CHICAGO BLOG » energia http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Chi il rigassificatore ferisce, di inedia perisce… /2010/12/20/chi-il-rigassificatore-ferisce-di-inedia-perisce%e2%80%a6/ /2010/12/20/chi-il-rigassificatore-ferisce-di-inedia-perisce%e2%80%a6/#comments Mon, 20 Dec 2010 22:44:59 +0000 Luciano Lavecchia /?p=7874 di Carlo Stagnaro e Luciano Lavecchia

Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso del Comune di Agrigento contro il progetto del Rigassificatore di Porto Empedocle, un progetto che risale a 6 anni fa, che prevede una capacità di 8 mld di m3, e investimenti per 650 mln. Il rigassificatore peraltro insiste sul territorio di comune diverso da Agrigento, Porto Empedocle, favorevole all’iniziativa, insieme al Ministero dell’Ambiente e la Regione Siciliana. Il sindaco di Agrigento, supportato da organizzazioni ambientaliste assortite e dalla consueta carovana del “no”, lamenta il mancato coinvolgimento nella Conferenza dei Servizi della sua Amministrazione. Insomma, più che un esempio di NIMBY (not-in-my-backyard) siamo davanti ad un caso di BANANA (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything), ove un’opera infrastrutturale di respiro nazionale (il gas costituisce il 38% dell’energia primaria consumata in Italia nel 2009), con tempi di approvazione biblici (sei anni!), riceve l’autorizzazione (la Valutazione d’Impatto Ambientale – VIA) dagli enti locali coinvolti, ma viene bloccata per le bizze di un Comune vicino. A color che opporranno che Agrigento è effettivamente prossima a Porto Empedocle, e che un rigassificatore è un impianto che coinvolge un’area ampia, rispondiamo che se ogni opera infrastrutturale deve richiedere il parere di ogni stakeholder, e del vicino di ogni stakeholder, e del vicino del vicino, e di suo cugino e degli amici del cugino, si capisce perché questo paese è 157 nella categoria “enforcing contracts” (su 183 paesi) della Survey Doing Business della World Bank (per il 2011). Va da sé che, considerando i tempi geologici, c’erano tutte le possibilità per ascoltare, senza avere necessari mante il sindaco presente, gli interessi dei cittadini di Agrigento (e anche quelli di Palermo, Catania, Napoli, Roma, Milano e Londra, già che ci siamo..) Al danno (per il Paese) la beffa (per il territorio): oltre alle ricadute occupazionali (500 operai previsti a regime), ENEL – titolare dell’investimento – prevedeva opere compensative per 50 mln di euro, fra le quali un nuovo molo per navi da crociera, riqualificazione dell’illuminazione della Valle dei Templi e disponibilità gratuita di acqua potabile ed industriale per tutto il territorio agrigentino (un’area dove al 2011 vi sono ancora comuni che ricevono l’acqua ogni 4 giorni! – ne abbiamo già parlato e ne parleremo ancora) e royalties annue da 2 mln per il Comune e 2,5 per la Regione. Insomma, ricadute più che positive per una Regione in affanno. Eppure, davanti al rispetto per i sacri confini della Patria e l’ambiente, nulla regge, niente può corrompere le candide anime dei nuovi luddisti. Oltretutto la Sicilia non è nuova nell’opposizione ai rigassificatori, come nel caso del progetto di Priolo-Melilli ove è in atto un duro scontro fra la Confindustria locale e la Regione Siciliana. Porto Empedocle sembrava fino ad ora immune da questi problemi (esiste un vasto comitato favorevole e persino lo scrittore Andrea Camilleri, noto per le sue posizioni contro il Ponte sullo Stretto). ENEL ha annunciato ricorso davanti al Consiglio di Stato, ultima speranza per il progetto. La vicenda suscita due riflessioni, entrambe deprimenti. La prima dovrebbe deprimere i consumatori elettrici. E’ ragionevole aspettarsi che, se e quando il terminale entrerà in funzione, sarà alimentato da gas nigeriano. Lo stesso gas che avrebbe dovuto rifornire un terminale – mai realizzato e sempre per opposizioni pregiudiziali – a Monfalcone. Quel gas, garantito da un contratto di lungo termine tra l’azienda di Viale Regina Margherita e il paese africano, raggiunge oggi la Francia grazie a uno swap con Gaz de France, non senza aver prima originato penali che ancora oggi gli italiani pagano in bolletta perché, ai tempi della liberalizzazione, l’extracosto dovuto all’investimento mai realizzato venne riconosciuto come straded. Così, i consumatori sborsano ogni anno più di 100 milioni di euro, e grazie alla sortita del comune di Agrigento continueranno a pagarli. La seconda questione, più generale, riguarda la natura e l’effetto della giustizia amministrativa. Nessuno di noi è un giurista, ma ci pare ovvio che il senso del diritto amministrativo sia quello di garantire il rispetto delle forme e delle procedure, non quello di offrire alle pubbliche amministrazioni l’occasione per dire la propria sempre e comunque, anche fuori tempo massimo. Il comune di Agrigento, se riteneva di dover essere coinvolto, avrebbe dovuto alzare la voce durante la conferenza dei servizi, non ora che i giochi sono fatti. Tanto più che il suo territorio è toccato dall’opera solo indirettamente, perché attraversato dal tratto di gasdotto che dovrebbe allacciare il rigassificatore alla rete nazionale e che, peraltro, è di competenza Snam, non Enel. Insomma: comunque la si guardi, siamo di fronte all’ennesimo caso studio su come spaventare gli investitori, scacciare gli investimenti, e perpetuare la stagnazione economica. Una cosa sola ci resta da fare: protestiamo, protestiamo, protestiamo!

di Carlo Stagnaro e Luciano Lavecchia

]]>
/2010/12/20/chi-il-rigassificatore-ferisce-di-inedia-perisce%e2%80%a6/feed/ 22
Eni, Russia, Berlusconi. Dove stanno i soldi? /2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/ /2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/#comments Wed, 15 Dec 2010 06:58:50 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7854 Il tornado di piombo sulla “torbida relazione” tra il Cav. e Vlad ha impedito a molti di porsi la domanda più scontata: perché l’Eni vuole il gasdotto russofilo South Stream, anziché quello atlantista Nabucco? Come spesso accade, si è trascurata la risposta più semplice: perché lì stanno i soldi.

Si potrebbe replicare, con Giuseppe D’Avanzo, Andrea Greco e Federico Rampini (1, 2, 3), che South Stream è “antieconomico”. Forse. E’ molto difficile dirlo, senza conoscere dettagli precisi che nessuno (tranne Eni e Gazprom) conosce. Però, nella testa del Cane a sei zampe ciò potrebbe essere irrilevante, et pour cause. Presumibilmente, “antieconomico” significa che il costo del gas trasportato via South Stream sarebbe superiore a quello dello stesso gas trasportato via Nabucco. Ammettiamolo pure. Questo è, potenzialmente, un problema per i consumatori. Ma è soprattutto un problema per chi quel gas deve venderlo, a meno che non sia in grado di ribaltare l’extracosto sui consumatori – nel qual caso il problema vero starebbe nella struttura del mercato, e in parte è senz’altro così, non negli assetti proprietari dei gasdotti internazionali.

Il fatto è che nessuno ha mai detto che quel gas sarà gas Eni. Nessuno ha mai neppure sospettato, in verità, che Gazprom – titolare dei giacimenti a cui South Stream attingerebbe – sia intenzionata, o disposta, a cedere parte del suo gas a Eni o altri. E’ ragionevole aspettarsi che South Stream non trasporterebbe altro che gas di Gazprom. Dunque, se l’idrocarburo sia competitivo oppure no è una questione dei russi – non dei loro partner. Allora, l’Eni che ci sta a fare?

La risposta può venire da un’esperienza passata, ma simile: quella di Blue Stream, un tubo sottomarino di 1.250 km che va dalla Russia alla Turchia attraverso il Mar Nero. Eni ha il 25 per cento di Blue Stream, ma non controlla una singola molecola del gas che vi transita (tranne per uno scambio formalmente fisico, ma sostanzialmente finanziario, che si svolge alla frontiera turca e serve per remunerare il capitale). Come tutte le infrastrutture del genere, Blue Stream si finanzia solo in piccola parte con equity, e per il resto a debito. Trovare i capitali in banca fu, all’epoca, compito dei russi. Quanto all’equity di Eni, secondo fonti interne all’azienda, esso garantisce un rendimento tra il 10 e il 15 per cento. I soldi veri Eni li fece in altro modo: cioè aggiudicandosi (tramite Saipem) la realizzazione del tubo. Blue Stream fu una torta da 3,2 miliardi di euro, 1,7 dei quali relativi al tratto offshore: buona parte di questi ultimi andarono a Saipem. A queste condizioni – con zero debito, remunerazione garantita sull’equity, e soprattutto ricche commesse – all’Eni interessava che il gasdotto si facesse: non che il gas trasportato fosse competitivo, non che fosse venduto, e neppure che fosse trasportato.

