CHICAGO BLOG » Diritti individuali http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 11:09:36 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Legalizzare l’uso di stupefacenti: quale impatto sui bilanci pubblici? – di Flavio Stanchi /2010/12/21/legalizzare-l%e2%80%99uso-di-stupefacenti-quale-impatto-sui-bilanci-pubblici-%e2%80%93-di-flavio-stanchi/ /2010/12/21/legalizzare-l%e2%80%99uso-di-stupefacenti-quale-impatto-sui-bilanci-pubblici-%e2%80%93-di-flavio-stanchi/#comments Tue, 21 Dec 2010 16:00:09 +0000 Guest /?p=7882 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Flavio Stanchi:

Lo stato della California, che deve rimediare ad un deficit di bilancio di 19,9 miliardi di dollari in vista dell’anno fiscale 2011, a inizio novembre ha votato per il “no” in un referendum popolare sulla legalizzazione della marijuana.

Se a prima vista le due cose possono apparire poco legate tra di loro, bisogna sapere che un recente studio (PDF) di due economisti americani, Jeffrey A. Miron e Katherine Waldock, edito dal Cato Institute, mostra come la stessa California avrebbe potuto generare dalla legalizzazione un risparmio per le casse dello stato di circa 960 milioni di dollari all’anno, senza considerare i possibili introiti derivanti dalla tassazione della droga in questione, stimabili intorno ai 352 milioni di dollari annui. In realtà il dato potrebbe anche essere maggiore, in quanto i due autori, per impostare il calcolo, hanno costruito uno scenario in cui si ipotizza la legalizzazione contemporanea degli stupefacenti da parte di tutti gli stati e del governo federale degli Stati Uniti d’America. Questo significa che, a causa della concorrenza tra stati, gli introiti di natura fiscale risultano minori per ciascuno stato rispetto al caso di una legalizzazione nella sola California.

Per calcolare i possibili ricavi derivanti dalla tassazione delle droghe legalizzate, gli autori hanno prima stimato l’ammontare della spesa in stupefacenti da parte dei consumatori sotto l’attuale condizione di divieto (basandosi sulle stime dell’Office of National Drug Control Policy, rivedute e corrette); in secondo luogo, hanno stimato l’ammontare della stessa spesa nel caso della legalizzazione; infine, guardando all’attuale situazione di alcool e tabacco, hanno formulato un’assunzione sulla tassazione che verrebbe applicata. Lo studio ipotizza che la curva di domanda rimanga invariata a seguito della legalizzazione, a causa del contrasto tra il maggior consumo casuale e la riduzione nel consumo dovuta a un effetto “frutto proibito”: la droga perderebbe il fascino dell’illegalità. Dal lato dell’offerta, prezzi e quantità prodotte dipenderebbero largamente dal tipo di droga in considerazione; se da alcune ricerche emerge che il prezzo della marijuana potrebbe subire una flessione inferiore o uguale al 50%, d’altra parte è lecito aspettarsi che i prezzi della cocaina e dell’eroina possano crollare rispettivamente fino al 20% e al 5% dei prezzi attuali. L’effetto sul consumo varierebbe a seconda dell’elasticità della domanda di stupefacenti, che alcuni studi mostrano essere anelastica; questo significa che una diminuzione del prezzo porterebbe a una riduzione della spesa totale in stupefacenti.

Partendo da queste ipotesi e allargando l’analisi a tutti gli stati e al governo federale, il risparmio per il paese dovuto alla legalizzazione della sola marijuana ammonterebbe a circa 8,7 milardi di dollari, derivanti dalla riduzione delle spese di polizia, delle spese giudiziarie e di quelle penitenziarie legate al traffico e al possesso della droga. Ipotizzando poi una tassazione simile a quella di alcool e tabacco, con un’accisa che pesa per il 33% del prezzo finale, e considerando anche le potenziali maggiori entrate delle imposte sul valore aggiunto e sui redditi, gli autori calcolano possibili introiti per altri 8,7 miliardi di dollari.

