CHICAGO BLOG » federalismo http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Il “Contro-Rapporto Monti” dell’IBL: per un’Europa più integrata dal mercato e più aperta al mondo /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/ /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/#comments Thu, 02 Dec 2010 21:16:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=7754 Qualche mese fa, su invito di José Barroso, l’ex commissario europeo Mario Monti ha redatto un rapporto intitolato A new strategy for the single market at the service of Europe’s economy and society , con l’obiettivo di indicare talune linee fondamentali di sviluppo per l’Europa di oggi e di domani.

Il rapporto contiene talune proposte ragionevoli e in particolare auspica una crescita del mercato interno, che faccia saltare le molte e talvolta assai alte barriere che impediscono una piena integrazione tra i vari Paesi dell’Europa a 27 e le loro distinte economie. Ma, al tempo stesso, il testo redatto da Monti contiene argomenti e proposte assai discutibili. In particolare, esso formula una netta difesa di vecchi vizi statalisti europei (specie in tema di welfare) e per giunta esprime una esplicita avversione per la concorrenza istituzionale: soprattutto in materia fiscale.

Per questo motivo l’Istituto Bruno Leoni ha pensato di predisporre una sua interpretazione del “rapporto Monti”, affidando a un gruppo di lavoro internazionale il compito di commentare – capitolo dopo capitolo – tutte le tesi contenute nel testo predisposto dall’economista italiano. Questo lavoro a più mani si intitola Il “Rapporto Monti”: una lettura critica (qui in italiano e qui in inglese) e ha potuto avvalersi del contributo di vari studiosi, italiani e no: Filippo Cavazzoni, Luigi Ceffalo, Luca Fava, Pierre Garello, Carlo Lottieri, Diego Menegon, Alberto Mingardi, Lucia Quaglino, Dalibor Rohac, Josef Sima e Carlo Stagnaro.

Il testo è stato presentato a Bruxelles oggi, 2 dicembre, nel corso di un seminario cui ha partecipato lo stesso Monti. L’obiettivo è stato quello di evidenziare i limiti delle proposte avanzate dall’ex commissario, non sempre coerenti con una visione autenticamente di mercato, sottolineando come la logica dirigista di molte tesi del Rapporto  ostacoli – al di là delle dichiarazioni e delle intenzioni – lo sviluppo di un’economia europea davvero dinamica, integrata e concorrenziale.

I temi essenziali della critica sviluppata dal “contro-rapporto” targato IBL emergono con chiarezza in questo passo, tratto dall’introduzione:

Dietro la riflessione di Monti si vede la proposta di un “grande scambio”: per costruire il mercato interno, gli Stati membri devono dotarsi di sistemi di welfare state sufficienti ad ammortizzare la transizione e sostenere il consenso; perché questo sia possibile, occorre perseguire un grande disegno di armonizzazione fiscale, volto a colpire sia la “concorrenza fiscale” all’interno dell’Ue, sia – a maggior ragione – quella dei “paradisi fiscali”.

L’analisi dell’IBL punta insomma a raccogliere la sfida del “Rapporto Monti”, per valorizzarne gli aspetti positivi, ma anche e soprattutto per sottolineare come un vero mercato non possa essere “unico” (e cioè ristretto alla piccola Europa), non possa basarsi su una tassazione e su una regolamentazione asfissianti (tratti caratteristici del modello welfarista “renano”) e non possa in alcun modo avvantaggiarsi da un’armonizzazione fiscale costruita dall’alto, che riduca quella pressione competitiva che finora ha impedito ai governi europei di espandere in maniera illimitata le loro pretese.

Se infatti le aliquote marginali delle imposte dirette sono significativamente calate un po’ ovunque (dopo che negli anni Settanta erano giunte a livelli altissimi, e non soltanto in Svezia), questo è stato dovuto non tanto a un cambiamento di orientamenti culturali (che pure in parte si è verificato), ma è stato soprattutto conseguente allo sforzo di quei ministri dell’Economia dei vari Paesi europei che hanno fatto il possibile per non perdere tutti i propri contribuenti più importanti. Quando i capitali si muovono e si trasferiscono altrove, che senso ha, infatti, tenere aliquote molto alte, se esse sono ormai prive di una base imponibile? Meglio portare a casa il 45% di 50 che il 90% di 5.

Su questo specifico punto sviluppa una riflessione molto sofisticata un altro lavoro discusso oggi a Bruxelles, anche’esso promosso dall?IBL, e cioè il saggio Tax Competition: A Curse or A Blessing? (qui in inglese, ma qui c’è una sintesi in italiano) di Dalibor Rohac, un giovane e brillante economista slovacco che oggi è un ricercatore del Legatum Institute e che qualche anno fa fu pure a Sestri Levante quale relatore di Mises Seminar organizzato dall’IBL. Avvalendosi della teoria dei giochi, nel suo studio Rohac mostra come un’armonizzazione calata dall’alto blocchi ogni processo di apprendimento e soprattutto ostacoli quel dinamismo degli attori che – sul medio e lungo termine – favorisce l’abbassamento delle aliquote e, in questo modo, aiuta a realizzare una migliore integrazione delle economie.

Un’Europa fiscalmente armonizzata, insomma, è destinata a diventare un vero inferno fiscale. Più di quanto non lo sia già oggi.

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Ciapa là! Lezione dalla Svizzera sui referendum e il fisco. Di Sergio Morisoli /2010/11/29/ciapa-la-lezione-dalla-svizzera-sui-referendum-e-il-fisco-di-sergio-morisoli/ /2010/11/29/ciapa-la-lezione-dalla-svizzera-sui-referendum-e-il-fisco-di-sergio-morisoli/#comments Mon, 29 Nov 2010 12:45:51 +0000 Guest /?p=7721 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Sergio Morisoli:

Ancora una volta, domenica 28 novembre, la democrazia diretta elvetica ha dimostrato tutta la sua efficienza ed efficacia. Sia il banchiere zurighese di Paradeplatz, sia l’ultimo contadino di montagna sperduto in una remota valle alpina (la partecipazione alle urne ha superato il 50%), hanno potuto esprimersi direttamente e senza intermediazioni né partitiche né di rappresentanti politici su due temi importantissimi: il federalismo fiscale e l’espulsione degli stranieri che commettono crimini sul territorio della Confederazione.