Torniamo a South Stream. Il modello è, molto probabilmente, lo stesso di Blue Stream. Idem per Nabucco. Dunque, per Eni i due gasdotti sono, in astratto, equivalenti, tranne che per due particolari determinanti. Primo, e meno importante: scegliendo South Stream Eni consolida il suo rapporto con un partner strategico. Secondo, e più rilevante: South Stream vuol dire 900 km di tubo sottomarino che solo Saipem può realizzare, e qualche altro centinaio di km a terra. Nabucco sono 3.300 km tutti a terra, che possono essere divisi in lotti e affidati a “n” soggetti ugualmente bravi. Cioè, South Stream dà la certezza di una grassa commessa per Saipem; Nabucco no. I giochi sono solo e tutti lì.

Come si è visto, l’eventuale non-competitività di South Stream può tuttavia scaricarsi sui consumatori finali. I critici – se credono che esso non sia effettivamente competitivo – dovrebbero impegnarsi nell’aprire i mercati a valle, creando una concorrenza vera e rimuovendo (e facendo rimuovere) ogni sussidio erogato a qualunque titolo. In questo modo, la questione si trasferirebbe sui desk delle banche: è economico quel che è bancabile, punto, perché il recupero dei costi non è garantito.

In tutto questo, non solo non c’è traccia, ma più profondamente non c’è bisogno di Silvio Berlusconi. Che egli abbia degli interessi privati oppure no, può essere al massimo un de cuius; può investire la scelta di un intermediario anziché un altro, ma è ridicolo pensare che l’influenza di Palazzo Chigi arrivi tanto lontano. Anche perché quella che finora è stata la firma più importante risale al 23 giugno 2007, con Romano Prodi presidente del Consiglio, Pierluigi Bersani ministro delle Attività produttive e Massimo D’Alema ministro degli Esteri, un anno dopo la vittoria elettorale del centrosinistra e molto prima che la crisi dell’Unione divenisse evidente. Pensare che il Cav. potesse manovrare i fili in quelle condizioni equivale a credere che Prodi, Bersani e D’Alema fossero troppo stupidi, troppo distratti, o troppo filorussi o cointeressati per accorgersi di quello che facevano Non credo che fossero né l’una né l’altra cosa e penso che sapessero benissimo cosa stavano firmando. Peraltro, L’inizio della progettazione di Blue Stream risale al 1997, il Memorandum of understanding con l’Eni al 1999, e la costruzione avvenne tra il 2000 e il 2002: quasi tutto si svolse quando in Italia dominava il centrosinistra. Poiché le due operazioni appaiono strettamente imparentate, viene da pensare che, storicamente, centrodestra e centrosinistra sono stati ugualmente interessati, o disinteressati, alla relazione tra Italia e Russia; ugualmente leader, o follower, dell’Eni; e ugualmente attenti, o disattenti, alle implicazioni geopolitiche di tali scelte.

E’ vera una cosa: ci sono alcuni indizi di coinvolgimenti berlusconiani. Ma su una scala molto inferiore. Il caso, troppe volte citato, di Bruno Mentasti – l’intermediario vicino al Cav. che avrebbe dovuto commercializzare gas russo in Italia – è indicativo non solo perché si pone, per la dimensione dell’investimento, a qualche anno luce di distanza dalla realizzazione di un gasdotto, ma anche perché – per imperizia, goffaggine o mancanza del pudore – non se ne fece nulla. C’è altro? Forse, diciamo pure probabilmente. Ma è un “altro” rispetto al quale gli stessi D’Avanzo, Greco e Rampini non hanno prova alcuna, distillano voci nell’aria. C’è di sicuro – ma questo non lo dicono – un perverso allineamento di interessi tra l’Eni e il governo che però non dipende da Berlusconi, ma è congenito nel fatto che il più grande gruppo industriale italiano è pubblico al 30 per cento. Questo è il vero conflitto di interessi e questo andrebbe sciolto – privatizzando l’Eni. Tutto il resto è un ricamare sull’inutile per evitare l’ovvio.

]]>
/2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/feed/ 11
I segreti di South Stream. Di Stefano Agnoli /2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/ /2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/#comments Fri, 10 Dec 2010 18:01:30 +0000 Guest /?p=7823 Volentieri ripubblichiamo questo articolo di Stefano Agnoli, comparso per la prima volta sul Corriere della sera di oggi.

L’agenzia del turismo del Cantone di Zug raccomanda soprattutto il tramonto sul lago, «un’esperienza da non mancare». Oppure la vista dei giochi di luce sulla facciata della stazione ferroviaria, opera del californiano James Turrell. Difficile però che qualche centinaio di grandi «corporation» di tutto il mondo e di ricchi contribuenti siano confluiti verso la campagna, i laghi e i monti della Svizzera centrale solo per le attrazioni locali. Diciamola subito: a Zug si va perché si pagano poche tasse, e le aliquote fiscali per le aziende sono tra le più basse della Svizzera, e quindi d’Europa. Tra il 9 e il 15%.

Ma non solo: il «tax ruling» locale dà alle società che decidono di installarsi nel Cantone la possibilità (teorica ovviamente) di confezionare bilanci che sarebbe un eufemismo definire incompleti e poco trasparenti. Qualche esempio di illustri «clienti fiscali»? A Zug, e nei suoi dintorni, hanno deciso di spostare la propria sede mondiale o europea grandi multinazionali americane. Così nel giro di pochi chilometri quadrati si ritrovano Foster Wheeler, Noble, Amgen. Il colosso del trading Glencore. Persino la Transocean, la società petrolifera responsabile del disastro del Golfo del Messico nell’estate scorsa, ha sede a Zug. Le grandi corporation sfruttano le agevolazioni cantonali, e così anche i loro manager.

I gasdotti
L’attrazione esercitata dalla Svizzera e da Zug non ha effetto solo sulle aziende occidentali. Gli oligarchi russi spuntati dopo la dissoluzione della vecchia Urss hanno ampiamente sfruttato le «opportunità» concesse dalle leggi e dal tax system elvetico. Le società intermediarie al 50% tra Gazprom e l’Ucraina nel corso del conflitto del gas dell’inverno 2005-06 (come la Centragas Holding) avevano sede in Svizzera, e ora sono da tempo liquidate. Per il colosso moscovita del gas, tuttavia, l’abitudine di servirsi dello Stato alpino per i propri affari è diventata un’usanza consolidata. Come nel caso del progetto South Stream, oggetto dei preoccupati «cable» delle ambasciate americane rivelati da Wikileaks. Il memorandum tra l’Eni di Paolo Scaroni e i russi viene siglato il 23 giugno 2007. Il 18 gennaio 2008 viene costituita la South Stream Ag, posseduta al 50% ciascuno da Gazprom e da Eni International Bv. Dove? A Zug naturalmente. Nello stesso luogo dove, dal dicembre 2005, si trova anche il veicolo societario per il gasdotto «Nord Stream», il fratello gemello sul fondale del mar Baltico che dovrà bypassare la Polonia, e che vede tra i soci la tedesca E.On e come presidente l’ex cancelliere Gerhard Schröder. Ancora: quando all’incirca un anno fa i russi chiudono il negoziato con la Serbia per il transito del South Stream si comportano nello stesso modo. Creano al 50% con Srbijagas la South Stream Serbia Ag, infilano in consiglio il capo di Gazpromexport Alexander Medvedev (solo omonimo del presidente Dmitri), quello di Srbijagas Dusan Bajatovic, e dove la piazzano? A Zug naturalmente. Curioso: in Serbia l’aliquota sui profitti «corporate» è già al 10%, e di meno in Europa non si trova, se si fa eccezione per il Montenegro (9%). Per i russi, evidentemente, in queste scelte giocano altri fattori, primo fra tutti la riservatezza, se si vuole utilizzare anche in questo caso un eufemismo. In Svizzera, dettaglio non da poco, le società non quotate in Borsa non hanno alcuno obbligo di deposito del loro bilancio, che rimane a disposizione esclusivamente dell’amministrazione finanziaria.