Generalizzando ulteriormente e guardando alle cifre relative alla legalizzazione (altamente improbabile) di tutti gli stupefacenti, il risparmio per le casse del paese salirebbe a 41,3 miliardi di dollari all’anno e le entrate della tassazione sarebbero pari a 46,7 miliardi di dollari all’anno, per un impatto totale sul bilancio di circa 88 miliardi di dollari annui. Per quanto sia improbabile che i risparmi possano davvero essere quelli prospettati, perché ciò implicherebbe licenziamenti tra le forze dell’ordine, i pubblici ministeri, ecc., è comunque plausibile ipotizzare un miglioramento economico dovuto al ricollocamento di questi a mansioni più produttive.

Il fatto che la legalizzazione possa generare dividendi fiscali non è, da sola, una ragione valida per considerarla una policy migliore della proibizione. Che si prenda l’una o l’altra parte, è tuttavia utile avere un’idea dell’ordine di grandezza dei possibili benefici economici che ne deriverebbero.

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Il “Contro-Rapporto Monti” dell’IBL: per un’Europa più integrata dal mercato e più aperta al mondo /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/ /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/#comments Thu, 02 Dec 2010 21:16:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=7754 Qualche mese fa, su invito di José Barroso, l’ex commissario europeo Mario Monti ha redatto un rapporto intitolato A new strategy for the single market at the service of Europe’s economy and society , con l’obiettivo di indicare talune linee fondamentali di sviluppo per l’Europa di oggi e di domani.

Il rapporto contiene talune proposte ragionevoli e in particolare auspica una crescita del mercato interno, che faccia saltare le molte e talvolta assai alte barriere che impediscono una piena integrazione tra i vari Paesi dell’Europa a 27 e le loro distinte economie. Ma, al tempo stesso, il testo redatto da Monti contiene argomenti e proposte assai discutibili. In particolare, esso formula una netta difesa di vecchi vizi statalisti europei (specie in tema di welfare) e per giunta esprime una esplicita avversione per la concorrenza istituzionale: soprattutto in materia fiscale.

Per questo motivo l’Istituto Bruno Leoni ha pensato di predisporre una sua interpretazione del “rapporto Monti”, affidando a un gruppo di lavoro internazionale il compito di commentare – capitolo dopo capitolo – tutte le tesi contenute nel testo predisposto dall’economista italiano. Questo lavoro a più mani si intitola Il “Rapporto Monti”: una lettura critica (qui in italiano e qui in inglese) e ha potuto avvalersi del contributo di vari studiosi, italiani e no: Filippo Cavazzoni, Luigi Ceffalo, Luca Fava, Pierre Garello, Carlo Lottieri, Diego Menegon, Alberto Mingardi, Lucia Quaglino, Dalibor Rohac, Josef Sima e Carlo Stagnaro.

Il testo è stato presentato a Bruxelles oggi, 2 dicembre, nel corso di un seminario cui ha partecipato lo stesso Monti. L’obiettivo è stato quello di evidenziare i limiti delle proposte avanzate dall’ex commissario, non sempre coerenti con una visione autenticamente di mercato, sottolineando come la logica dirigista di molte tesi del Rapporto  ostacoli – al di là delle dichiarazioni e delle intenzioni – lo sviluppo di un’economia europea davvero dinamica, integrata e concorrenziale.

I temi essenziali della critica sviluppata dal “contro-rapporto” targato IBL emergono con chiarezza in questo passo, tratto dall’introduzione:

Dietro la riflessione di Monti si vede la proposta di un “grande scambio”: per costruire il mercato interno, gli Stati membri devono dotarsi di sistemi di welfare state sufficienti ad ammortizzare la transizione e sostenere il consenso; perché questo sia possibile, occorre perseguire un grande disegno di armonizzazione fiscale, volto a colpire sia la “concorrenza fiscale” all’interno dell’Ue, sia – a maggior ragione – quella dei “paradisi fiscali”.

L’analisi dell’IBL punta insomma a raccogliere la sfida del “Rapporto Monti”, per valorizzarne gli aspetti positivi, ma anche e soprattutto per sottolineare come un vero mercato non possa essere “unico” (e cioè ristretto alla piccola Europa), non possa basarsi su una tassazione e su una regolamentazione asfissianti (tratti caratteristici del modello welfarista “renano”) e non possa in alcun modo avvantaggiarsi da un’armonizzazione fiscale costruita dall’alto, che riduca quella pressione competitiva che finora ha impedito ai governi europei di espandere in maniera illimitata le loro pretese.