I temi in votazione federale necessitano sempre di una doppia maggioranza: quella del popolo e quella dei 26 Cantoni. I cittadini svizzeri hanno rifiutato con un sonoro 58.5% l’iniziativa dei socialisti che intendeva armonizzare i sistemi fiscali dei 26 cantoni introducendo aliquote minime per i cosiddetti ricchi. Questo passo avrebbe minato in un colpo solo: (1) il federalismo fiscale svizzero fatto del 30% di imposte che vanno alla Confederazione e del 70% che rimane ai Cantoni e ai Comuni; (2) la sana concorrenza al ribasso tra le 26 leggi tributarie cantonali; (3) l’attrattività di insediamento in Svizzera per aziende e benestanti; e non da ultimo (4) avrebbe a medio termine esposto l’intera Svizzera a pressioni fiscali armonizzatrici da parte dell’UE, producendo crepe nella sovranità in materia di finanza pubblica. Il cittadino svizzero ha invece nuovamente ribadito che vuole decidere lui sia le spese pubbliche sia la loro copertura. Vuole decidere lui il grado di ridistribuzione che il fisco deve giocare. E vuole decidere lui cosa è fiscalmente equo e ciò che non lo è, senza rigidi e duraturi vincoli di legge. Domenica il cittadino svizzero ha fatto suo il principio che chi paga comanda e chi comanda paga.

Il secondo tema in votazione era l’iniziativa dell’Unione Democratica di Centro, un partito di destra, che voleva l’espulsione diretta dei residenti stranieri che commettono crimini in Svizzera. Va notato che la Svizzera, non lo si ricorda mai, detiene il record europeo quanto a popolazione straniera residente (quasi 1 cittadino su 4). Anche qui il cittadino si è pronunciato con una maggioranza del 53% non per una politica xenofoba, bensì di protezione, ribadendo che il Paese è certamente aperto all’immigrazione, a patto che chi entri in casa si comporti adeguatamente, rispetti la cultura e i valori locali, e contribuisca a costruire il proprio benessere personale e il bene comune. Si noti che il Governo federale aveva proposto un controprogetto di legge che mirava allo stesso scopo, ma sfumando le casistiche di crimine. I cittadini lo hanno semplicemente ignorato, scegliendo la versione originale per la quale erano state raccolte le firme popolari. Il voto popolare dovrà certamente venire corretto tecnicamente dal punto di vista giuridico, ma la politica non potrà non riconoscere il chiaro messaggio uscito dall’urna in materia di residenza e delinquenza.

Il vecchio metodo svizzero di far esprimere su tutto il popolo ha di nuovo smentito chi pensava di scrivere a tavolino le regole di come appropriarsi di mezzi privati; e ha pure smentito chi pensava che le porte da tempo tradizionalmente aperte agli stranieri dovevano rimanere tali sempre e a prescindere dal fatto se chi entra abbia buone o cattive intenzioni.

Sergio Morisoli è economista

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Federalismo fiscale e debito pubblico. Live blogging /2010/11/16/federalismo-fiscale-e-debito-pubblico-live-blogging/ /2010/11/16/federalismo-fiscale-e-debito-pubblico-live-blogging/#comments Tue, 16 Nov 2010 09:43:13 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=7600 Ore 12,30. Finito il primo giro di interventi la parola passa alle repliche dei relatori (5 minuti a testa). Per Reviglio gli immobili sono oggetti complessi e dispersi. Il rischio è quello di fare una colossale svendita. Per Giarda, il federalismo fiscale tratta di questioni semplici (le regioni devono essere assistite dallo Stato?) ma non di tante cose di cui il paese avrebbe bisogno di occuparsi (cosa fare con il nostro Mezzogiorno?). Questi ultimi temi devono essere trattati in modo autonomo. Tutta la discussione sul rapporto tra federalismo fiscale e Mezzogiorno non c’entra niente. Il grande problema del Mezzogiorno è la scuola, ma di scuola se ne occupa lo Stato (cosa c’entra con questo il federalismo fiscale? Il federalismo fiscale avrà rilevanza il giorno in cui daremo la competenza della istruzione alle regioni, ma di questo non si parla). Per Costato, il debito dei giapponesi è finanziato dai giapponesi (in Italia non è così). La tentazione è quella di dividersi i debiti (modello cecoslovacco). Per Franco, molti asset pubblici sono gestiti male. Ci sono margini di buona amministrazione, anche se la strada è quella di avere margini diversi nell’avanzo primario. La crescita è il problema più serio di questo paese, compresa la dimensione delle nostre imprese. A questo si aggiunge una pressione fiscale più alta della media europea e una erogazione dei servizi pubblici non efficiente. Un po’ di regole, che vanno nella direzione auspicata da Ricolfi, già ci sono: ad esempio, il patto di stabilità interno. Il debito commerciale verso fornitori della pubblica amministrazione italiana è di circa 4 punti di PIL. Questo pesa sui conti delle imprese. Per Ricolfi è necessario soffermarsi su un punto: dal suo punto di vista il federalismo fiscale abortirà completamente (tempi lunghissimi – 2018 -, meccanismi poco definiti e farraginosi – sui costi standard non c’è nulla): “l’idea non era cattiva ma si concluderà in un nulla di fatto”. Il federalismo, se attuato in altro modo (con meccanismi automatici), avrebbe avuto attinenza con la crescita e il Mezzogiorno (a differenza di quanto sostenuto dal professor Giarda). Uno degli obiettivi del federalismo – prosegue Ricolfi – è la riduzione della pressione fiscale (e la pressione fiscale influisce sulla crescita). Inoltre il federalismo avrebbe ricadute sulla qualità dei servizi erogati (migliorando quelli offerti nel sud). Per Ricolfi, se Reviglio ha smorzato i nostri entusiasmi in termini di vendita del patrimonio pubblico, la carta che dobbiamo giocare è quella della crescita economica (nonostante da più parti si dica che la descrescita sia la strada maestra da seguire).

Ore 12,15. Intervento di Luca Ricolfi (Università di Torino). “Per Tremonti è di 700 miliardi di euro il patrimonio pubblico vendibile (collocabile sul mercato), ed è rappresentato dal patrimonio ‘fruttifero’. La sua idea è quella di fare un grande patto fra centro e periferia. Il 95% del debito pubblico è in capo allo Stato ma solo 1/3 del patrimonio è detenuto dallo Stato. In questi anni poco però è stato fatto”. Per Ricolfi, “le regioni hanno un patrimonio che è dello stesso ordine di grandezza del loro debito, per le province il patrimonio è 3 volte il proprio debito, per i comuni è 5 volte. Vi è un rapporto inverso fra patrimonio e debito. Gli unici enti che sono in grado di fare qualcosa con il loro patrimonio sono i comuni. Dal centro dovrebbe esserci un obbligo per le amministrazioni con debiti di ripianarli attraverso le dismissioni. Invece nei decreti attuativi si stabiliscono sanzioni solo per i deficit sanitari delle regioni. Noi siamo già nel modello giapponese (stagnazione, debito che non diminuisce, squilibri territoriali). Lo squilibro tra le regioni del nord e il resto del paese è dell’ordine di 50 miliardi di euro (se invece vigesse il principio di corrispondenza, di cui ha parlato il professor Giarda, sarebbe di 83 miliardi). Se l’efficienza dei servizi e l’evasione fiscale fossero omogenei, il nord avrebbe 40 miliardi in più. Se inoltre la spesa discrezionale fosse la medesima si avrebbero altri 10 miliardi (in totale lo squilibrio è di 50 miliardi). Con i 50 miliardi derivanti dagli squilibri territoriali si potrebbe abolire l’Irap e l’Ires. Il grosso del nostro problema è l’evasione fiscale differenziale (su questo punto il federalismo fiscale così come si sta realizzando non interviene) e l’efficienza dei servizi. La frase più frequente che si sente dire è che l’Italia senza il Mezzogiorno fa registrare performance uguali a quelle dei paesi europei più virtuosi e sviluppati. Questo non è vero: anche il nord è già dentro il modello giapponese. Il nord e il sud sono perfettamente allineati sul tasso di crescita. Il problema della crescita economica è spalmato su tutto il territorio nazionale. Dopo le cose che ha detto Reviglio non so come sia possibile risolvere il problema del debito pubblico. Il problema del debito pubblico è la sua vulnerabilità (la fluttuazione del tasso di interesse). Se i tassi dovessero diventare il 7% dovremmo pagare 40 miliardi in più di debito all’anno”.