Costi a forfait
Focus su Zug, dunque. Dove ci si può immaginare che su mandato di Gazprom e Eni un esperto professionista locale abbia costituito la joint-venture in tre-quattro giorni e con una spesa di 7-8 mila franchi. «Diciamo che le autorità cantonali – commenta Tommaso di Tanno, docente di diritto tributario a Siena – hanno una “capacità dialettica” assai elevata nel negoziato con aziende e contribuenti facoltosi». Con vantaggi fiscali di tutto rilievo: una tassa federale dell’8,5% sugli utili alla quale se ne aggiunge una cantonale del 6,5%, che tuttavia le holding non pagano, visto che a Zug possono godere di regimi «privilegiati». Il tutto grazie alla «concorrenza fiscale» interna alla Svizzera, che fa sì che tra i quaranta luoghi migliori in Europa per non pagare le tasse una ventina siano cantoni elvetici. Ma, soprattutto, a far premio c’è la «flessibilità» sulla redazione dei bilanci, che per quanto riguarda attivi e profitti devono semplicemente soddisfare dei «principi di ordinata presentazione». Senza l’obbligo, quindi, di uniformarsi a standard internazionali riconosciuti, come quelli Ias o quelli americani Gaap. E in particolare – nel caso di aziende che operano «estero su estero» come è e sarà il caso di South Stream – è possibile trattare direttamente con l’amministrazione fiscale un forfait sui costi da riconoscere in bilancio. Una quota percentuale prefissata sui ricavi, detratta la quale resta l’imponibile su cui pagare le tasse. Un sistema che come si può facilmente immaginare lascerebbe un’autostrada davanti a chi volesse mettere in atto pratiche poco trasparenti o addirittura al di là della legge, come consulenze facili, o addirittura la costituzione di fondi. Questione delicata, e all’Eni comunque percepita, visto che nei bilanci la quota del 50% in South Stream Ag (che non è consolidata) compare con una sintetica noterella a margine: la società, si precisa, come altre partecipate svizzere del gruppo risulta ricadere nella «black list» stilata dal ministro Giulio Tremonti nel 2001. Tuttavia essa dichiara che «non si avvale di regimi fiscali privilegiati». Corretto, ma se alla fine South Stream Ag pagherà sugli utili l’aliquota svizzera «senza privilegi» (15%), o quella italiana, pare tutto sommato una questione secondaria rispetto alle domande che pone l’adozione di un sistema, diciamo così, «flessibile» di redazione dei bilanci.

Arriva Gazprombank
Sul versante Nord delle Alpi, però, negli ultimi tempi la partita Gazprom non si è giocata solo sulle joint-venture per i gasdotti. Da un anno e mezzo a questa parte, infatti, in Svizzera ha fatto la sua comparsa anche il braccio finanziario del monopolista di Mosca: Gazprombank, terzo istituto di credito della Russia, dove la casa madre energetica conta per il 41% del capitale e controlla sostanzialmente il board, presieduto da Andrey Akimov. Nel giro di pochi mesi Gazprombank ha messo a segno un paio di manovre che si intersecano con i vecchi scenari noti anche in Italia (caso Mentasti) e lasciano il sospetto che, forse per volontà del Cremlino, si siano ormai regolati diversi affari del passato. A metà 2009 Gazprombank ha acquistato da Vtb, la seconda banca russa, il controllo della Russian Commercial Bank, uno storico crocevia degli interessi russi in Europa occidentale. Ma meglio sarebbe dire che Gazprombank ha provveduto a un vero e proprio salvataggio della Rcb, visto che in pochi mesi ha dovuto sborsare tra garanzie e fondi supplementari 160 milioni di dollari. Rcb, dal 2006, era la controllante del fondo del Liechtenstein Idf, a sua volta controllante della Centrex austriaca ai tempi dello sfumato affare Mentasti. L’uno-due di Gazprombank, che sostiene di aver approfittato dell’occasione per accaparrarsi una banca che ha piena licenza operativa in Europa, ha di fatto azzerato anche i conti sospesi degli anni precedenti. Tra i fondi dei clienti della Rcb si è assistito nel corso del 2009 a una migrazione particolare: 600 milioni di dollari che risultavano attivi su Cipro, dove opera una Russian Commercial Bank Cyprus, sono improvvisamente rientrati verso Mosca. E in questi movimenti non sembrano essere coinvolti interessi esclusivamente russi.

di Stefano Agnoli

]]>
/2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/feed/ 1
Autorità. 68 giorni al big bang /2010/12/07/autorita-68-giorni-al-big-bang/ /2010/12/07/autorita-68-giorni-al-big-bang/#comments Tue, 07 Dec 2010 16:48:23 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7799 Il Consiglio di Stato dichiara possibile la prorogatio dell’attuale collegio dell’Autorità per l’energia per un massimo di 60 giorni dopo la sua naturale scadenza. E poi? Poi, i fuochi d’artificio.

Gli affezionati lettori di Chicago-blog.it sanno con quanta passione abbiamo seguito la vicenda un po’ comica, un po’ tragica del rinnovo del collegio dell’Autorità per l’energia. Che il nuovo collegio andasse individuato entro, e non oltre, il 15 dicembre 2010 era noto da sette (7) anni. Anni durante i quali tre diversi Parlamenti e quattro diversi governi, alternativamente di centrodestra e centrosinistra, non sono stati in grado prima di nominare un componente in sostituzione di Fabio Pistella, che aveva abbandonato per approdare al Cnr, e poi di nominare una terna quando la legge Marzano aveva allargato a 5 il numero dei membri (ironicamente, proprio con l’obiettivo di facilitare il raggiungimento di accordi politici, resi necessari dal requisito del via libera con una maggioranza dei due terzi da parte delle commissioni competenti). Lo stesso ceto politico, e mentirei se dicessi che non sorprende, non è stato in grado di trovare una cinquina in grado di resistere più di dieci (10) giorni: tanto ne sono passati dal trionfale coitus nel consiglio dei ministri del 18 novembre al momento in cui si è interruptus, con la retromarcia del presidente designato, Antonio Catricalà.

Fiutando l’aria, l’Autorità aveva chiesto un parere al Consiglio di Stato per sapere cosa sarebbe successo, nel caso malaugurato e remoto in cui le nomine non fossero arrivate in tempo. La risposta del Cds è arrivata oggi, proprio quando è chiaro oltre ogni ragionevole dubbio che le nomine non verranno fatte in tempo. Vuoi perché il Parlamento non ha i giorni necessari, vuoi perché il tentativo di mettere una pezza con la mera sostituzione del presidente – ultimo in lizza, il magistrato della Corte dei conti Raffaele Squitieri, che a questo proposito ha incontrato ieri Gianni Letta – di fatto non rispondeva ai mal di pancia bipartisan che la qualità delle nomine aveva destato.

Il problema è che la legge istitutiva dell’Autorità non prevede la possibilità che questo accada. Dati i tempi lunghi e l’assenza di incertezza riguardo la tempistica, si supponeva – nell’anno Domini 1995 – che maggioranza e opposizione avrebbero consensualmente trovato uomini (o donne) competenti e preparati, magari vicini a questo o quello ma soprattutto tecnici. Invece, le cose non sono andate così. Sicché, cosa dice il Cds? In quello che a un occhio digiuno di cose giuridiche come il mio appare come un formidabile, e necessario, esercizio di arrampicata artistica sugli specchi, dice che sì, la prorogatio è possibile ma che no, non a tempo indeterminato né per un lungo intervallo di tempo. Per pervenire a un tale risultato, fa l’unica cosa possibile: chiede a sua volta il parere delle altre istituzioni coinvolte (Palazzo Chigi e il ministero dello Svilluppo economico), e alla stessa Aeeg, in modo da evitare clamorosi scontri istituzionali. Nota di colore: il Mse, essendo evidentemente occupato in altre mansioni, non ha ritenuto utile rispondere. I consiglieri di Stato aggiungono che “si ha motivo di ritenere che il 15 dicembre 2010 l’iter di costituzione del collegio dell’Aeeg non risulterà ancora completato”. Cioè: ragazzi, non andiamo per il sottile, siamo in stato di necessità e in questo contesto dobbiamo muoverci.

Dopo di che, il ragionamento è il seguente:

1) La prorogatio è un’eccezione sul cui uso il nostro ordinamento, a differenza di quanto avveniva in passato, è estremamente cauto;

2) In generale, data la natura dell’Aeeg – i cui componenti vengono nominati singolarmente e che può funzionare anche con un collegio incompleto – la prorogatio sarebbe non necessaria, e quindi illecita; tuttavia

3) Gli attuali membri scadranno “simultaneamente” il 15 dicembre, e questo “dato di fatto” rende il caso in esame “assimilabile (una tantum) all’ipotesi dei collegi il cui mandato è soggetto a una scadenza unitaria”. Ai miei occhi inesperti, questa è arte.

4) Neppure si può parlare di inadempienza dell’Autorità – nel qual caso scatterebbe il potere sostitutivo del governo – perché qui, semmai, inadempienti sono il governo stesso e il parlamento.

5) D’altra parte le funzioni dell’autorità sono così “rilevanti e incisive” e “il loro tempestivo esercizio è così doveroso per legge” da dover trovare una gabola (in termini tecnici: “da rendere difficilmente sostenibile l’esclusione di ogni forma di prorogatio“).