Se infatti le aliquote marginali delle imposte dirette sono significativamente calate un po’ ovunque (dopo che negli anni Settanta erano giunte a livelli altissimi, e non soltanto in Svezia), questo è stato dovuto non tanto a un cambiamento di orientamenti culturali (che pure in parte si è verificato), ma è stato soprattutto conseguente allo sforzo di quei ministri dell’Economia dei vari Paesi europei che hanno fatto il possibile per non perdere tutti i propri contribuenti più importanti. Quando i capitali si muovono e si trasferiscono altrove, che senso ha, infatti, tenere aliquote molto alte, se esse sono ormai prive di una base imponibile? Meglio portare a casa il 45% di 50 che il 90% di 5.

Su questo specifico punto sviluppa una riflessione molto sofisticata un altro lavoro discusso oggi a Bruxelles, anche’esso promosso dall?IBL, e cioè il saggio Tax Competition: A Curse or A Blessing? (qui in inglese, ma qui c’è una sintesi in italiano) di Dalibor Rohac, un giovane e brillante economista slovacco che oggi è un ricercatore del Legatum Institute e che qualche anno fa fu pure a Sestri Levante quale relatore di Mises Seminar organizzato dall’IBL. Avvalendosi della teoria dei giochi, nel suo studio Rohac mostra come un’armonizzazione calata dall’alto blocchi ogni processo di apprendimento e soprattutto ostacoli quel dinamismo degli attori che – sul medio e lungo termine – favorisce l’abbassamento delle aliquote e, in questo modo, aiuta a realizzare una migliore integrazione delle economie.

Un’Europa fiscalmente armonizzata, insomma, è destinata a diventare un vero inferno fiscale. Più di quanto non lo sia già oggi.

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Viva la Rai /2010/11/30/viva-la-rai/ /2010/11/30/viva-la-rai/#comments Tue, 30 Nov 2010 09:17:43 +0000 Guest /?p=7732 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Antonio Sileo:

Con l’approssimarsi della fine dell’anno arrivano puntuali, tra le altre, le pubblicità che ricordano di pagare il canone per la gloriosa Radiotelevisione italiana. Con queste, regolarmente, divampano commenti pro e contro e non mancano le proposte per risolvere la non poca “evasione”.

Il neoministro Paolo Romani – di telecomunicazioni grande esperto – ha ripreso un’idea che a dire balzana non si scherza.  «A tutti i titolari di un contratto di fornitura di elettricità, siano essi famiglie, pubblici esercizi o professionisti, verrà chiesto di pagare il canone, perché, ragionevolmente, se uno ha l’elettricità, ha anche l’apparecchio tv. Chi non ha la televisione dovrà dimostrarlo e, solo in quel caso, non pagherà» ha dichiarato al Corriere della Sera il ministro.
Certo, si dirà che alcune ultime proposte di Romani non abbiano incontrato un così gran successo (ci riferiamo ai cinque nomi suggeriti per il collegio dell’Autorità per l’energia). Tuttavia, l’iniziativa è seria, tanto che rientrerebbe nella riforma del canone Rai che dovrebbe essere presentata col decreto milleproroghe o, comunque, entro l’anno. Il fine è meritorio: azzerare la grande evasione (circa il 30%) e, allo stesso tempo, pagare meno; pagare tutti, proprio tutti, ma meno.
Ora, è evidente che il ministro non è mai stato alle presentazioni della relazione annuale dell’Autorità per l’energia. Sono noti, infatti, gli appelli di Alessandro Ortis e Tullio Fanelli per spostare una parte degli oneri per l’incentivazione delle rinnovabili dalla bolletta alla fiscalità generale, ma trasformare chi fattura energia elettrica in esattore elettronico sostituto pare proprio un po’ troppo, anche perché, a stare attenti, sarebbe solo l’inizio. È in grande aumento, infatti, l’utilizzo di schermi che permettono di vedere la televisione in auto, sono il trastullo di tanti autisti in città e di molti ragazzi in periferia. Dobbiamo quindi aspettarci una nuova componete RaiTV tra le accise di diesel e benzina?