Ore 12,10. Reviglio conclude affermando che “dalla dismissione del patrimonio pubblico si è fatto molto nel passato, meno si potrà fare nel futuro. Il ‘progetto Guarino’ era molto bello e immaginifico. La sua idea era quella di creare una grande società per azioni. Fu studiata dal Tesoro. Allora non ci furono le condizioni per poterla realizzare”.

Ore 11,55. Intervento di Edoardo Reviglio (Cassa Depositi e Prestiti). “Il riordino del patrimonio deve essere fatto. Sarà un processo di lunga durata. Nei prossimi dieci anni, secondo il FMI, bisognerà tagliare la spesa o aumentare le tasse dell’1% per i prossimi 10 anni per riportare il livello del rapporto debito/PIL nell’Eurozona ai livelli pre-crisi. Per andare in tale direzione, in Italia il patrimonio pubblico può giocare un ruolo importante. In questi anni sono stati venduti parecchi immobili. Il patrimonio è valutato il 140% del PIL (non si conta il patrimonio storico-culturale). Il patrimonio ‘fruttifero’ (partecipazioni, immobili, crediti, ecc.) vale circa 700 miliardi di euro. Per l’80% è in mano agli enti locali. Le partecipazioni dello Stato valgono 70 miliardi (è difficile pensare che lo Stato esca dalle nostre grandi imprese). Dal punto di vista delle privatizzazioni è probabilmente stato fatto quasi tutto. Sono circa 4000 le Spa pubbliche a livello locale (sono valutate circa 17 miliardi). Dalle partecipazioni non potrebbe venire granchè per la riduzione del debito. Gli immobili rappresentano il 41% del totale del patrimonio fruttifero. In tutto ha un valore di mercato pari a 420 miliardi di euro (350 miliardi di proprietà delle amministrazioni territoriali). Circa il 56% del patrimonio immobiliare è in uso dalle amministrazioni pubbliche. Gli enti locali hanno dismesso (nel periodo 2000-2005) un patrimonio immobiliare che ha reso poco più di un miliardo di euro totale. Per quanto riguarda le concessioni (autostrade, aeroporti, porti, ecc.) il flusso di cassa annuale è di circa 2,8 miliardi di euro. Il loro valore attuale è di circa 70 miliardi di euro. Con la vendira dello spettro delle frequenze si potrebbero ottenere soldi importanti. Circa 2,3 miliardi di euro potrebbero essere incassati dallo Stato dalla vendita dello spettro delle frequenze”.

Ore 11,45. Franco prosegue mettendo in evidenza la differenza nella qualità dei servizi. Per quanto riguarda la sanità, i pazienti preferiscono curarsi al centro nord, mentre la spesa corrente pro capite è più elevata al sud. In altri casi i servizi sono meno buoni ma a fronte di una minor spesa. In conclusione, per Franco, “sarà cruciale passare da una spesa storica ai costi standard; accrescere l’autonomia impositiva degli enti territoriali, collegando decisioni di spesa e di prelievo; definire un vincolo di bilancio stringente (evitare trasferimenti ex post). A fianco di tutto questo bisogna rendere più approfonditi e sistematici gli indicatori riguardanti la qualità dei servizi. Una questione aperta riguarda la possibile differenziazione del costo del lavoro nel settore pubblico fra le varie aree del paese”.

Ore 11,30. Intervento di Daniele Franco (Servizio Studi, Banca d’Italia). Franco delinea lo scenario generale: “Il livello debito/PIL è quasi tornato al livello dei primi anni ’90. Dal 1990 al 1994 il debito pubblico ha subito una impennata che lo ha portato dal 95% del PIL ad oltre il 120%. Oggi siamo poco oltre il 115%. Le previsioni dicono che salirà nel 2011 ed avrà una lieve flessione nel 2012. Serve un forte rallentamento della dinamica della spesa primaria. Purtroppo, come sosteneve il professor Giarda, questa è aumentata negli ultimi nove anni del 2% annuo. In uno scenario di crescita del PIL dell’1% annuo la spesa primaria in termini reali dovrebbe scendere del 5% entro il 2016. Le entrate pubbliche di ciascuna regione sono molto differenziate. Come prevedibile, le entrate delle regioni del centro-nord sono molto più elevate di quelle del sud. La spesa pubblica primaria in ciascuna regione è invece più omogenea. Si forniscono gli stessi servizi più o meno in tutte le regioni. Le regioni a statuto speciale sono invece un mondo a parte. Le differenze fra entrate e spesa dicono che ci sono regioni che contribuiscono al salvadanaio comune mentre altre attingono da questo salvadanaio. La Lombardia dà, la Calabria riceve. La spesa pubblica pro-capite è uguale in tutto il paese. Le entrate invece sono molto diverse. L’afflusso netto verso il Sud di risorse intermediate dall’operatore pubblico è pari al 15,6% del prodotto del Mezzogiorno (5,7% in Abruzzo; 23,7% in Calabria); il 3,5 % di quello nazionale”.

Ore 11,20. Il professor Giarda conclude affermando che “in Italia non si attuerà il principio di corrispondenza perchè ci sono forti differenze fra le basi imponibili delle nazioni ricche del nord. L’essenza del federalismo fiscale è che ogni regione debba diventare indipendente dai finanziamenti del centro. Non ci dovrebbero essere più negoziazioni a Roma. La perequazione non dovrebbe avvenire, soprattutto fra i ricchi. Purtroppo le ragioni ricche vogliono essere tutte perequate (ovvero andare a Roma e spartirsi le risorse”.