6) Dunque, la prorogatio è sostenibile purché non sistematica e non illimitata nel tempo e nell’estensione dei poteri”.

7) Particolare enfasi viene posta dal Cds sulla limitata durata temporale, perché una prorogatio a tempo indeterminato “tutti gli atti diventano, prima o poi, insuscettibili di rinvio”, e dunque fatalmente anche l’estensione dei poteri diventerebbe illimitata. Nel qual caso una parte di me non può fare a meno di ghignare, al pensiero della reazione di certi regolati alla notizia dell’insediamento di Re Sandro I sul trono di Piazzale Cavour. Reazione che quasi renderebbe questa prospettiva, altrimenti insostenibile, tutto sommato desiderabile. Ma questa è una divagazione maligna.

8) Senza contare che, appunto, una prorogatio indefinita sarebbe equivalente a una conferma nell’incarico, in palese violazione della legge che, molto opportunamente, nega tale possibilità.

9) Di conseguenza, la prorogatio deve essere accettata purché limitata nei tempi e nello scopo. Cosa significa “tempi limitati”? Per il Consiglio di stato, vale il termine dei 60 giorni, coerentemente con la legge Marzano che fissa in 60 giorni il termine per la nomina dei membri mancanti del collegio (norma prima disattesa e poi paraculescamente interpretata, ma anche questo è un altro discorso che sta alla base dell’anomalia di un collegio a due).

10) Perché, dunque, proprio 60 giorni? Perché il legislatore del 2004 “stimava che fossero un termine ragionevole e più che sufficiente per svolgere tutto il complesso procedimento della nomina dei (nuovi) componenti”. Se era vero nel 2004, argomenta il Cds, deve essere vero anche oggi. Peccato che, come i fatti successivi hanno dimostrato, già nel 2004 non fosse vero, e dunque – a fortiori e a maggior ragione – non lo è, probabilmente, oggi.

11) In conclusione, viene fissato il termine “non ulteriormente prorogabile” di 60 giorni dalla scadenza del 15 dicembre, e dunque di 68 giorni da oggi.

E dopo? Dopo, il big bang. Ma prima di arrivare al dopo, occupiamoci del prima. Dal 15 dicembre al 13 febbraio l’Autorità, e comunque fino alla nomina di un nuovo collegio, l’Autorità dovrà operare “con la limitazione dei poteri agli atti di ordinaria amministrazione e a quelli indifferibili e urgenti”. Ora, la mia domanda da ingenuo malpensante è: che cavolo è l’ordinaria amministrazione/indifferibile/urgente, e cosa non lo è? Un’interpretazione, estensiva ma ragionevole, potrebbe essere quella secondo cui ricade in tale categoria tutto ciò che sta scritto nella legge istitutiva, e dunque l’attività di determinazione delle tariffe, la regolazione tecnica e di qualità, l’intervento in caso di comportamenti scorretti, e così via. Ma altre interpretazioni potrebbero essere, altrettanto plausibilmente, più restrittive. E’ chiaro, insomma, che la prima, inevitabile conseguenza diretta della prorogatio sarà che qualunque atto dell’Autorità potrebbe essere, e probabilmente sarà, oggetto di contenzioso. D’altro canto, potrebbe generare contenzioso anche la scelta di non fare qualcosa, perché qualcuno potrebbe ritenerlo omissivo. Buona fortuna.

Un secondo effetto sarà quello che, sapendolo, il collegio sarà indotto a comportarsi in modo particolarmente conservativo. I topi ballano anche quando il gatto, pur essendoci, è debole o ferito.

Una terza e più politica conseguenza sarà che anche l’invio di eventuali segnalazioni al governo o al parlamento – aspetto importante visto che entro marzo dovrà essere recepito il Terzo pacchetto energia - avrà un tono minore e comunque un peso politico inferiore.

Tanto per il prima. Naturalmente le cose potrebbero risolversi se una nuova cinquina fosse rapidamente individuata e approvata. La voce più insistente è quella secondo cui il governo – lo sapremo venerdì – sarebbe intenzionato a riproporre il quartetto già licenziato (Biancardi-Bortoni-Carbone-Termini) più Squitieri come presidente. Ma l’approvazione parlamentare non sarebbe scontata, visto che diverse delle ragioni di insoddisfazione che hanno causato il cortocircuito resterebbero inascoltate. Una seconda ipotesi è quella di un decreto legge per prorogare per sei mesi l’attuale collegio. Ma non solo tale provvedimento potrebbe essere a sua volta essere inefficace, disapplicato o rigettato in fase di conversione: esso pure darebbe vita a contenzioso, inevitabilmente e, aggiungo, giustamente.

Quindi, i giochi dovrebbero riaprirsi completamente: assai complicato, se si tiene conto che di mezzo c’è il voto di fiducia e che, se le cose precipitassero, da qui al 13 febbraio potrebbero non esserci più né un governo, né un parlamento. Il che, naturalmente, vale anche per la conversione del decreto fantasma.

Nell’ipotesi più pessimistica (ma non per questo meno probabile), quella in cui una nuova cinquina non fosse individuata per tempo, si arriverebbe al paradosso della decapitazione dell’Autorità, con la sua sostanziale paralisi e l’improvviso crollo della cornice di regole, buone o cattive, che oggi sovrintende al funzionamento del mercato dell’energia in Italia. Una cornice che ha fatto di noi un esempio studiato in Europa, e il cui venir meno in un contesto del tutto confusionale ci riporterebbe dove siamo abituati a stare, cioè in fondo alla classifica e ben lontani da qualunque standard di best practice. In quel caso, altro che contenzioso: saremmo di fronte al Contenzioso 2.0.

Dimenticavo: tra tre settimane scatta il liberi tutti natalizio. I 60 giorni di proroga sono, a tutti gli effetti, 45. Del resto, sarebbe impensabile che lo stesso ceto politico che in 7 anni non ha saputo trovare un accordo, sia disposto a fare gli straordinari a Capodanno. C’è il cotechino che aspetta, per Dio, non siamo mica qui per scherzare.

]]>
/2010/12/07/autorita-68-giorni-al-big-bang/feed/ 1
Proposta shock per l’Autorità energia: tiratelo fuori /2010/12/06/proposta-shock-per-lautorita-energia-tiratelo-fuori/ /2010/12/06/proposta-shock-per-lautorita-energia-tiratelo-fuori/#comments Mon, 06 Dec 2010 10:15:24 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7785 A meno di dieci giorni dalla scadenza formale dell’attuale collegio, le nomine della nuova Autorità per l’energia sono in alto mare. Il naufragio è frutto della superficialità dei principali attori di questo teatrino: il Pdl, il Pd e la Lega (o, se preferite nomi e cognomi, di Gianni Letta e Paolo Romani, Pierluigi Bersani e Roberto Calderoli). Capire perché le cose sono andate male è necessario a esprimere una diagnosi del fallimento. La risposta, dati i tempi e l’apparent cul de sac in cui la politica si è cacciata (compreso il voto di sfiducia del 14 dicembre), non può che essere una terapia shock: tiratelo fuori.

Come sempre, c’è una tensione tra la lettera della legge e la sua sostanza. La legge richiede che le nomine, operate dal governo, siano approvate dalle commissioni parlamentari competenti con una maggioranza dei due terzi. Letta-Romani, Bersani e Calderoli hanno fatto le loro scelte pallottolliere alla mano. Non hanno considerato due cose: primo, che i parlamentari (almeno alcuni di loro) non sono palline ma esseri umani; secondo, che le nomine, per essere votate, devono essere votabili. Alcune, a fortiori, non lo erano. Non lo erano perché il criterio dell’appartenenza partitica ha prevalso su qualunque altro criterio, compreso quello della competenza tecnica (che pure è richiesta dalla legge istitutiva dell’Autorità).

Non apro una digressione sulla questione dell’indipendenza perché lo ha già fatto Alberto Mingardi. Nessuno crede, e pochi chiedono, che i politici si spoglino della loro appartenenza in questi momenti. E’ fisiologico che ciascuno cerchi di inserire uomini (o donne) considerati “vicini” o “d’area” nei posti disponibili. Il problema è che, dall’insieme dei “vicini”, bisognerebbe estrarre il sottoinsieme dei “competenti”, e tra di essi scegliere. Ci sono molti tecnici in gamba contigui al Pdl, al Pd, alla Lega: perché solo alcuni sono emersi, nella cinquina ormai tramontata, mentre altri erano vicini ma non competenti o addirittura incompetenti?

