CHICAGO BLOG » export http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Allarme giallo: inflazione cinese! /2010/12/02/allarme-giallo-inflazione-cinese/ /2010/12/02/allarme-giallo-inflazione-cinese/#comments Thu, 02 Dec 2010 16:00:47 +0000 Leonardo Baggiani /?p=7747 Cavolo, era l’ora! Finalmente la Cina comincia a sperimentare un po’ di volgarmente detta “inflazione”, cioè rialzo dei prezzi al consumo. Il mio “finalmente” non significa che io sperassi che accadesse, ma solo che si tratta di uno sviluppo delle macro-variabili che mi aspettavo già da tempo come inevitabile segnale di squilibri monetari – e non solo – conseguenti a certa politica monetaria.

Prezzi al consumo a +4,4% ad ottobre, trainati da un +10% dell’alimentare (con prodotti saliti anche di un 50% in un anno). La tendenza è talmente forte che la Banca Centrale cinese (PBoC) sta mettendo mano un po’ a tutti gli strumenti che ha per contenere il fenomeno.

Ma questa “inflazione cinese” cosa significa per il mondo?

 

Sicuramente ci sarà qualcuno che salterà di gioia per un cinese che comincia a chiedersi come comprarsi la sua ciotolina di riso, dopo che quel cinese (sempre secondo quel qualcuno) gli ha rubato il lavoro. No, non c’è molto di cui gioire, perché la PBoC cerca di frenare questo fenomeno e per ora usa i mezzi “convenzionali” che sono rialzo dei tassi, rialzo della riserva obbligatoria, e interventi sul mercato, e come disse Napoleone “quando la Cina si alzerà, il mondo tremerà”.

Poniamo che il problema perduri, e con esso la risposta restrittiva della PBoC. Questo al contempo rallenterà anche l’economia cinese, il che significa il ridimensionamento di un mercato di sbocco alcuni esportatori occidentali, il che a catena si ripercuote verso coloro che esportano verso quest’ultimi. Prezzi più alti in Cina non possono che ricadere anche sui prezzi della sua produzione e del suo export, ed a meno che gli esportatori non decidano di contrarre i propri margini di guadagno per evitare nuovi concorrenti (e qui è svolta un’analisi che non fa sperare in tal senso) gli occidentali vedranno salire i prezzi di molti molti prodotti (anche quelli su cui, in forza di ridicole leggi, possiamo leggere “made in Italy”). Assieme a questo va considerato che, nella misura in cui i maggiori prezzi al consumo non potranno venir in qualche modo scaricati sull’occidente, la Cina potrà veder contrarsi il proprio tasso di risparmio, il che si traduce in una riduzione del supporto che la stessa può dare ai debiti pubblici occidentali (USA in primis, ma in maniera crescente i “periferici” UEM).

In questo momento non è una buona notizia la montante dinamica sui prezzi al consumo cinesi. In un sistema economico mondiale correttamente funzionante ce ne saremmo sbattuti, perché fenomeni di persistente crescita dei prezzi non potrebbero accadere se non dietro una giustificazione reale ben visibile (nel caso: scarsità improvvisa di materie prime, industriali o alimentari che siano), quindi o si è di fronte a shock che più che giustificano certi movimenti, o semplicemente non c’è ragione perché si verifichino; al massimo possono essere shock “locali”, nel qual caso si avrebbe semplicemente una riorganizzazione a livello mondiale della produzione. Nel mondo attuale invece è un bel problema, perché che lo si voglia o no gli USA sono in panne, gli emergenti sono un motore insufficiente e tutto sommato ancora fragile per l’economia mondiale, la UE si regge su una Germania che si regge sull’export, e in buona parte la Cina è sia produttivamente il motore mondiale, che finanziariamente il sottoscrittore di ultima istanza.

Smesso di ridere?

 

La cosa veramente brutta è che a questa situazione si doveva comunque arrivare.

A lungo la Cina ha sfruttato al difficoltà americana che ha portato la “stampa” di crescenti quantità di dollari, rispondendo con una altrettanto crescente offerta di yuan, così da tenere il tasso di cambio più o meno fermo; questo ha aiutato moltissimo l’export cinese, facendo accumulare risparmio cinese che è diventato finanziamento agli “spendaccioni” USA. Cioè: la Cina ha effettivamente partecipato all’inflazionismo mondiale, e la grossa quantità di yuan messi in circolazione doveva aver prima o poi effetto sui prezzi cinesi. Inoltre, una Cina che si “gonfia” grazie all’inflazionismo americano, e si “rigonfia” grazie al proprio inflazionismo, è sempre un Paese importante che pesa sul mercato delle materie prime, e questo prima o poi doveva venir fuori.