Ore 11,10. Intervento di Piero Giarda (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano). “Il tasso di crescita della spesa pubblica è stato dello 0% (dal 1990 al 2000). Negli ultimi 9 anni la spesa ha ricominciato a crescere, a un tasso del 2% annuo. Questa è una cosa drammatica. La prima volta che il termine ‘federalismo fiscale’ compare è nella finanziaria attuata dal governo Dini. Da allora l’iter non si è ancora concluso. Il federalismo fiscale ha poco a che fare con il debito pubblico ma invece riguarda i rapporti fra centro e periferia. La prima esigenza riguarda quali beni e servizi devono essere prodotti a livello decentrato. Inoltre, dobbiamo stabilire come si pagano questi beni e servizi. Deve esserci principio di corrispondenza (bisogna fare con quello che si ha). Nel 1907 ogni comune spendeva i soldi che prelevava dai propri cittadini. Questa soluzione arriva fino al 1952. I comuni della Calabria avevano un terzo delle risorse delle regioni del Nord, e spendevano in base alle risorse che raccoglievano (non c’era indebitamento). Nella teora del federalismo fiscale subentra allora il problema della perequazione. Questa può essere fatta in tanti modi. Per la Costituzione italiana lo Stato fissa i livelli essenziali delle prestazioni; inoltre all’art. 118 si parla esplicitamente di perequazione (dare i soldi ai comuni più poveri). Ma la Costituzione non dice se la prequazione debba essere completa oppure no (le differenze vanno eliminate del tutto?). La struttura attuale è il ‘caos’ (non c’è regola nel finanziamento dei comuni). C’è bisogno di un assetto chiaro e stabile. Purtroppo non si può tornare al 1907. I progetti attuali (costi standard) sono roba da centralismo democratico”.

Ore 11,05. Introduzione di Antonio Pilati (Componente, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). “Con i piccoli aggiustamenti anno per anno non si risolvono i problemi del debito pubblico. Occorrono politiche incisive. Ovvero la vendita del patrimonio. Attraverso la vendita di pezzi del patrimonio si potrebbe arrivare a ridurre il debito fino al 60% del debito”.

Ore 11,00. Sempre per Costato, “il rapporto fra PIL e spesa pubblica continua a salire. La spesa pubblica è oltre il 52% del PIL. Gli enti di previdenza costituiscono la spesa maggiore. L’amministrazione pubblica è sostanzialmente uno ‘stipendificio’. Se non si attua il federalismo fiscale subito, la ‘periferia’ è destinata a soccombere. Il centro ha potere di decisione e prevale sempre (per spirito naturale di conservazione). Cosa devono temere gli imprenditori? Le risorse finiranno per essere cannibalizzate (già sta succedendo: tasse, contributi, gabelle di ogni tipo). Come si uscirà dalla crisi del debito? Non seguendo l’esempio del Giappone, nemmeno quello dell’Argentina. Sta di fatto che ‘la nave va’ e la situazione dell’Italia è in continuo peggioramento”.

Ore 10,45. Segue l’introduzione al dibattito da parte di Antonio Costato (Vice-Presidente Confindustria per Federalismo e Autonomie). “Attraverso il riordino della spesa pubblica dobbiamo ridare la speranza al nostro paese. Quattro ragioni per le quali il federalismo è ineludibile: le regioni a statuto ordinario del nord pagano per le inefficienze (esiste una simmetria fra chi dà e chi riceve); le politiche centraliste sono state un fallimento; la fine della contrapposizione fra blocchi ha resuscitato matrici identitarie; la crisi del 2008 per la prima volta ha sottratto reddito ai ceti medi”.

Ore 10,30, si comincia con i saluti di Umberto Quadrino (Consigliere incaricato, Centro Studi Assolombarda). “Il vero problema del federalismo è che siamo a metà del guado (si è cominciato con la riforma Bassanini del ’97, andati avanti con la riforma del titolo V della Costitutizione, i lavori sono tuttora in corso). La conseguenza che si è avuta è l’aumento della spesa delle regioni, a fronte di un potere di ‘presa’ in mano allo Stato. Va bilanciato il potere di spesa e quello impositivo”.

Oggi, 16 novembre, incontro in Assolombarda co-organizzato dall’IBL. Tema del convegno: federalismo fiscale e debito pubblico. Intervengono Daniele Franco (Servizio Studi, Banca d’Italia), Piero Giarda (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), Edoardo Reviglio (Cassa Depositi e Prestiti) e Luca Ricolfi (Università di Torino).
Chicago-blog seguirà in diretta l’evento.

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Voteremo Nord vs Sud (finalmente) – di Mario Unnia /2010/11/06/voteremo-nord-vs-sud-finalmente-%e2%80%93-di-mario-unnia/ /2010/11/06/voteremo-nord-vs-sud-finalmente-%e2%80%93-di-mario-unnia/#comments Sat, 06 Nov 2010 16:57:40 +0000 Guest /?p=7481 Se le cose andranno come sembrano andare, il traballante bipolarismo politico si scioglierà nell’acido del multipolarismo, con effetti sulla governabilità che ci faranno rimpiangere la bassa performance degli ultimi governi. Ma per un bipolarisno che se ne va, un altro si consoliderà e occuperà l’intera scena politica: il bipolarismo socio-territoriale, chiamiamolo così, con un Nord dalle Alpi a Siena e un Sud dall’Alto Lazio in giù, isole comprese.

Alcuni partiti si schiereranno senza equivoci nei campi avversi: Lega, Idv, Sel. Tutto il Sud ha gettato la maschera, fa discorsi di tono autonomista, in Sicilia addirittura separatista, ma in realtà vuole annettere la capitale nel polo meridionalista. I cantori della nazione barricati a Roma avranno un unico ruolo possibile, essere la punta di lancia delle rivendicazioni del Sud che coincidono con le loro, dal momento che la capitale è già  risucchiata nel gorgo meridionale e la sua funzione nazionale convince solo il presidente della Repubblica e parte della sinistra.

Il Terzo Polo, se ci sarà, si attribuirà il ruolo salvifico dell’unità d’Italia, rimediando consensi tra illusi e transumanti. Se non ci sarà, Fini e Casini, emiliani ma romani di elezione, si candideranno separatamente al ruolo di salvatori della patria, riecheggiando appelli ecumenici oltreteverini. I grandi partiti, Pdl e Pd, non si pronunceranno nella contesa Nord vs Sud, la negheranno a metà strizzando però l’occhio ai vecchi elettori per farsi perdonare. Ma il bipolarismo socio-territoriale si manifesterà nelle liste e nell’esito del voto, perché al Nord e al Sud dovranno imbarcare candidati sintonici ai sentimenti polarizzati dei territori.

Insomma, fatte le elezioni potremmo trovarci in parlamento un nuovo bipolarismo, quello Nord Sud trasversale al multipolarismo espresso dalle etichette dei partiti. Vien da dire ‘speriamo che succeda’. Sarebbe un buon funerale della Seconda Repubblica, e la premessa di interessanti evoluzioni.