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Ciapa là! Lezione dalla Svizzera sui referendum e il fisco. Di Sergio Morisoli /2010/11/29/ciapa-la-lezione-dalla-svizzera-sui-referendum-e-il-fisco-di-sergio-morisoli/ /2010/11/29/ciapa-la-lezione-dalla-svizzera-sui-referendum-e-il-fisco-di-sergio-morisoli/#comments Mon, 29 Nov 2010 12:45:51 +0000 Guest /?p=7721 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Sergio Morisoli:

Ancora una volta, domenica 28 novembre, la democrazia diretta elvetica ha dimostrato tutta la sua efficienza ed efficacia. Sia il banchiere zurighese di Paradeplatz, sia l’ultimo contadino di montagna sperduto in una remota valle alpina (la partecipazione alle urne ha superato il 50%), hanno potuto esprimersi direttamente e senza intermediazioni né partitiche né di rappresentanti politici su due temi importantissimi: il federalismo fiscale e l’espulsione degli stranieri che commettono crimini sul territorio della Confederazione.

I temi in votazione federale necessitano sempre di una doppia maggioranza: quella del popolo e quella dei 26 Cantoni. I cittadini svizzeri hanno rifiutato con un sonoro 58.5% l’iniziativa dei socialisti che intendeva armonizzare i sistemi fiscali dei 26 cantoni introducendo aliquote minime per i cosiddetti ricchi. Questo passo avrebbe minato in un colpo solo: (1) il federalismo fiscale svizzero fatto del 30% di imposte che vanno alla Confederazione e del 70% che rimane ai Cantoni e ai Comuni; (2) la sana concorrenza al ribasso tra le 26 leggi tributarie cantonali; (3) l’attrattività di insediamento in Svizzera per aziende e benestanti; e non da ultimo (4) avrebbe a medio termine esposto l’intera Svizzera a pressioni fiscali armonizzatrici da parte dell’UE, producendo crepe nella sovranità in materia di finanza pubblica. Il cittadino svizzero ha invece nuovamente ribadito che vuole decidere lui sia le spese pubbliche sia la loro copertura. Vuole decidere lui il grado di ridistribuzione che il fisco deve giocare. E vuole decidere lui cosa è fiscalmente equo e ciò che non lo è, senza rigidi e duraturi vincoli di legge. Domenica il cittadino svizzero ha fatto suo il principio che chi paga comanda e chi comanda paga.

Il secondo tema in votazione era l’iniziativa dell’Unione Democratica di Centro, un partito di destra, che voleva l’espulsione diretta dei residenti stranieri che commettono crimini in Svizzera. Va notato che la Svizzera, non lo si ricorda mai, detiene il record europeo quanto a popolazione straniera residente (quasi 1 cittadino su 4). Anche qui il cittadino si è pronunciato con una maggioranza del 53% non per una politica xenofoba, bensì di protezione, ribadendo che il Paese è certamente aperto all’immigrazione, a patto che chi entri in casa si comporti adeguatamente, rispetti la cultura e i valori locali, e contribuisca a costruire il proprio benessere personale e il bene comune. Si noti che il Governo federale aveva proposto un controprogetto di legge che mirava allo stesso scopo, ma sfumando le casistiche di crimine. I cittadini lo hanno semplicemente ignorato, scegliendo la versione originale per la quale erano state raccolte le firme popolari. Il voto popolare dovrà certamente venire corretto tecnicamente dal punto di vista giuridico, ma la politica non potrà non riconoscere il chiaro messaggio uscito dall’urna in materia di residenza e delinquenza.

Il vecchio metodo svizzero di far esprimere su tutto il popolo ha di nuovo smentito chi pensava di scrivere a tavolino le regole di come appropriarsi di mezzi privati; e ha pure smentito chi pensava che le porte da tempo tradizionalmente aperte agli stranieri dovevano rimanere tali sempre e a prescindere dal fatto se chi entra abbia buone o cattive intenzioni.