Non voglio rispondere a questa domanda. Non sarei in grado di farlo – e comunque non senza usare parole poco educate. Mi limito a osservare che le cose sono andate così. Osservo anche che la pezza che si per qualche giorno si è tentato di mettere era peggio del buco: si è cercato di comprare il supporto di partiti esterni alla maggioranza promettendogli incarichi non già nel collegio, ma ai vertici della struttura dell’Autorità, o di negoziare parallelamente sul tavolo dell’Antitrust. In entrambi i casi, anziché risolvere il deficit di competenza lo si sarebbe allargato, almeno se si prendono sul serio alcuni dei nomi che sono circolati e i nomi di quelli che, per far spazio a loro, sarebbero stati sacrificati. Anche questa strada, comunque, non si è rivelata utile. Così siamo alla situazione attuale: la politica in altre faccende affacendate, l’Autorità in bilico, la sua operatività appesa a un parere del Consiglio di Stato che comunque non potrà non sollevare critiche e ricorsi, la certezza di una prorogatio che potrebbe anche avere tempi molto lunghi.

In queste condizioni, pensare che la patologia – l’incapacità di operare nomine di cui da sette anni tutti conoscevano la scadenza – possa fare il suo decorso è illusorio. Quindi bisogna prendere atto della realtà e incanalarla in un percorso sostenibile. La realtà è questa: i partiti fanno le nomine. Il percorso sostenibile è questo: bene nomine di parte, ma che siano nomine decenti. Ecco, dunque, la mia proposta shock: far emergere le negoziazioni sotterranee.

Cari partiti – cari Letta, Romani, Calderoli, Bersani, Casini, Fini, Di Pietro, Vendola, e tutti quelli che mi sto dimenticando o di cui ignoro, senza particolare senso di colpa, l’esistenza: cari partiti, tiratelo fuori. Tirate fuori i nomi delle persone che avete in mente e mettete online, in modo che tutti possano vederlo, il loro curriculum.

Intendiamoci: un CV dice molto ma dice poco. Ci sono mille modi per “cucinarlo” in modo che sembri più di quel che è. Qualche corso inutile di qua, qualche consiglio di amministrazione che si è frequentato un pisolo dopo l’altro di là. Però, un CV – per quanto cucinato – è meglio di nessun CV. Non sto dicendo, dunque, che sulla base del CV si dovrebbe decidere. Sto solo dicendo che, almeno, si dovrebbe avere la decenza di scegliere persone che possano sostenere di sapere qualcosa del settore che andranno a regolare. Sto chiedendo, cioè, che i padrini si prendano la responsabilità dei loro picciotti. Starà ai “picciotti” dimostrare, col loro comportamento, se agiscono nell’interesse del mercato o in quello dei rispettivi mandanti. E sta ai “padrini” indicare personale qualificato – a cui togliamo volentieri l’etichetta di “picciotti” – anziché manovalanza partitica.

L’indipendenza sta nelle norme e sta nelle persone: uno scatto di trasparenza ex ante potrebbe consentire sia la quadratura del cerchio oggi, sia una più serena valutazione dell’operato dell’Autorità quando le nomine saranno state effettuate. Magari, ci aiuterà anche a capire se i leader politici che chiedono la nostra fiducia sanno scegliere i loro collaboratori, o se per loro l’unico metro è quello delle fedeltà. Nel qual caso, non avranno il nostro voto.

]]>
/2010/12/06/proposta-shock-per-lautorita-energia-tiratelo-fuori/feed/ 1
Un’ovvietà sull’Eni e Berlusconi /2010/12/04/unovvieta-sulleni-e-berlusconi/ /2010/12/04/unovvieta-sulleni-e-berlusconi/#comments Sat, 04 Dec 2010 17:06:29 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7775 Da quando Wikileaks ha rilanciato i dubbi dei diplomatici americani sul rapporto tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin – dubbi tanto poco riservati che l’ambasciatore Usa, David Thorne, li ha sollevati nella sua prima intervista dopo l’insediamento – tutti i quotidiani italiani fanno la gara a chi, sull’Eni, la spara più grossa. Il comune denominatore della “macchina del fango” è, grosso modo: le strategie dell’Eni in Russia sono dettate dagli interessi personali del Cav., e sono mosse dalla sua amicizia speciale con lo Zar. Credo che questa reazione corale e rabbiosa abbia un che di liberatorio: poiché dell’Eni non si poteva (fino a ieri) dir che bene, e non per nobili ragioni o per le virtù del Cane a sei zampe, adesso non si può dirne che male. Non avendo alcun complesso del genere e non avendo mai avuto atteggiamenti particolarmente teneri, credo di poter dire tranquillamente: avete letto un sacco di sciocchezze. Tutti hanno ricamato sull’inutile, e nessuno ha evidenziato l’ovvio.

Perché quello di cui si è parlato sia inutile, lo chiarisce molto bene Massimo Nicolazzi in un lungo articolo sul prossimo numero di Limes, anticipato oggi dal Foglio. Cito:

I governi, in questo non hanno fatto nè da leva nè da filtro. Al più, hanno fornito una qualche forma di assistenza. Le grandi amicizie, per dirla sommessamente, non c’entrano granchè.

E ancora:

La Politica  con questo sviluppo sembra c’entrai assai poco. Per carità, è comunque meglio se il Nostro [Berlusconi] è amico dell’Altro [Putin]. Però siamo alla marginalità del marginale. E’ l’essere nemici che può far danni, e magari farti discriminare; e non è  l’essere amici che da solo crea opportunità.

Infine:

[I russi, a proposito di Yukos, si sono detti:] Facciamola comprare da un amico fidato, col diritto di (ri)comprarcela a cose più chiare. L’amico prescelto fu Eni, che per essersi prestata ad un’operazione parente stretta di un portage si beccà dal Financial Times la patente di ‘utile idiota’.  Idiozia peraltro benedetta (il Financial Times in realta’ era la voce dell’invidia), e dal cui contorno  Eni ed Enel si sono assicurate un importante contributo di riserve di idrocarburi. La scelta di puntare sull’Eni non fu un mirabolante successo della nostra politica estera. Fu un successo dell’Eni. Ci giocarono anni di rapporti… Qualunque governo sensato non avrebbe potuto che incoraggiare.  Un Presidente del Consiglio al posto di un altro non avrebbe fatto differenza alcuna.

Su quest’ultimo passaggio, preciso che io la penso diversamente sull’opportunità di partecipare all’asta per i brandelli di Yukos, ma sono perfettamente d’accordo con Massimo che qualunque governo si sarebbe comportato allo stesso modo di quello presieduto da Berlusconi. E lo avrebbe fatto perché, nella logica un po’ industriale, un po’ politica e solo un po’ economica che muove l’Eni (e dietro di essa i governi italiani) era perfettamente razionale comportarsi così. Il problema è proprio questo: non gli interessi personali di Berlusconi, che – per quanto rilevanti dal punto di vista politico – sono irrilevanti rispetto alla big picture che stiamo osservando. Non è che che Eni e Gazprom vadano d’amore e d’accordo grazie a Berlusconi: al massimo, Berlusconi, grazie alla sua amicizia con Putin, può trarre vantaggio da una relazione che esisterebbe comunque. In altre parole, tutti cercano di ingigantire le dimensioni di una storia che è piccola piccola, rispetto agli investimenti di cui stiamo parlando (a partire dal gasdotto South Stream, la cui vicenda è raccontata con obiettività da Stefano Agnoli). In altre e più nette parole: gli affari di Berlusconi, che siano verità o menzogna, sono importanti per Berlusconi e per il modo in cui lo valutiamo; sono del tutto irrilevanti per le strategie dell’Eni. Per cui, tutto il complottismo di cui avete letto sui giornali è roba da tanto al mucchio.

Ciò che invece conta è quello che non avete letto e che non leggerete. Ossia che c’è, nell’Eni, uno scandalo: uno scandalo che prescinde da Berlusconi e che investe chiunque stia a Palazzo Chigi. Lo scandalo è che l’Eni, essendo contemporaneamente una società controllata dal Tesoro e il più grande gruppo industriale italiano per capitalizzazione di borsa, è un cappio al collo della libertà di mercato in questo paese. Non è che l’Eni subisca la politica: l’Eni fa la politica. E la fa per l’ottima ragione che c’è un perfetto allineamento di interessi tra l’Eni e il governo, da qualunque partito politico sia detenuto. Finché l’Eni fa soldi, il Tesoro incassa dividendi, che sono percepiti ormai come un’entrata parafiscale. E se per far soldi e staccare dividendi, l’Eni deve mantenere il suo ruolo di monopolista, allora i governi italiani – di centrodestra e di centrosinistra, senza alcuna differenza apprezzabile – manterranno e rafforzeranno il suo ruolo di monopolista.