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Se la Sicilia può dare il buon esempio (una volta tanto…) /2010/10/08/se-la-sicilia-puo-dare-il-buon-esempio-una-volta-tanto%e2%80%a6/ /2010/10/08/se-la-sicilia-puo-dare-il-buon-esempio-una-volta-tanto%e2%80%a6/#comments Fri, 08 Oct 2010 12:32:02 +0000 Luciano Lavecchia /?p=7236 Il nuovo Governo regionale di Raffaele Lombardo (il quarto dalla sua elezione, avvenuta nell’aprile 2008) ha iniziato con una serie di annunci all’insegna dell’austerity: taglio del 10% dell’indennità degli Assessori (circa 4000€ su uno stipendio di 19.000), delle auto blu e soprattutto, la volontà di tagliare le “Province Regionali” e gli enti inutili (che entro 60 giorni verranno identificati e soppressi, dice…);

In tempi di crisi, il taglio della spesa pubblica improduttiva è una priorità nelle agende dei governatori, che vedranno i loro budget decurtati notevolmente nei prossimi anni e il taglio delle Province è da diversi anni sotto i riflettori: giudicate inutili dai più (le competenze principali sono viabilità stradale provinciale e gestione delle scuole superiori), nel tempo non hanno ricevuto competenze aggiuntive rilevanti (la polizia provinciale ad esempio) e i costi stimati dalla loro eliminazione (con ripartizione del personale fra i comuni, i.e. perdita solo degli incarichi politici) sono stati stimati in circa 135 mln per il 2010 dal Ministro Tremonti (che però giudica i risparmi irrisori… invece tagliare l’insegnamento della seconda lingua nei licei è giudicato più produttivo..)  e in 1,9 mld da uno studio di Andrea Giuricin di IBL. Premesso che qualsiasi taglio di spesa improduttiva non può che trovarmi favorevole, rimane da capire se questo è realizzabile politicamente. Può Giulio Tremonti (a.k.a. Voltremont per gli amici www.noisefromamerika.org) mandare a  casa 4207 politici, fra i quali molti appartenenti alla Lega Nord? E la stessa Lega, non aveva forse fatto dell’abolizione delle Province il suo cavallo di battaglia? Fine delle considerazioni “politiche”. Torniamo alla Sicilia: con un PIL che nel 2009 si è contratto del 2,7% (vs. -4,3% del Mezzogiorno e -5% dell’Italia) , 80.000 precari stimati che dipendono dalla P.A., ed il fallimento della gestione dei fondi comunitari per il 2000-2006 , il Governatore Lombardo ha deciso, meritoriamente, di tagliare i rami secchi: lo Statuto della Regione Siciliana, che precede la nascita della Repubblica ed ha rango di legge costituzionale, prevede infatti (fra tante altre chicche) all’art. 15, comma 1, l’abolizione delle province che sono state re-introdotte con una legge ad hoc nel 1986 (Legge regionale n. 9 del 6 Marzo 1986), con l’escamotage di quel “regionale” accanto a “Provincia”.

La Giunta Regionale Siciliana proporrà un disegno di legge che ne determini l’abolizione, trasferendo il personale ai vari comuni e ad appositi consorzi fra i comuni. Da un punto di vista politico, il Governatore ha tutto l’interesse per farlo (i Presidenti delle 3 province più grandi sono tutti suoi oppositori politici) e inoltre potrebbe spendere il buon impegno della Sicilia per intaccare lo stereotipo del Sud parassita. E’ inutile dire, che quale che sia lo scopo politico del Governatore, il successo del caso Sicilia metterebbe in moto un processo nazionale che porterebbe all’abolizione delle province in tutta Italia (confidando nell’orgoglio degli elettori duri e puri della Lega!). Adesso bisogna mantenere l’attenzione sul Presidente Lombardo affinchè onori i suoi impegni, e sui suoi oppositori politici affinchè si assumano la responsabilità politica di voler mantenere un sistema di poltrone che andrebbe eliminato e che, in virtù dei poteri speciali della Regione Siciliana, potrebbe essere fatto senza ricorrere a modifiche della Costituzione.

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Il silenzio sul patto di stabilità europeo /2010/09/28/il-silenzio-sul-patto-di-stabilita-europeo/ /2010/09/28/il-silenzio-sul-patto-di-stabilita-europeo/#comments Tue, 28 Sep 2010 17:23:59 +0000 Oscar Giannino /?p=7161 L’Italia ufficiale ha la testa a quanto domaniaviene in parlamento, dopo due mesi di rodeo che ha dissipato gran parte di quel po’ di credibilità che questo governo aveva conquistato evitando quanto meno all’Italia di finire sulla graticola nella crisi dell’eurodebito. La vicenda non mi appassiona, ho sin qui anche per radio praticamente evitato di occuparmene. E’ un raro ma emblematico caso di totale mancanza di consapevolezza di quali possano essere le serie priorità di un Paese. E, per quanto mi riguarda e qualunque sia la verità sui 40 metri quadri a Montecarlo, mostra che qualunque sia la forma di governo da noi la storia della Fronda francese è un eterno classico, principi  in lotta contro re nella convinzione di dover ereditare il regno, ma a costo di rovinare il regno una volta che si smarrisce il senso delle proporzioni e della misura. Ai nostalgici della Prima Repubblica, ricordo che era l’esatto copione della lotta tra correnti Dc, e che di quella inedia di governo sono figli debito e discredito italiano. Forse è anche per questo, che in Italia stamane solo il 24 ore come giornale finanziario, e la Stampa, dedicavano attenzione all’Ecofin fuor da ristretti articolini nelle pagine di economia. L’Europa non è affato uscita dall’allarme della crisi che ne ha attanagliato significato e futuro da febbraio a maggio, eppure quasi nessuno s’interessa al nuovo Patto di stabilità europeo che dovrebbe fissare le nuove regole comuni per evitare di precipitare nel baratro. Penso sia un grave errore. E non mi convince affatto la posizione assunta dall’Italia. Da mesi abbiamo lasciato qui sulla vetrina del blog un videoeditoriale sul patto di stabilità, in cui sottoloineavo che l’Italia faceva bene a puntare i piedi perché nel calcolo del debito fosse compreso non solo quello pubblico ma anche quello delle famiglie. Detto questo, puntare insieme alla Francia a sanzioni deboli e discrezionali significa non capire quanto debole resti la capacità decisionale della poitica italiana, in asenza di vincoli stringenti, su deficit e debito pubblico.

Prima di entrare nel merito, una semplice questione di metodo. Perché Comuni, Province e Regioni hanno giustamente – dopo molte riottosità- dovuto sottoporsi alle decisioni assunte dal governo in materia di rispetto del patto di stabilità interno, con norme nuove come il rientro coatto del deficit sanitario e il relativo comissariamento, e norme stupide come il divieto ai Comuni virtuosi di riutilizzare nell’esercizio successivo per opere pubbkiche  gli avanzi di bilancio ristornati? Perché o Tremonti faceva così, oppuire la finanza pubblica italiana continuava a fare acqua in periferia malgrado le toppe poste alle paratie dello scafo centralista, e la pressione fiscale elevatissima. La domanda è allora: perché le Autonomie devono ccettarlo dal centro, mentre il governo centrale non deve accttare una disciplina altrettanto ferma e automatica imposta dall’Europa?