Sergio Morisoli è economista

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Famiglia e fisco: lo scudo del diritto naturale /2010/11/09/famiglia-e-fisco-lo-scudo-del-diritto-naturale/ /2010/11/09/famiglia-e-fisco-lo-scudo-del-diritto-naturale/#comments Tue, 09 Nov 2010 16:24:16 +0000 Oscar Giannino /?p=7538 Le polemiche e le difficoltà aperte nel governo e nella maggioranza non potevano risparmiare la Conferenza nazionale sulla famiglia, apertasi ieri a Milano. L’arcivescovo Dionigi Tettamanzi è stato chiaro: non è più tempo solo per declinare valori e princìpi, quel che serve sono azioni concrete. I rappresentanti del governo, il ministro del welfare Maurizio Sacconi e il sottosegretario Giovanardi che ha la delega per le politiche familiari, hanno risposto illustrando il cantiere aperto dell’esecutivo, che in primis inevitabilmente troverà espressione nella tanto promessa riforma fiscale, attesa da troppi anni ormai per crederci davvero come imminente e risolutiva, ai cui lavori preparatori Tremonti ha recentemnet associato l’intera società economica e civile. Ma ecco che le tensioni politiche hanno inevitabilmente fatto capolino, spostando l’attenzione per ore sulla difesa della famiglia ex articolo 29 della Costituzione, alla quale l’opposizione ha immediatamente contrapposto la difesa delle unioni di fatto, divenute oltre 820 mila di cui solo 300 mila negli ultimi 6 anni. Considero queste derive laiciste una stupidaggine.

La famiglia naturale composta da persone eterosessuali è un fondamento etico del quale non si può negare la legittima difesa. Senza per questo escludere le coppie di fatto con figli dalle nuove egevolazioni. Ma sarebbe meglio se la politica badasse al sodo della questione, prima di inoltrarsi sulla via della polemica. Perché, altrimenti, il rischio è di contrapporre etiche distinte, ma trascurando di fatto la centralità della famiglia in quanto tale. Nucleo essenziale della vita sociale ed economica del nostro Paese. Primo integratore del reddito di giovani e anziani, disabili e malati. Cellula fondamentale della formazione del capitale umano e relazionale, i due pilastri essenziali dello sviluppo in una società della conoscenza, prima ancora del capitale fisico e di quello finanziario.

La famiglia italiana è il primo protagonista della vita nazionale, ed è insieme quello che ha più titoli per una profonda delusione. E’ il soggetto più trascurato dalla politica, più ancora delle imprese, più e peggio dei lavoratori e dei pensionati. Se diamo un’occhiata alle cifre rielaborate nel rapporto Cisf 2009 pubblicato da Franco Angeli pochi mesi fa, c’è da raggelare. Il 53,45 delle famiglie italiane, che sono in totale circa 24 milioni, non ha figli. Il 21,9% ha un figlio. Il 19,5% ne ha due. Il 4,4% ne ha tre. Solo lo 0,7% ne ha quattro. E’ dal 1978 che il tasso di fecondità è molto al di sotto di quei 2,1 figli per donna che servono a tenere in equilibrio la composizione per età della popolazione, e cioè a preservare i conti previdenziali intergenerazionali in futuro. Siamo nel 2009 a 1,4 figli per donna, 1,3 tra le italiane e 2,1 per le immigrate.

Eppure, nei sondaggi il numero medio dei figli desiderati dalle famiglie italiane sarebbe superiore a 2. Poiché generalmente non viviamo più in un Paese disposto ai sacrifici di cui furono capaci i nostri padri e i nostri nonni, è allo Stato che le famiglie italiane imputano la responsabilità per il numero inferiore di figli a cui sono per così dire “costrette”. Quando nella famiglia sono presenti tre figli, l’incidenza della povertà assoluta -à espressa come distanza dalla linea mediana del reddito procapite delle famiglie italiane – raddoppia, passando all’8% rispetto al 4% che riguarda le famiglie italiane nella loro totalità, e quadruplica rispetto al 2% che riguarda invece le famiglie con un solo figlio. Se i costo mensile di mantenimento di un bambino tra o e 5 anni è calcolato dall’Istat mediamente come di 317 euro al mese, il costo di accrescimento complessivo del figlio finché resta a carico diventa in media di 800 euro al mese. Ed è dichiarando di non poter sopportare questi costi, che oltre la metà delle famiglie finisce per restare senza figli.