La vera notizia, oggi, non è Wikileaks, ma il fatto che si è messo in moto il processo per cedere i gasdotti internazionali dell’Eni alla Cassa depositi e prestiti: la notizia è che, pur se cambiano formalmente gli assetti proprietari dei gasdotti in risposta alle accuse dell’Antitrust comunitario di abuso di posizione dominante, in realtà nulla cambia. Il conflitto di interesse si sposta semplicemente più a monte, visto che nel frattempo la Cdp è divenuta il maggiore azionista dell’Eni. Il conflitto di interessi c’era, c’è e ci sarà. Solo che tutto questo sui giornali non lo leggerete perché la macchina del fango è, in realtà, una macchina della fuffa: produce, macina e diffonde solo leggerezze che non contano nulla, se non rispetto alle patetiche sceneggiate del nostro teatrino politico, ma non affronta – se non in modo molto obliquo – le questioni che, invece, sono ovvie e centrali.

Perché c’è un solo modo per sanare il conflitto di interessi, peraltro producendo un duplice beneficio: privatizzare l’Eni. Scindere ogni rapporto tra l’azienda e il governo. Trasformare l’Eni in un’azienda come un’altra, le cui scelte – se investire in Russia o su Marte, nel South Stream o altrove – riguardano lei e i suoi azionisti, ma non sono l’oggetto dei buffi cablogrammi dell’Ambasciata americana né di ridicoli dibattiti politici o di inchieste alla marmellata. Privatizzare l’Eni avrebbe un beneficio diretto: cancellare l’ambiguità che sempre circonda le scelte dell’azienda, e che non è mai chiaro a quale titolo vengano prese. Eliminare le distorsioni del mercato e i meccanismi preferenziali che le norme assegnano a Piazzale Mattei per l’unica, ovvia e perfettamente razionale ragione che l’Eni è lo Stato e lo Stato è l’Eni. La privatizzazione non dovrebbe avvenire con la semplice cessione delle azioni Eni in pancia al Tesoro o alla Cdp (a proposito: un giorno dovremo anche chiederci perché la Cdp esista e se abbia senso mantenerla così com’è).

Dell’Eni bisognerebbe fare spezzatino, dividendola in tre: la rete nazionale e le altre infrastrutture; la “oil company” tradizionale; e la utility che commercializza gas ed energia elettrica. In questo modo, non solo si scioglierebbe uno dei più rognosi nodi gordiani della politica e dell’economia italiane, ma si creerebbero anche quelle condizioni di maggiore concorrenza – attuale e potenziale – che solo una rete indipendente può garantire. Inoltre, la vendita dell’Eni frutterebbe al Tesoro (direttamente o attraverso Cdp) un gettito che spannometricamente si potrebbe stimare in circa 23 miliardi di euro (un terzo dell’attuale capitalizzazione), più fino ad altri 16-17 miliardi (un terzo dei 50 miliardi di valore “nascosto” che, secondo il fondo Kinght-Vinke, potrebbero emerge dopo l’annuncio credibile dello “spezzatino”).

Quindi, sotto il tappeto della discussione sterile e rumorosa, si nascondono 40 miliardi di euro che Giulio Tremonti potrebbe raccogliere. E’ un’ovvietà che discende da informazioni pubbliche, valutazioni mai smentite coi numeri (ma solo a parole), e dalle esplicite richieste dell’Autorità per l’energia. Perché tutti perdono tempo con le stupidaggini, e nessuno si occupa delle ovvietà?

]]>
/2010/12/04/unovvieta-sulleni-e-berlusconi/feed/ 24
Nomine. Come d’autunno sugli alberi le foglie /2010/12/03/nomine-come-dautunno-sugli-alberi-le-foglie/ /2010/12/03/nomine-come-dautunno-sugli-alberi-le-foglie/#comments Fri, 03 Dec 2010 11:31:27 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7773 Ieri le commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera hanno silurato Michele Corradino, candidato dal ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, di cui è capo di gabinetto uscente, al collegio dell’Agenzia di sicurezza nucleare. Il collegio nasce così mondo, essendo stati contemporaneamente approvati i nomi del presidente (Umberto Veronesi) e degli altri tre commissari (il magistrato Stefano Dambruoso, indicato pure lui da Prestigiacomo, e Marco Ricotti e Maurizio Cumo, indicati dal ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani). La Caporetto di Prestigiacomo arriva all’indomani della ritirata di Antonio Catricalà dalla presidenza dell’Autorità per l’energia, che gli era stata offerta e che ha rifiutato per le ragioni già illustrate. Forse per la prima volta, un governo italiano si trova nella condizione di non riuscire a fare nomine decenti. Cosa è successo e perché? Cosa ci aspetta?

Partiamo dalle ragioni del “no” a Corradino. Gli osservatori più attenti alle dinamiche politiche trovano la pistola fumante in mano all’ex ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola (Gilda Ferrari in un documento articolo sul Secolo XIX di oggi e Dagospia ieri). Probabilmente è vero che si è consumato un regolamento di conti interno al centrodestra, ma le cose sarebbero andate diversamente se i nomi indicati da Prestigiacomo avessero avuto una caratura diversa. Due i problemi: l’assenza di competenze specifiche in campo nucleare e l’eccessiva vicinanza a un ministro in carica, lesiva – secondo i critici – dell’indipendenza di un organismo che può contare solo sulla reputazione dei suoi componenti, non avendo una reale indipendenza istituzionale. Questa debolezza venne rilevata fin da subito sia dalle voci più attente dell’opposizione (qui Federico Testa) e della maggioranza (come Andrea Fluttero). Senza un simile argomento, che ha consentito di coagulare dissensi bipartisan, probabilmente lo sgambetto scajoliano non avrebbe potuto verificarsi. A questo punto, bisogna attendersi – come racconta Federico Rendina se ne vedono già le avvisaglie – uno scontro tra Prestigiacomo (che per salvare il suo uomo è riuscita a far ripetere le votazioni in commissione, peraltro peggiorando la situazione) e Romani. Il ministro dell’Ambiente sostiene che l’Agenzia, per decollare, deve avere un collegio completo. Quello dello Sviluppo ritiene che 4 membri su 5 siano sufficienti. Non so chi abbia ragione: so che, per il nucleare italiano, questa vicenda va inserita nella casella “cattivo inizio”.

E un cattivo inizio lo è, a maggior ragione, se viene letta parallelamente all’incagliarsi dei negoziati sul rinnovo dell’Autorità per l’energia. Dopo la marcia indietro di Catricalà, sono circolati nomi che hanno sollevato ancora più polemiche di quelle che già c’erano (in particolare il consigliere di stato Rocco Colicchio, attuale revisore dei conti dell’autorità, e il magistrato della corte dei conti Raffaele Squitieri, delegato al controllo della gestione finanziaria di Eni). Nell’incertezza più totale, alimentata anche dalle speranze immediatamente rintuzzate che il governo potesse proporre una cinquina alternativa allo scorso consiglio dei ministri, si fa strada la possibilità di una prorogatio. Alessandro Ortis, presidente uscente, ha chiesto un parere al consiglio di stato per capire quali siano i termini della questione, visto che si tratterebbe di un caso senza precedenti. E’ ragionevole attendersi che, comunque, non appena si entrerà in questo terreno sconosciuto inizieranno a fioccare i ricorsi, da parte di tutti, contro le delibere sgradite. Ed è in questo senso preoccupante la voce – che mi auguro sarà immediatamente smentita dai fatti – di una proroga addirittura di sei mesi (che potrebbero diventare Dio-sa-quanti in caso di elezioni anticipate). Non solo non vorrei essere nei panni di Ortis, ma credo che il paese nel suo complesso darebbe uno spettacolo indecente proprio in uno dei settori dove era riuscito a porsi all’avanguardia in Europa, come documentiamo nell’Indice delle liberalizzazioni.

Tutto questo è una brutta storia italiana. L’indecisione e l’impreparazione dei nostri politici sta mettendo a rischio la stabilità del sistema: un sistema non perfetto e che anzi richiede molti aggiustamenti, ma che deve essere aggiustato secondo le procedure corrette, non creando dei pericolosi “vuoti” dei quali gli squali sanno e possono approfittare. Se dunque l’atteggiamento critico del parlamento verso alcune nomine è segno di una sana dialettica, esso deve portare a un miglioramento della qualità delle nomine, non a un’intensificazione delle attività spartitorie (come è sembrato accadere, invece, nei giorni precedenti la rinuncia di Catricalà, quando addirittura pare siano state messe sul piatto le teste dei vertici della struttura dell’Autorità per ospitare paracadutati politici). Ha ragione, in questo senso, Testa quando dice che l’accesa discussione sull’Agenzia nucleare

E’ anche un bel segnale da parte del Parlamento rispetto a chi prefigura scelte di vertice senza coinvolgere le competenti commissioni parlamentari.