Ho due risposte secche. Nel merito, non accettare norme europee di correzione automatica di deficit e debito  è un errore. Nel metodo, penso anche che sia sbagliato, battersi insieme alla Francia contro Germania, Olanda, Regno Unito e BCE a favore del fatto che la discrezionalità delle sanzioni dipenda da maggioranze politiche in sede di Consiglio europeo.

Credo che l’Italia avrebbe dovuto coraggiosamente fare una scelta diversa. Abbracciare l’idea di ssere pronta a far scendere il proprio debito pubblico anche di 3 o 4 punti l’anno come regola standard per diversi anni: avrebbe imposto nuobve dismisisoni di patrimonio pubblico, e operazioni straordinarie sul debitop che sono assoluitamente necessarie oltre che più che possibili, senza ricorrere a finanza creativa. Le operazionidi dismisisone sono le classiche manovre di accompagnamento necessarie a conforto di un cambio di sistema fiscale – come quello comunque in corso atribuendo autonomia impositiva e responsabilità di spesa alle Autonomie – e vieppiù lo sarebbero qualora si andasse a una seria manovra di ridimensionamento delle aloiquote marginalie  e mediane e del totale reale di spesa pubblica sul Pil come noi pensiamo necessario per avere più crescita, più libertà e meno Stato corrotto e corruttore. In più, l’alleanza coi Paesi seri e rigorosi avrebbe levato argomento alle pretese tedesche di essere unico pivot di quest’Europa senz’anima, che con regole deboli resterà ancor più debole e con minor crescita, peggio esposta ai venti del’instabilità e priva ancor più di una politica di stabilità non solo comune, ma, soprrattuto, davvero operante.

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Prima di spostare i ministeri, spostiamo il ministro… /2010/09/17/prima-di-spostare-i-ministeri-spostiamo-il-ministro/ /2010/09/17/prima-di-spostare-i-ministeri-spostiamo-il-ministro/#comments Fri, 17 Sep 2010 06:58:27 +0000 Luciano Lavecchia /?p=7065 Le dichiarazioni del ministro Calderoli possono fare pensare all’ennesima boutade dell’esponente leghista: una volta propone la castrazione chimica per gli stupratori, un’altra volta porta a passeggio dei maiali, oggi propone di spostare i ministeri… domani, leghisti su marte! In tempi di crisi (e quanto dura sta crisi!), c’è bisogno di ridere ogni tanto..

Tralasciando il fatto che un Ministro della Repubblica (italiana…di questi tempi è bene specificarlo) dovrebbe evitare di parlare a sproposito, le sue intenzioni sembrano serie: “La legge che ha stabilito il governo a livello della Capitale, la 33, è del 1871 e parla di “governo centrale” senza precisare, quindi, quali dicasteri dovrebbero essere a livello della Capitale. Ma dato pure per scontato che così sia credo che qualunque legge successiva possa modificare quella legge ordinaria, perchè nulla si dice nella Costituzione». Insomma, Calderoli si è persino informato sul fondamento giuridico delle sue pretese, sintomo che la cosa potrebbe avere seguito (anche se il ministro ha precisato di aver parlato come esponente della Lega Nord, non come ministro). Urge allora fare una riflessione sulle (deliranti) esternazioni del ministro: «Io metterei il ministero dell’Interno a Palermo piuttosto che a Reggio Calabria, quello dell’Ambiente a Napoli, le Finanze a Milano e lo Sviluppo economico a Torino». Forse al ministro sfugge che solo di costi di trasferimento di attrezzature e, soprattutto di personale, questo giochetto costerebbe uno sproposito (e sarebbe interessante calcolarlo prima di fare affermazioni di tale stupidità), a  meno che il ministro non pensi ad un licenziamento di massa dei dipendenti pubblici coinvolti e relativa sostituzione con personale locale (assist per Brunetta!);

Andiamo per ordine: Milano ha un senso logico (l’unico come vedremo), in quanto principale piazza finanziaria del nostro paese; ciò non toglie che non sia possibile (e forse auspicabile) una separazione fra centro di potere politico ed economico, basti pensare a Washington e Wall Street.

Passiamo adesso alle altre proposte: Sviluppo Economico a Torino; certo, c’è la FIAT, avrà pensato il brillante esponente dal sole delle Alpi: peccato che il contribuente italiano abbia dato (e continui a dare), dunque, anche in questo caso, sarebbe meglio evitare. Le ultime due sono esilaranti e dimostrano la (perversa) logica che guida le azioni del ministro, almeno quando pensa al Sud; seguitemi: a Napoli c’è stata (e c’è ancora..) una enorme crisi ambientale derivante dalla cattiva gestione del sistema dei rifiuti e dalle infiltrazioni della Camorra? Allora trasferiamo il Ministero apposito! Sulla scia, quale miglior posto per il Ministero degli Interni della capitale della mafia (Palermo) e della ‘ndrangheta (Reggio Calabria)? Fin qui le proposte del ministro, ma è facile continuare il giochetto e ci permettiamo di suggerirne alcuni: a Messina il Ministero della Salute, Potenza per il Turismo, Lampedusa per gli Esteri e per finire, Coverciano per lo Sport.

Sappiamo tutti qual è l’obiettivo ultimo del Ministro: la  Difesa nella sua Berghem, vicino alle sue care, cammellate ronde padane. Giovani laureati siete avvisati: se conoscete il bergamasco (de hura, però), preparatevi: presto servirà qualcuno per tradurre i documenti ministeriali..

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Il Sud, il federalismo e le cattive abitudini PdL /2010/08/18/il-sud-il-federalismo-e-le-cattive-abitudini-pdl/ /2010/08/18/il-sud-il-federalismo-e-le-cattive-abitudini-pdl/#comments Wed, 18 Aug 2010 11:45:08 +0000 Oscar Giannino /?p=6825 L’attacco ferragostano dell’onorevole Bossi ha avuto il merito di puntare il dito su una verità che finora raccontavano solo i giornali. La verità è che, nella frattura tra Berlusconi e PdL da una parte e Fini e la neonata Futuro e Libertà dall’altra, il Mezzogiorno è il tema decisivo e centrale. Più della giustizia, più delle tasse, più di tutto il resto. Ad alcuni poteva sembrare che fosse suggestione, che si trattasse di esagerazione. Al contrario l’accusa di Bossi – “Fini e si suoi vogliono un po’ di soldi da sprecare al Sud” – conferma che, quando si tratta di indicare alla propria base il problema numero uno della frattura nel centrodestra , è proprio al Sud che ci si riferisce. Tanto che è anche già cominciata la rituale serie di pensosi editoriali di grandi testate d’informazione, che da una parte riconoscono il problema e dall’altro invocano sia i colonnelli di Berlusconi sia quelli di Fini ad evitare una deriva pericolosa: quella, cioè, di una gara improvvisa tra chi più si posiziona davanti all’elettorato del Mezzogiorno invocando la propria primazia, nell’impedire che l’agenda del governo finisca per svantaggiare ulteriormente il Sud. E’ un rischio concreto? Sì che lo è, almeno a mio avviso. Ma, per come si son messe le cose tra PdL e Fini, non credo affatto che si possa risolvere con qualche generico e moralistico appello a moderare i toni. Partiamo da tre dati di fatto. Il primo è che tutti i sondaggi mostrano che la stragrande maggioranza di elettori del Sud hanno la convinzione che in questi anni il Nord abbia avuto la meglio, nelle attenzioni concrete del governo e nelle risorse. E’ vero, non è vero? Non è vero, visto che finora le cose sono ontinuate più o meno esattamente come in passato, Tremonti ha  stretto i cordoni della borsa ma non aveva titolo per cambiare criterio di alocazione delle riorse. Ha dato dei “cialtroni” agli amminitratori del Sud , spreconi e recriminanti, questo sì. Cosa che ha confermato a moltisimi elettori del Sud la falsa mpressione di essere spodestati. E’ purtroppo secondario che di fatto non si cambiato pressoché nulla, quel che conta per delle forze politiche desiderose di contarsi e pesare è che l’elettorato che mirano a rappresentare la pensi così.