Ci sono almeno tre questioni di fondo alle quali non è facile rispondere, stanti le condizioni della finanza pubblica italiana – motivo che spiega perché Tremonti proceda coi piedi di piombo.

Il primo è il fisco, che in Italia disconosce la capacità contributiva se non individuale a differenza di quanto capita in tantissimi altri paese, e così finisce per sfavorire la fecondità visto che, per chi ha tre figli e con un reddito sino ai 20 mila euro l’anno, il fisco italiano finisce per gravare tra il 30 e il 40% in più rispetto alla Francia e alla Germania. Personalmente sono per il minimumfamilienprinzip alla tedesca, un tetto di reddito familiare modificato di anno in anno dfel tutto intangibile a quelunque pretesa fiscale dell’ordinamento. Una sana barriera di diritto naturale alla fame dello Stato, in germania reintrodotta dalla Corte di Karlsruhe, primo motore della discesa della spesa pubblica e della pressione fiscale di olrre 5 punti di Pil prima della crisi.

Il secondo è il peso relativo dell’intera politica sociale rivolta alla famiglia, dagli asili nido fino alla conciliazione dei tempi-lavoro di padri e madri rispetto ai congedi parentali: l’Italia spende per la funzione famiglia poco più dell’1% del Pil, la Francia il 2,5% e la Germania più del 3%. Spostare un punto e qualcosa di Pil a favore della famiglia significa spostare 16 miliardi di euro, raggiungere la Francia significa riallocarne 23. Alzi la mano chi è disposto, tra i beneficiari della spesa pubblica italiana, a rinunciare a somme che, per addizione, giungano a cifre simili.

Il terzo è che l’intero welfare andrebbe riorientato in maniera sussidiaria, decentrate e aperta al privato sociale, ponendo al centro la famiglia e incentivando fiscalmente chi le offre servizi che lo Stato non è in grado di offrire.

E’ una vera rivoluzione, quella che servirebbe per ridare smalto e futuro alla famiglia italiana. In un Paese in cui tutti lamentano di voler più spesa pubblica per sé, resterà impossibile fare una scelta decisa a favore del nostro futuro. E’ solo tagliando in profondità e riallocando con decisione a favore della procreazione, che non dipenderemo in futuro da un numero ancora maggiore di immigrati.

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Perché da noi si mistificano i Tea Parties /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/ /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/#comments Tue, 09 Nov 2010 15:55:32 +0000 Oscar Giannino /?p=7534 Ancora una volta, negli Stati Uniti il pendolo elettorale si è potentemente spostato. E ancora una volta lo ha fatto in una maniera che in Italia e nel più dell’Europa continentale risulta incomprensibile. Ve ne fornisco una modesta riprova.

Ho condotto un’indagine registrando sul mio pc 276 articoli dell’intero spettro della stampa quotidiana nazionale e locale italiana dal manifesto a Libero e comprese 15 testate locali più importanti, articoli dedicati alla presentazione delle elezioni di midterm nella settimana che ha preceduto le consultazioni, e oltre 350 nei tre giorni successivi, a commento del risultato. In queste elezioni la grande novità è rappresentata dalla storia e dalla posizione dei Tea Parties, che hanno invertito la polarità come il Contratto con l’America di Newt Gingrich fu la base del lunghi anni di Congresso repubblicano, da metà mandato di Clinton fino alla rivincita democratica sotto Bush figlio. Ebbene, su un totale di oltre 600 articoli, circa 480 davano conto dei Tea Parties come una rete potentemente sostenuta dalle grandi corporations, pressoché agli ordini o quanto meno astutamente strumentalizzata da Karl Rove – il mago della mobilitazione repubblicana sotto Bush padre e figlio – nonché come un movimento in cui abbondavano pazzi e spostati, razzisti del Sud armati fino ai denti, antiabortisti visionari e ballisti predicatori di castità come Christine O’Donnel, che ha finito per perdere disastrosamente in Delaware. Dettagliate e più corrette – a mio giudizio, naturalmente, non ho alcuna pretesa di parlare a nome di presunte “verità” – ricostruzioni dei Tea Parties come movimento che nasce si diffonde localmente, come protesta spontanea dal basso innanzitutto contro le politiche stataliste e salvabanche seguite da Bush figlio ben prima ancora che Obama vincesse le elezioni, prima del voto sono state offerte ai lettori italiani a malapena in una cinquantina di articoli, meno cioè del 10%.

