lontano) riducendo di molto la più giovane “nobiltà” commerciale, i “nuovi ricchi” (eventualmente con un profitto personale in termini di patrimonio immobiliare).

La situazione è paragonabile a quella all’origine dell’ultima crisi? Per certi versi sì, per altri no. Troviamo ancora un avvitamento tra distruzione del credito e svalutazione delle garanzie, fondiarie in entrambi i casi. Il processo giudiziario romano è poi, in qualche modo, assimilabile alla stringenza delle norme di Basilea II (“rientro” obbligato da certe posizioni creditorie in forza di legge allo scattare di alcuni eventi). Ma non c’è lo stesso “grilletto”: se il caso romano suona come una specie di “Tangentopoli” ante litteram (nel caso, “Usuropoleis”), il caso attuale mostra una meccanica più endogena di tipo “austriaco”. Ammesso e non concesso che nel primo caso la creazione di nuova liquidità fosse la cosa opportuna da fare, non ne discende che la soluzione di allora fosse ottimale anche nel mondo attuale. Per dirla tutta, Trichet non completa il passo di Tacito, che in realtà rivela risultati di questo “salvataggio” nel complesso deludenti.

È rilevante in questa comparazione il fatto che la crisi attuale faccia perno su una euforia da “credito facile” a sprezzo del rischio (si vedano i fenomeni Sub-prime e alt-A), mentre mancano elementi per dire lo stesso della crisi del 33; anzi, pretendere un interesse positivo in luogo della mancanza di garanzie (e ancora di più in costanza di queste) indica proprio avversione al rischio e non certo la sua sottovalutazione, oltre che una normale preferenza per la liquidità che solo un’autorità statale può ignorare! Esiste un ulteriore parallelo molto interessante. La vulnerabilità (legale) del sistema romano è dipesa da una risposta individuale alle norme del “tasso zero collateralizzato” che aveva fini di “stabilità sociale”. L’impostazione delle relative norme non è diversa in linea di principio dal caso della “ownership society” americana, dove si è spinto politicamente sul mercato immobiliare sfruttando anche una leva monetaria per inseguire un proposito di natura “sociale”. Per quanto i fini potessero essere (umanamente) lodevoli sia nel I secolo che in questo passaggio tra XX e XXI secolo, è proprio dove si è voluto intervenire “socialmente” che sono scoppiati i problemi maggiori, perché i problemi nascono sempre dal pretendere di far i conti meglio dell’oste.

Nella mia interpretazione la soluzione di Cesare nascondeva in realtà fini molto più “classisti” funzionali al mantenimento di un certo “ordine” sociale, e le mosse di Tiberio era ben più opportuniste e politiche piuttosto che improntate a fini “sociali”. Spero che Trichet, con il suo “non dire”, denunciato anche nell’articolo più sopra richiamato, non volesse richiamare questo doppio-senso. Dietrologie a parte, oggi come nel 33 d.C., le crisi partono da lontano, di solito da forzature in nome del “bene pubblico”, le soluzioni non sono mai pienamente soddisfacenti e hanno sempre una forma inflazionistica, così che sia chi è “in basso” a pagare i vantaggi di chi è “in alto”. Politics as usual, in duemila anni non è cambiato molto.

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Egidio Sterpa: Requiescat in Pace /2010/07/01/egidio-sterpa-requiescat-in-pace/ /2010/07/01/egidio-sterpa-requiescat-in-pace/#comments Thu, 01 Jul 2010 16:40:35 +0000 Carlo Lottieri /?p=6417 Poche ore fa è morto in un ospedale milanese Egidio Sterpa, giornalista e uomo politico, che ha legato il suo nome soprattutto al Giornale di Indro Montanelli – insieme al quale nel 1974 lasciò il Corriere della Sera, in dissenso con la linea progressista di Piero Ottone – e al Partito liberale degli anni Ottanta.

I miei ricordi personali risalgono proprio a quel periodo, quando Sterpa – entro il Partito liberale guidato prima da Valerio Zanone e poi da Renato Altissimo – era il principale interprete di un’opposizione liberal-conservatrice che guardava più a Ronald Reagan che a Beveridge, più a Margaret Thatcher che a Keynes. In quegli anni assai grigi che vedevano il Pli ormai prigioniero di miti vagamente azionisti, impegnato a rincorrere goffamente le posizioni progressiste e radical-chic della sinistra salottiera, quella minoranza liberale provò (senza grande successo) a interpretare una linea culturale realmente anticonformista, nella speranza che potesse rovesciare gli equilibri interni.

Entrato in parlamento quale espressione della comunità informale che in quel periodo leggeva il Giornale e lo portava sottobraccio come un simbolo di appartenenza, all’interno del partito egli propose allora una prospettiva più liberista, più orientata a tutelare la società dallo Stato e a proteggere il mercato da pianificatori e regolatori; e già il fatto di avere tentato tutto ciò depone a suo favore.

C’è un ricordo, tra tutti, che in questo momento s’impone. Ed è legato a una settimana di studi che Sterpa e i suoi amici organizzarono a Spoleto, a metà degli anni Ottanta. Dal 4 all’8 marzo del 1985, infatti, alcuni studenti universitari provenienti da varie parti d’Italia e un gruppo di docenti liberali (Paolo Armaroli, Antonio Martino, Vaclav Belohradsky, Rosario Romeo, Raffaello Franchini, ecc.) si riunirono per riflettere, dialogare, discutere. Nell’Italia di quegli anni i think-tank non esistevano, e nemmeno le Summer School. La politica della Prima Repubblica si nutriva essenzialmente di posti di sottogoverno e spartizioni di potere. Che ci fosse qualcuno interessato alle idee era già, sotto certi punti di vista, un piccolo miracolo.

Di quel seminario ho conservato un piccolo taccuino, e mi piacere trascrivere qui, per i lettori di Chicago-blog, proprio alcune righe degli appunti riguardanti l’intervento iniziale, con cui Sterza aprì i lavori:

Il liberalismo post-socialista è l’emergere dell’individualità dopo decenni di collettivismo (fascismo, socialismo, solidarismo, ecc.). La rivolta contro la previdenza e contro la sanità di Stato sono segni evidentissimi.

Ciò che viene ripensato è il ruolo dello Stato. E, per la prima volta, questi fermenti sono rintracciabili in ogni strato sociale.

Sono parole che dovettero suonare, di fronte a quei ventenni che avevano quasi solo marxisti tra i propri migliori compagni di università, davvero forti e ricche di stimoli. Era insomma una lezione importante.

Più che per le sue cariche pubbliche (parlamentare o ministro) mi piace ricordarlo allora per quelle suggestioni che ebbe l’ardire di indirizzare a un gruppo di ventenni, che simili idee – nell’Italia di allora – avevano ben poche possibilità di incontrare. RIP.

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