Secondo. Da 16 anni la Lega ha saputo vendere al Nord con crescente successo e consenso la convinzione che solo con il federalismo spinto – pur senza mai entrare in particolari e numeri, ciò che solo in realtà fa la differenza – aupicato da Bossi e dai suoi, il Nord riequilibra a proprio vantaggio l’eccesso di risorse che dà allo Stato rispetto a quelle che si vede tornare indietro, pur spendendo in media meno e meglio. Rispetto a questo, in 16 anni nel Sud il consenso elettorale, alle politiche come per le Autonomie, ha visto le diverse componenti tanto della sinistra quanto della destra ripetere in realtà – al di là del colore delle bandiere – esattamente la stessa cosa. E cioè che, appunto, quello a sé era il miglior voto per equilibrare quello dato al Nord alla Lega. Gli elettori del Sud pensano la Lega sia debordante nel centrodestra non tanto perché neghino gli aiuti finanziari straordinari che in realtà Tremonti ha autorizzato solo in casi eccezionali nel Mezzogiorno, ma perché se lo son sentiti ripetere da anni in primis dai candidati alle elezioni dello stesso PdL

E’ da questi due dati di fatto, che deriva il terzo. Se rottura finale dovesse essere tra Berlusconi e Fini, come i toni sembrano sin qui continuare a indicare, allora è ovvio che a essere in condizione di avvantaggiarsi della cosa alle elezioni, presto o tardi che siano, sono proprio Bossi da una parte al Nord, e al Sud Fini e i suoi, seguaci e futuri alleati.

Sono Berlusconi e il PdL, nelle condizioni attuali, a rimetterci di più. Bossi al Nord avrebbe buon gioco a dire agli elettori di centrodestra che è meglio votare direttamente Lega, visto che in caso contrario il federalismo vien promesso vien promesso, ma poi di fatto ancora una volta come sempre non arriva mai. Al Sud. a Fini a quel punto converrebbe far AntiLega con Lombardo e Micciché e, aggiungo, con tutte le Poli Bortone inascoltate dai colonnelli PdL, e che se sinora sembrano più vicine a Berlusconi è sol perché da quella posizione – sulla carta, la più forte – si è poi in migliori condizioni, per trattare poi al momento buono gli sviluppi più convenienti. Un PdL che non portasse a casa i premi di maggioranza in Sicilia e anche solo poco più che in Sicilia, nel resto del Mezzogiorno, con la Lega in crescita ulteriore al Nord comunque al Senato non avrebbe la maggioranza, con l’attuale legge elettorale.

Per evitare questo rischio, meglio sarebbe stato se Berlusconi e la Pdl negli anni scorsi avessero parlato al Mezzogiorno una lingua chiara e univoca. Capace cioè di ammettere che nel Mezzogiorno in media c’è un eccesso di spesa pubblica discrezionale, e cioè acquisti stipendi e sussidi dove il rapporto tra Sud e Nord è di 125 a 100, perché la politica ha preferito moltiplicare i redditi indotti dal settore pubblico, alla ricerca di voti. Ma altresì aggiugendo che in ogni caso c’è Sud e Sud, visto che sommando tutte le componenti Puglia e Campania figurano più tra tre le creditrici che le debitrici rispetto a Calabria, Basilicata e Sicilia dove il riequilibrio è inevitabile e deve essere pure molto energico. E, infine, ribadendo come garanzia agli elettori che l’orizzonte temporale della convergenza verso la virtù sarebbe stato adeguato: diciamo da 5 ma anche fino 10 anni, per chi vi è più distante come Calabria e Sicilia.

Difficile immaginare che, essendo mancata questa chiarezza per 16 anni, venga proprio ora e sia scritta nel punto “Mezzogiorno” che Berlusconi ha ormai pronto, da sottoporre a Fini prima che, a inizio settembre, l’annuncio ormai scontato di un partito nuovo diventi anche la tomba della maggioranza. Per questo continuo a pensare che se Berlusconi non ha già deciso comunque di provare la via elettorale, allora non solo sul Sud dovrà indicare impegni il più possibile precisi – il punto non sono gli 80 miliardi fondi FAS e di coesione europea di cui si occupa Fitto e che bisogna sperare vengano sbloccati su poche priorità vere condivise dalle Regioni che hanno potre di veto, invece che su mille progettoi inutili, il punto sono i numeri del federalismo che sin qui mancano nei decreti attuativi della delega -  ma soprattutto dovrà anche essere disposto a concedere che sia un esponente finiano, a rappresentare quegli impegni nell’agenda, nella composizione e nelle attribuzioni del governo stesso.

Per me, sbaglierò ma resta del tutto improbabile. In quel caso, comunque la pensiate su Fini rispetto al patto elettorale sottoscxritto due anni fa con gli elettori, il PdL può però prendersela solo con se stesso.

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Non esiste il porto sicuro per Tirrenia… /2010/08/04/non-esiste-il-porto-sicuro-per-tirrenia/ /2010/08/04/non-esiste-il-porto-sicuro-per-tirrenia/#comments Wed, 04 Aug 2010 07:10:17 +0000 Luciano Lavecchia /?p=6708 Avevamo gia’ scritto del rischio potenziale che Tirrenia divenisse una nuova “Alitalia”. La convenienza nell’acquistare un carrozzone pubblico con navi sgangherate e con 520 mln di debiti sta tutta nei sussidi promessi dallo Stato, ossia, nelle nostre tasse.