A ciclo rivoltato si è risposto con il Quantitative Easing. Come detto molte volte, la natura reale della crisi ciclica non permette la sua risoluzione per via monetaria, quindi il Quantitative Easing si è sfogato non nella creazione di credito (si veda qui), ma solo come “gonfiamento” di alcuni settori (titoli pubblici, derivati su commodity) e prevenendo lo sgonfiamento di altri; questo sì sul mercato USA, ma in misura sempre crescente anche sui mercati emergenti, gli unici che sembrano dare una qualche “speranza” di supporto reale ai corsi crescenti.

Il grado di inflazionismo indotto dagli USA (che possono farlo perché il dollaro non ha certo lo status del rand) è diventato tale che ormai gli emergenti (e chissà, forse pure la UE) stanno cercando di frenarne le conseguenze come possono. Tra questi c’è, chiaramente, la Cina. Ma ormai il danno è stato fatto, la liquidità è stata creata ed è in circolazione, e da qualche parte deve sfogarsi. Era solo questione di tempo (amico, se vuoi ridere qui all’idiozia monetaria, hai ragione).

 

Ritengo che finora la Cina abbia potuto sfruttare tali tassi di crescita, permessi dalla sua disponibilità di lavoro, da contrastare più o meno in via “naturale” una naturale tendenza al rialzo dei prezzi dovuta alla crescente massa di mezzi di pagamento (moneta e credito) in circolazione. Il Paese era cioè inflazionato, ma la crescita dell’offerta di beni andava più o meno pari passu. La crescita non è più a due cifre, e benché la Cina disponga sempre di una discreta riserva di lavoratori, è naturale che il suo crescente sfruttamento comporti sia costi marginali crescenti (stipendi, nel caso), sia l’entrare in gioco primo o poi della legge dei rendimenti marginali decrescenti (del lavoro e del capitale).

D’altra parte se il problema non è prettamente monetario non può venir risolto chiudendo un po’ il rubinetto. Lo stimolo monetario su cui la Cina ha costruito il proprio slancio (e altri o la propria forza o una presunta lotta alle forze depressive) porta anche a distorsioni nella struttura produttiva, in qualche modo rafforzando gli stadi più vicini al consumo e portando allo smantellamento dei quelli più lontani che però avrebbero costituito le basi della crescita futura. Anche questo alla fine incide sulle macro-variabili di interesse.

Adesso non è facile che l’economia rallenti da sola, perché la liquidità dall’esterno arriva, la domanda dai soliti importatori c’è sempre, e l’inflazionismo, come insegnava già Wicksell 112 anni fa, crea un ciclo vizioso che si autoalimenta. La PBoC reagisce imponendo controlli sui movimenti dei capitali ed alzando tassi e riserve bancarie così da ridurre sia il moltiplicatore monetario che la base su cui questo si piramida. Temo che non servirà; non per nulla già si parla di provvedimenti “fiscali” (stoccaggi pubblici e calmieratori dei prezzi) che danno la misura, secondo me, della gravità della situazione.

 

Il capolinea, che è la fase discendente di un ciclo cinese di cui la crescita dei prezzi al consumo è il prodromo da manuale di Austrian Business Cycle, è inevitabile. Il problema è che emerga adesso che l’economia mondiale non è ancora veramente impostata alla ripresa, ma tiri a campare su una serie di colossali flebo. Forse la Cina potrà metterci una temporanea toppa spingendo la globalization II, cioè la delocalizzazione in Africa, così da creare nuovi centri di produzione a prezzi sempre bassi. La speranza è che questo permetta di “scollinare” il downturn cinese (e il Double Dip mondiale).

La speranza più grande è però che io mi sia sbagliato e questa fiammatina dei prezzi cinesi non significhi nulla.