Solo all’indomani del voto, la percentuale di analisi meno estreme dedicate ai Tea Parties si è leggermente equilibrata, soprattutto grazie a vittorie di personaggi di spicco come Marc Rubio in Florida, comunque descritto come politico di lungo corso abile nel cavalcare la protesta ma estraneo alla vera natura del movimento. Gli accenti già mutavano quando si passava alla descrizione di Rand Paul, il giovane oftalmologo vittorioso grazie soprattutto al fatto di essere figlio di Ron Paul, figura di riferimento dell’elettorato libertario pronto anche a candidarsi come indipendente nella gara per le ultime presidenziali, con proposte che in Europa lo fanno passare come matto quali l’abolizione della FED e il ritorno in sua vece al regime del gold standard. Tra parentesi, nella nuova Camera dei Rappresentanti a nettissima maggioranza repubblicana è proprio Ron Paul, il candidato senior repubblicano numero uno alla carica di presidente del sottocomitato alla politica monetaria che è l’interfaccia parlamentare al quale la FED di Bernanke risponde direttamente, visto che nell’ordinamento americano l’autonomia e l’indipendenza del regolatore monetario non lo sottrae a uno stretto regime di audizioni parlamentari, nelle quali i congressmen passano al setaccio le decisioni e gli orientamenti della banca centrale.

Commentando il voto nel mio appuntamento quotidiano con gli ascoltatori di Radio24, ho chiesto esplicitamente al direttore della Stampa, Mario Calabresi, che sul suo giornale insieme al Foglio di Giuliano Ferrara a mio personalissimo giudizio ha dato le informazioni più estese e corrette sui Tea Parties, se non pesasse un pregiudizio tutto italiano e per molti versi europeo, nel leggere i fenomeni spontanei della società americana attraverso lenti deformanti e spesso addirittura caricaturali. Mi ha risposto di sì, che anche nella sua esperienza di corrispondente dagli USA aveva spesso toccato con mano che questo pregiudizio c’è eccome.

Non è questione di malafede, o di voler artatamente leggere la politica americana con l’occhio italiano ed europeo, che è abituato a considerare i partiti politici come unici veri attori della politica e, di solito, con una forza o un polo a maggioranza moderato-cristiano alla quale si oppone un grande partito o un’alleanza progressista-socialista. Un doppio binario che negli States è fuorviante: perché lì la mobilitazione dal basso indipendentemente dai partiti è costitutiva dell’idea stessa dell’Unione, il socialismo non c’è mai stato, e l’impronta religiosa e cristiana vive e influenza pesantemente entrambe le basi e le dirigenze sia democratiche sia repubblicane, con accenti diversi ma a volte assolutamente trasversali su temi come l’aborto, la bioetica e la ricerca sulle cellule staminali.

C’è qualcosa di più profondo ancora del vizio politologico. E’ un difetto culturale, quello che tanto spesso ci impedisce di capire l’America profonda. Perché siamo pronti a comprendere l’America liberal, quella delle élite accademiche, mediatiche e e degli affari della costa orientale come californiana che da sempre costituiscono il bastione del pensiero progressista americano, favorevole all’intervento pubblico e alle politiche redistribuzioniste, alla forte impronta statalista nella sanità come nel campo ambientale. Sono quelle èlite, sommate a un forte scontento per la guerra in Iraq e in Afghanistan, che nel 2008 si mobilitarono per una riuscitissima campagna dal basso e di raccolta fondi online che risultò decisiva per la vittoria del primo presidente nero contro l’accoppiata McCain-Palin. Una vittoria della quale il primo fattore era l’elevata partecipazione al voto, perché tradizionalmente più si alza l’afflusso alle urne dei ceti a basso reddito, migliori diventano le chances dei democratici.