La cordata Mediterranea Holding, capeggiata dalla Regione Siciliana con il 37%,  si e’ aggiudicata la gara, anche perche’ era rimasta l’unica,  per la cifra, neanche tanto simbolica, di 25 mln di euro; gia’ il fatto che un imprenditore paghi per 25 quello che poteva avere per 10 mette in allarme ma si sa, la Regione Siciliana e’ prodiga verso i suoi figli migliori…

Delle 16 offerte iniziali, alcune da importanti competitors di Tirrenia come Grandi Navi Veloci, Moby, Grimaldi e Corsica Sardinia, ha vinto la piu improbabile, quella a guida Regione,  con l’ausilio dell’attivissimo Fondo CAPE (gia’ impegnato sul tavolo di Termini Imerese). In molti casi l’interesse era solo per Tirrenia e non per la controllata Siremar, che gestisce il traffico fra le isole minori della Sicilia, giudicata come non strategica (e, a sentir qualcuno, ricca di spiacevoli sorprese). D’altra parte, mentre le altre tre societa’ regionali, Caremar, Saremar e Toremar, il 24 novembre 2009 sono passate, a titolo gratuito, alle rispettive Regioni (Campania, Sardegna e Toscana), la Siremar era rimasta incomprensibilmente alla Tirrenia.

Nonostante le rassicurazioni da parte del Governatore Lombardo sul ruolo imparziale della Regione (fondamentale garanzia da parte di un ente che ha piu’ dirigenti che uscieri), permane qualche dubbio sull fatto che “La Regione, in questa operazione, non guadagna e non perde perché il rischio d’impresa è tutto sui privati, a tutela del patrimonio della Sicilia” (il corsetto e’ dello stesso Governatore) . Oltretutto e’ difficile comprendere il ruolo di arbitro super partes (qualora potesse mai avere senso..) della Regione se la prima richiesta della Giunta Lombardo e’ di spostare la sede di Tirrenia da Napoli a Palermo (come se la FIAT trovasse maggior giovamento dallo spostar l’ufficio di Marchionne a Pomigliano o Melfi). Non sappiamo come andra’ a finire tutta la vicenda ma e’ possibile fare una serie di previsioni:

1) i contribuenti, come sempre, pagheranno di più’ li dove sarebbe stato possibile risparmiare;

2) al di la’ dei sogni di gloria del Governatore Lombardo, Tirrenia dovra’ affrontare una dura stagione di sacrifici per essere rilanciata;

3) pur dubitando delle capacita’ tecniche e manageriali dei dirigenti regionali siciliani, e’ probabile un’esplosione di commodori, ammiragli e contrammiragli.

Si prospettano tempi duri per i mozzi e i marinai della Tirrenia..

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Le motivazioni politiche dell’abolizione della Corrida /2010/07/31/le-motivazioni-politiche-dell%e2%80%99abolizione-della-corrida/ /2010/07/31/le-motivazioni-politiche-dell%e2%80%99abolizione-della-corrida/#comments Sat, 31 Jul 2010 07:39:22 +0000 Andrea Giuricin /?p=6680 La decisione storica di vietare la corrida in Catalogna è arrivata lo scorso mercoledi, dopo un dibattito molto acceso. La legge prevede che dal primo gennaio del 2012 non sarà più possibile effettuare questa manifestazione in alcuna arena della regione Spagnola. La domanda che ci si può porre è quella se sia giusto che sia lo Stato a dover vietare una manifestazione, seppur cruenta. In questo modo si toglie libertà di scelta alle persone che ritengono questa manifestazione un evento tradizionale. Ma in realtà la decisione è una pura< manovra politica in vista delle prossime consultazioni regionali.

Le votazioni si sono terminate con 68 voti a favore, 55 contrari e tre astensioni e i principali partiti catalani hanno lasciato libertá di voto.

Davanti al Parlamento della Catalogna si sono affrontati i favorevoli ed i contrari all’abolizione. La principale critica a questa manifestazione era di torturare i tori, mentre i contrari all’abolizione volevano la libertá di scelta di poter assistere ad una “festa tradizionale”.

La domanda che ci si può porre è quella se sia giusto che sia lo Stato a dover vietare una manifestazione, seppur cruenta. In questo modo si toglie libertà di scelta alle persone che ritengono questa manifestazione un evento tradizionale.

Se la società catalana non voleva più le corride, forse molto semplicemente non avrebbe più riempito le arene. È così è stato, perché negli ultimi anni vi è stata una disaffezione a questa manifestazione. Nel 1977 ha chiuso l’Arena dei Tori in Piazza di Spagna a Barcellona, cittá nelle quali rimane attivo solo il Monumental.

Vi è stato un’altra Regione nella quale le corride sono state vietate, le Canarie. Nell’arcipelago tuttavia il dibattito è stato molto meno acceso, perché la manifestazione già non si svolgeva da nove anni, prima di vietarla per legge.

In Catalogna la tendenza era di un lento declino della manifestazione, ma il Parlamento è voluto intervenire direttamente.

Vi è tuttavia un perché politico a questo interventismo. Il rapporto tra Spagna e Catalogna è molto teso negli ultimi mesi, soprattutto dopo il “no” a diversi articoli dello Statuto Catalano da parte del Tribunale Costituzionale spagnolo.

L’indipendentismo è sempre più forte nella Regione dove si produce circa il 20 per cento della ricchezza nazionale in termini di prodotto interno lordo. Tuttavia la maggioranza della popolazione richiede maggiore autonomia e un Federalismo con più funzioni decentrate.

E durante il voto per l’abolizione della corrida è uscita questa voglia di rivalsa contro la Spagna. La corrida è vista infatti un simbolo della nazione spagnola e l’abolizione serve a dimostrare la diversità della Catalogna.

Vi sono due motivazioni per caratterizzare questo voto come totalmente politico.

In primo luogo la divisione dei partiti al momento del voto. La Catalogna è ora guidata da una coalizione di tre partiti di sinistra: il Partito Socialista Catalano (PSC) e due partiti di sinistra indipendentisti. Il Partito Popolare è all’opposizione ed ha una base di votanti molto limitata, mentre la vera opposizione è invece del CIU, Convergenza e Unione, un partito di centro-destra nazionalista (catalano).

Il voto ha tagliato l’attuale maggioranza di Governo e si è strutturato secondo uno schema nazionalista. A favore dell’abolizione hanno votato il CIU e i due partiti di sinistra catalani, mentre il PP e il PSC hanno detto no. I partiti nazionalisti hanno affermato che la decisione serviva solo a fermare “una barbaria”, senza mai dire direttamente che volevano eliminare un simbolo spagnolo.

Tuttavia la riconferma di questa volontà di affermare il “Catalanismo” e di eliminare un simbolo della Spagna unitaria arriva da una particolarità della legge. In Catalogna esiste una manifestazione che si chiama “Correbous”, nella quale si da’ fuoco alle corna del toro che corre nell’arena. Questa “festa” catalana non ha ricevuto alcun divieto, pur provocando la cecità del toro e potrà continuare indisturbata.

L’abolizionismo della corrida è dunque una manovra politica in vista delle elezioni regionali che si terranno il prossimo autunno.

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