]]>
/2010/12/02/allarme-giallo-inflazione-cinese/feed/ 2
Euro debole = illusione occupati /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/ /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/#comments Tue, 16 Nov 2010 19:04:18 +0000 Oscar Giannino /?p=7620 L’Europa è di nuovo piegata su se stessa nel tentativo di evitare la crisi dell’eurodebito. In molti tra coloro che in Italia lavorano per l’export almeno si consolano, all’idea che l’euro si deprezzi riscendendo verso quota 1,3 sul dollaro invece che verso 1,5. In realtà, la gara a deprezzare le valute è la vera guerra in corso tra dollaro e yuan, e l’euro rischia di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro. Detto questo, chi qui scrive trova invece apprezzabile che sempre più numerose voci europee si levino polemicamente rilevando che non rende un servizio a nessuno, la FED, artificiosamente deprimendo il corso del dollaro e i rendimenti decennali del debito pubblico americano, con la sua politica eterodossa di acquisiti di titoli sul mercato e cioè attraverso la monetizzazione del debito, come avveniva in Italia prima che via Nazionale e Tesoro divorziasssero, sancendo la piena autonomia della banca centrale dalle tendenze deficiste della politica. La vera risposta a chi consiglia sempre il deprezzamento della moneta per difendere l’occupazione sul mercato domestico sta proprio nell’andamento dell’economia americana.

E’ il nocciolo della politica praticata da Obama e Bernanke, secondo i quali un dollaro debole aiuta a ridurre la disoccupazione USA, che nel suo aggregato ristretto è al 9,6% e in quello allargato, comprendente cioè gli “scoraggiati” a diverso titolo, sale al 16% e oltre. Tuttavia, è un assunto fallace.

Nigel Gault, chief economist al desk americano di Global Insight, ha rielaborato la relazione tra andamento del dollaro e occupati nell’ultimo decennio. Dal 2001, il dollaro ha visto il suo valore deprezzarsi del 31% rispetto a un basket comprendente le cinque maggiori valute nel commercio mondiale. L’export americano negli stessi anni è aumentato del 45%. Ma l’occupazione manifatturiera americana è diminuita negli stessi anni di un terzo, scendendo da 16,4 a 11,7 milioni. Se ci fermiamo all’ultimo trimestre cioè agli effetti sul breve, da giugno a settembre il dollaro è sceso del 10% rispetto alle stesse valute, e l’export americano a settembre è salito dello 0,3%, al livello più alto nell’ultimo biennio. Ma la disoccupazione non diminuisce.

Per almeno due ordini di ragioni. La prima che l’export dei Paesi avanzati verso i Paesi che “tirano”, Cina e Asia innanzitutto, è soprattutto ad alto valore aggiunto, e dunque prodotta laddove macchine, automazione e tecnologie inevitabilmente continueranno a sostituire intensità di lavoro umano. La seconda ragione è che più aumenta l’export in quei Paesi più aumenta il totale di occupati delle imprese esportatrici in quei Paesi stessi: assai più che nei mercato domestici in cui le imprese esportatrici sono radicate. Secondo le cifre elaborate dall’United States Bureau of Economic Analysis il totale dei dipendenti all’estero delle aziende americane esportatrici è più che raddoppiato, negli anni 1998-2008 con l’ingresso della Cina nel WTO, passando da 5 a 10,5 milioni. Occupare dipendenti in Paesi a basso costo del lavoro aiuta a realizzare margini che son più che mai preziosi per investire di più nella qualità di innovazioni, processi e prodotti che vengono “pensati” e sperimentati nei paesi avanzati di provenienza. E più il processo diventa esteso e radicato, meno ovviamente sui bilanci aziendali incide il fattore valutario sulla competitività complessiva delle ragioni di scambio.

E’ esattamente lo stesso fenomeno avvenuto su scala europea per le grandi imprese tedesche delocalizzando nell’Est europeo non appartenente all’euro, a inizio degli anni 2000. Oggi come oggi, per BMW o Mercedes e Audi che hanno triplicato la loro produzione locale in Cina, il fattore cambio dell’euro è praticamente del tutto indifferente rispetto agli enormi margini che realizzano con oltre 500mila vetture di classe elevata vendute su quel mercato nel 2010.

Se tutto ciò è vero per l’economia USA, dove il 65% della crescita viene dalla domanda interna e solo un terzo dall’export, è a maggior ragione vero per noi, dove avviene l’esatto opposto. Chi si augura un euro debole per esportare meglio ha ragione nel breve, basta che sia chiaro che con l’occupazione l’effetto cambio c’entra poco o nulla: per quella serve essere più produttivi, non artifici monetari che nel mondo globalizzato servono più che altro da maschere agli alti debiti pubblici dei governi. Maschere che del resto non reggono più, in America come in Europa.

]]>
/2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/feed/ 7