La domanda è se il Parlamento sia davvero in grado di seguire coerentemente questa linea, e se il governo sia in grado di cogliere l’indicazione e superare le difficoltà scegliendo uomini che abbiano i titoli per svolgere le mansioni che gli vengono assegnate. Non si tratta di fare le verginelle e fingere che i partiti debbano distribuire cariche senza tenere in conto la vicinanza delle persone da loro indicate. Nessuno di noi è nato sotto il cavolo e tutti sappiamo che non è e non sarà mai così. Ma c’è un limite che non dovrebbe essere mai oltrepassato, e che impone di scegliere, tra tutti i simpatizzanti del partito X, quelli che – oltre a simpatizzare per il partito X – sanno anche qualcosa dell’argomento Y di cui dovranno occuparsi, specie quando l’argomento Y ha, come quello dell’energia, una rilevanza economica, strategica e ambientale di un certo peso. Insomma: non chiediamo dimostrazioni di virtù eroiche. Chiediamo un onesto, banale, normale esercizio di decenza.

]]>
/2010/12/03/nomine-come-dautunno-sugli-alberi-le-foglie/feed/ 2
Autorità energia. Fate quelle fottute nomine (e guardate quei maledetti CV) /2010/11/30/autorita-energia-fate-quelle-fottute-nomine-e-guardate-quei-maledetti-cv/ /2010/11/30/autorita-energia-fate-quelle-fottute-nomine-e-guardate-quei-maledetti-cv/#comments Tue, 30 Nov 2010 09:19:01 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7731 UPDATE: Fumata nera.

Pare che oggi il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, potrebbe portare al Consiglio dei ministri il nome del presidente dell’Autorità per l’energia, dopo la rinuncia di Antonio Catricalà. Se Romani riesce a partorire un nome in grado di raccogliere il consenso necessario, merita i nostri complimenti, visto che – per le ragioni già dette – è importante non entrare nel territorio sconosciuto della prorogatio. Bisogna anche vedere se la scelta del presidente corregge il collegio, particolarmente in quei nomi che, per motivi diversi, apparivano deboli. Mi permetto però un ulteriore auspicio: non solo che le nomine vengano fatte nei tempi giusti, ma anche che vengano fatte con uno sguardo alla competenza più che all’appartenenza (e magari all’aspettativa di vita, ma non voglio essere rude). Alcuni tra i nomi che circolano informalmente (e in particolare uno di essi, a cui faccio tutti i più sinceri auguri) sono effettivamente di alto profilo; altri, meno. Un conto è non credere all’illusione dell’indipendenza pronta, cieca e assoluta; altra cosa è accettare che chiunque possa occupare qualunque posto in virtù di una casacca. In fondo, la lezione che possiamo imparare dal resto del mondo è che si può scegliere personale tecnico senza insultare la decenza. Se il fallimento dell’operazione Catricalà insegna qualcosa, è proprio che le cose vanno fatte bene. Altrimenti non funzionano. E sono dolori per tutti.

]]>
/2010/11/30/autorita-energia-fate-quelle-fottute-nomine-e-guardate-quei-maledetti-cv/feed/ 3
Se le pale girano nel verso sbagliato /2010/11/29/se-le-pale-girano-nel-verso-sbagliato/ /2010/11/29/se-le-pale-girano-nel-verso-sbagliato/#comments Mon, 29 Nov 2010 11:21:07 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7717 Ieri Report ha dedicato una puntata alle fonti rinnovabili, col titolo un po’ scontato “girano le pale”. Purtroppo, la bella trasmissione di Milena Gabanelli non è sfuggita allo stereotipo del derby. In tv si parla delle rinnovabili solo in due modi: o per denunciare le forze oscure della reazione in agguato contro le belle-buone-convenienti-ecologiche-democratiche fonti verdi, oppure per tremonteggiare. La Gab ha tremonteggiato.

La puntata si apre con un paio di immagini “forti”. Tullio Fanelli che dice l’ovvio, cioè che i sussidi sono troppo generosi. Un assessore (credo calabrese) che casca dal pero quando gli dicono che la mafia ha messo le mani su alcuni appalti eolici. Il sottosegretario Stefano Saglia spiazzato di fronte a un decreto pubblicato in gazzetta ufficiale con un commentaccio tra parentesi. La conduttrice che indugia sui piccoli-che-annegano-nella-burocrazia e i grandi-che-speculano. Un agricoltore bolognese che parla come Bersani e si lamenta di non ottenere i finanziamenti dalla banca, l’ex patron del brand di abbigliamento intimo “La Perla” che invece sta mettendo in campo un mostro fotovoltaico senza problemi (“mi considerano ancora un buon cliente”) anche se pure lui ha avuto le sue magagne, come tutti. Anche uno scivolone molto brutto per chi crede che la liberalizzazione vada anzitutto comunicata (“siamo a Milano e qui la bolletta è di A2A”). Comunque, in generale, buona la spiegazione della composizione della bolletta, e di cosa è e quanto vale la componente A3. (Un po’ ambigua la spiegazione sulla componente A2, da cui il telespettatore ingenuo potrebbe capire che noi paghiamo per il nucleare – che non abbiamo – e non per la scelta scellerata di chiudere prematuramente le centrali negli anni successivi al referendum, ma vabbé). Ma poi qual’è la tesi forte della trasmissione?

Un po’ si rintraccia l’implicito sostegno all’idea che le rinnovabili siano effettivamente alternative alle centrali tradizionali. Grande enfasi per Carlo Vulpio che, in sostanza, dice che i sussidi hanno senso se servono a sostituire capacità convenzionale – se la cosa viene presa sul serio, si arriva alla posizione dell’Ibl: i sussidi non hanno senso, perché (tra le altre cose) la potenza intermittente e imprevedibile deve essere comunque rimboccata da centrali convenzionali pronte a entrare in funzione quando il sole non splende o il vento non soffia. Poi c’è la continua e sotterranea tensione tra la voglia di verde ma l’indisponibilità a pagare per sostenerlo. C’è Vittorio Sgarbi che se la prende con l’eolico (“sta merda qui”) in quanto paesaggisticamente scorretto. Qui cominciamo ad avvicinarci al cuore della trasmissione, non prima di aver aperto una ampia digressione su Enel Green Power e i paradisi fiscali (questa volta, il Delaware).

Il centro della trasmissione è il servizio sui certificati verdi, quindi, soprattutto, l’eolico. Ma prima di arrivarci c’è altra ciccia: le false certificazioni di energia verde nelle importazioni e lo scandalo dell’acquisto di certificati verdi da parte del Gse. Apro una parentesi: è uno scandalo anche secondo me, perché alza artificialmente il prezzo, ma è uno scandalo scolpito nel momento in cui tutto l’ambaradàn è cominciato ed è controproducente cancellare tutto con un tratto di penna (come voleva fare il ministro dell’Economia con poca sensibilità per la certezza del diritto). E finalmente, si arriva alla Calabria.

Si ritorna sull’assessore che visibilmente non sa nulla di ciò di cui parla. Ma la questione clou è la mafia nell’eolico, di cui i magistrati si stanno occupando da tempo (“non ci credo”, dice l’assessore, e chiosa: “sono favole, sono barzellette”) e di cui sappiamo tutto e quello che non sappiamo lo sospettiamo. Nel fango viene scaraventata la Edison per un percorso autorizzativo non chiarissimo, ma anche questo non aggiunge nulla al teorema perché, nella peggiore delle ipotesi, rappresenta un caso isolato (e nella migliore una pista falsa, come onestamente ritengo probabile dato che trovo improbabile che una grande società quotata in borsa faccia un simile passo falso). La domanda che io avrei voluto porre all’autore del servizio (Alberto Nerazzini) e alla Gab è però un’altra: so what? A me non piace fare il difensore d’ufficio dell’industria verde, che del resto può contare su difensori più convinti di me, ma la questione è, al tempo stesso, semplice e complessa. Complessa perché le infiltrazioni mafiose non sono in alcun modo specifiche dell’eolico: “sono dappertutto”, dice una delle persone sentite da Report. Bisogna dunque semmai chiedersi perché la ‘ndrangheta è dappertutto e come fare a sconfiggerla, cioè a rintracciare le responsabilità, ingabbiare i delinquenti, e rimuovere tutte quelle circostanza (anzitutto di ordine normativo, regolatorio e istituzionale) che favoriscono la criminalità.

Ma la questione, almeno per quel che riguarda l’eolico, è anche davvero semplice: come abbiamo spiegato assieme a Carlo Durante,

il rischio implicito dell’investire in Italia (non solo nelle rinnovabili) è fonte di un rischio “Paese” più elevato della media. Ci si aspetta, dunque, una remunerazione più elevata. Ecco il risultato di troppo compromesso, di mancata chiarezza delle regole, o di regole mancate. Ecco come si spiega, e si volatilizza, un’altra fetta dell’incentivo.

Il punto, cioè, è che la confusione burocratica e la moltiplicazione dei passaggi amministrativi crea una naturale alcova per le infiltrazioni e, nella migliore delle ipotesi, per comportamenti non cristallini. Sarà contato – ma evidentemente non lo è – dire che l’opacità dipende… dalla scarsa trasparenza. Ed è nell’opacità che si incista l’illegalità. Dunque, un conto è condurre un’inchiesta su casi specifici nei quali la criminalità ha preso il sopravvento, altra cosa è generalizzare, o dare l’impressione di generalizzare, istituendo il collegamento tra eolico e mafia. In altre parole, non conta quanti siano i casi di incesto tra la mafia e l’eolico: sono tutti casi isolati, e non è una battuta. Sono casi isolati perché non sono specifici dell’eolico, ma specifici della burocrazia italiana. Volete sconfiggere la mafia eolica? Semplificate, semplificate, semplificate.

Tutto il resto viene dal demonio.

]]>
/2010/11/29/se-le-pale-girano-nel-verso-sbagliato/feed/ 7
Autorità indipendenti: perché continuiamo a raccontarci favole? /2010/11/28/autorita-indipendenti-perche-continuiamo-a-raccontarci-favole/ /2010/11/28/autorita-indipendenti-perche-continuiamo-a-raccontarci-favole/#comments Sun, 28 Nov 2010 10:37:20 +0000 Alberto Mingardi /?p=7714 Della situazione paradossale che si è creata con la lettera di “indisponibilità” di Antonio Catricalà, ha già scritto Carlo Stagnaro. Da parte via, vorrei solo aggiungere qualche considerazione.

Si possono dire molte cose, sugli sfortunati giri di giostra che hanno coinvolto il Presidente dell’Antitrust negli ultimi mesi. Prima avrebbe dovuto attraversare la piazza, e spostarsi dall’AGCM alla Consob. La nomina del Presidente di questa Authority è rimasta bloccata per alcuni mesi, presumibilmente a fronte della capacità di interdizione di coloro che avrebbero visto meglio su quella poltrona Catricalà anziché Giuseppe Vegas. A scanso di equivoci: si tratta, in un caso e nell’altro, di tecnici stimati, due figure che si avvicinano quanto possibile in Italia all’identikit di un “civil servant” dal profilo alto. In un caso e nell’altro, l’arrivo alla Consob sarebbe stato in qualche misura anomalo – “poco elegante”, come hanno detto dalle parti del PD. Vegas, che è persona per bene, universalmente stimata, e di sentimenti liberali (il che, almeno da queste parti, è un punto a favore), veniva dal Ministero dell’Economia. Catricalà avrebbe lasciato un’altra Autorità indipendente, prima della conclusione del mandato.

Quando finalmente il governo ha esplicitato la sua preferenza per Vegas (la nomina è su indicazione del Presidente del Consiglio, deve passare per le commissioni parlamentari e poi avere il “bollino” del Presidente della Repubblica), Catricalà è stato dirottato sull’energia – dove si è appena concluso il settennato di Alessandro Ortis. Carlo Stagnaro ha già spiegato come la cinquina di commissari all’energia fosse “figlia di un accordo tra il Pdl, la Lega e la maggioranza interna del Pd, mentre lasciava a bocca asciutta Udc, Idv e Fli”. Tanto vale notare che lasciare a bocca asciutta Fli in fatto di Authority era in tutta evidenza una strategia molto stupida.

Perché? La risposta a questa domanda spiega perché Catricalà non sia riuscito, nonostante la stima di cui gode nelle istituzioni e il supporto di Gianni Letta, a diventare Presidente della Consob. Perché il capo dell’Antitrust deve essere nominato congiuntamente dal Presidente della Camera e da quello del Senato. Il Presidente della Camera di Fli è, come è noto, il leader e fondatore.

Si è scritto che Antonio Pilati non avrebbe potuto fare il Presidente pro tempore dell’Antitrust (essendo membro anziano, nella vacatio a lui sarebbe spettata tale responsabilità) perché “troppo berlusconiano” ovvero fra gli estensori della legge Gasparri. Come la pensi Pilati sullo sviluppo del mercato televisivo in Italia, non è un mistero. Con Franco Debenedetti, ha scritto un libro, “La guerra dei trent’anni”, proprio su questo.

Dichiaro un conflitto d’interessi. Considero Antonio Pilati uno dei miei amici più cari, e quindi è naturale che pensi non solo che avrebbe potuto fare il Presidente dell’Antitrust, e non solo pro tempore, ma che l’avrebbe fatto con la professionalità e l’intelligenza che gli sono propri. Al di là delle persone, però, forse sarebbe utile che utilizzassimo questa ridicola pantomima sulle nomine all’Energia e all’Antitrust per qualche considerazione di ordine generale.

Se l’indipendenza delle Autorità può essere un “dato” nel loro funzionamento concreto, e segnatamente nel rapporto che formalmente le lega agli altri organi dello Stato, l’indipendenza in senso assoluto non esiste. I loro componenti debbono, è vero, esibire requisiti di “riconosciuta professionalità e notoria indipendenza”. Ma che significa? Limitiamoci all’AGCM, dove la nomina del collegio è in capo ai Presidenti delle due Camere. Nella legge istitutiva dell’Autorità, questo avrebbe dovuto garantirla da pressioni politiche le più varie. Quella legge è stata scritta al tramonto della prima repubblica, ed è debitrice ai suoi riti. Allora, i Presidenti delle due Camere erano signori maturi che si ponevano fuori dai giochi. Non proprio il profilo di personaggi come Luciano Violante, Pierferdinando Casini, Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini, tutti politici di primo piano. Allora, una camera andava all’opposizione: convenzione mai più rispettata, dal ’94 in qua.

La composizione dei collegi dell’Antitrust ha sempre riflettuto l’appartenenza dei Presidenti delle due Camere. Il primo collegio, dopo la morte di Francesco Saja, fu presieduto da Giuliano Amato: ragionevolmente considerabile, soprattutto nel 1994, l’uomo della sinistra più vicino a Berlusconi (e un politico non di seconda fila: aveva già fatto, e avrebbe fatto di nuovo, il presidente del consiglio). L’Autorità a guida Tesauro è ricordata da molti con rimpianto, perché composta soprattutto da “tecnici”: bravi studiosi come Michele Grillo e Marco D’Alberti, apprezzati dai colleghi, legittimamente vicini ai partiti di sinistra. Il membro berlusconiano era il giurista bolognese Giorgio Bernini, che era stato ministro del commercio estero e poi divenne presidente di RFI.

Siamo all’era Catricalà. Stimato a sinistra (indimenticabile il suo feeling con Bersani ministro dell’industria), Catricalà era stato capo di gabinetto di Antonio Maccanico al ministero delle poste, poi segretario generale del primo consiglio dell’Autorità delle telecomunicazioni, poi segretario generale della Presidenza del Consiglio ai tempi del secondo governo Berlusconi (2001) fino all’approdo all’Antitrust. Non proprio uno che i politici li ha visti solo da lontano.

Gli altri componenti dell’Autorità sono analogamente stati scelti dai Presidenti della Camera o del Senato, raramente in contrasto con l’appartenenza politica degli stessi. Guazzaloca uscì dal cilindro del sodale bolognese Casini, Pilati era “in quota” al berlusconiano Pera, la nomina di Rabitti Bedogni è riconducibile a Bertinotti, quella di Piero Barucci (figura di grande prestigio, già ministro e presidente dell’Abi) a Franco Marini, Salvatore Rebecchini ha condotto una carriera limpida e integerrima in Banca d’Italia, ma la sua famiglia è stata tradizionalmente vicina a Fini.

Finché i meccanismi di nomina saranno quelli che sono, non prendiamoci in giro: è normale che vengano scelti “tecnici” non insensibili alla politica. Le authority non dipendono dallo Spirito Santo. Varrebbe la pena prestare più attenzione ai requisiti di professionalità, anziché andare a farfalle cercando l’Indipendenza con la i maiuscola. Sarebbe auspicabile rendere più trasparenti i meccanismi di nomina? Indubbiamente. Ma non illudiamoci. Si passi dalle commissioni parlamentari, o dai presidenti delle camere, sempre di scelte riconducibili alla politica si tratta.

L’indipendenza ed efficacia delle Autorità va misurata e controllata decisione dopo decisione, senza mai chiudere gli occhi (e del resto, perché dovrebbe bastare essere “indipendenti” per non fare fesserie?). Sul resto, meglio sarebbe se i nostri politici la smettessero di fingere di credere a Babbo Natale – rigorosamente quando gli fa comodo.

]]>
/2010/11/28/autorita-indipendenti-perche-continuiamo-a-raccontarci-favole/feed/ 1