Ma come siamo tradizionalmente propensi ad avvertire l’impegno delle èlite progressiste americane come qualcosa di familiare a quanto avviene nella politica europea, restiamo invece diffidenti e incapaci di capire una mobilitazione dal basso che non passa affatto dalle élite e che anzi le contesta apertamente, a cominciare dal campo conservatore e da quelle del partito repubblicano. E’ esattamente questo il segno originale dei Tea Parties, che in tutti i sondaggi di cui i lettori italiani hanno letto poco o nulla hanno visto impegnati in maniera crescente elettori che si dichiaravano indipendenti fino a percentuali del 40%, meno lontani dai repubblicani ma comunque per un 16-17% dei casi dichiaratamente ex elettori democratici e non solo alle presidenziali per Obama, ma tradizionalmente al Congresso o per governatori dello Stato.

Che cos’è, allora, a impedirci di capire l’anelito libertario prima che liberista che viene espresso questa volta dai Tea Parties, ma che è una componente permanente e ricorrente dell’impegno civile americano fuori dai partiti e dalla lobbies, siano delle grandi banche che da decenni si sono “comprate” il regolatore USA odelle grande compagnie di ogni genere e settore, dal petrolio agli armamenti, dall’auto a Internet? Essenzialmente tre cose, tre valori, tre princìpi che sono fondanti per decine di milioni di americani nella loro vita quotidiana, prima ancora di ogni giudizio politico sull’amministrazione temporaneamente in carica. I tre princìpi riguardano la proprietà, la libertà e l’eguaglianza. Per moltissimi americani, queste tre parole hanno e manterranno un significato profondamente diverso da come suonano ormai a noi italiani ed europei.

Per noi, la libertà non è più minacciata da alcuna tirannide, e la proprietà privata costituisce non più un bene da affermare come diritto naturale pre esistente a qualuqnue pretesa dell’ordinamento positivo, dello Srato e della politica. La proprietà privata ormai da tempo, nel nostro Paese e nella generalità dell’Europa continentale e scandinava, è anzi un limite sempre più pesante al perseguimento dell’eguaglianza. Per milioni di americani al contrario, anche tra coloro a bassissimo reddito e con le qualifiche più basse nel mondo del lavoro – ce n’è un’infinità nei Tea Parties, non sono ricchi avvocati o rancheros texani – la libertà è per sua stessa natura non egualitaria, perché gli esseri umani differiscono tra loro per forza, intelligenza, ambizione, coraggio e per tutti i più essenziali ingredienti che contribuiscono al successo. Come ha scritto Richard Pipes nel suo bellissimo “Proprietà e libertà”, le pari opportunità e l’eguaglianza di fronte alla legge – nel senso enunciato da Mosè nel Levitico 24,22, “ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per il cittadino del Paese, poiché io sono il Signore vostro Dio” – sono non solo compatibili con la libertà, ma essenziali per la sua sopravvivenza. Ma la parità dei compensi e degli averi – tanto cara a noi – invece non lo è. Anzi essa è del tutto innaturale e pertanto raggiungibile solo attraverso la coercizione. E non c’è coercizione buona quando essa è esercitata in mille modi dagli incentivi e disincentivi pubblici o dalla fiscalità progressiva esercitata dallo Stato, perché al contrario tale coercizione stabilita e perseguita da chi esercita il potere per mandato elettorale risulta ancor più dispotica e inaccettabile di quella esercitata con la forza da un tiranno.

Per quei milioni di americani che si sono mobilitati nei Tea Parties gridando basta all’eccesso di debito pubblico acceso da Obama, ancora insufficiente per i liberals come Paul Krugman e potentemente monetizzato dalla ossequiente FED di Bernanke, l’uguaglianza redistributrice è subdola e inaccettabile perché alzerà ulteriormente le tasse, intaccherà ancor più gravemente le libertà naturali dell’individuo, attribuirà alle persone incaricate di garantirla una serie di privilegi che li innalzeranno ancor più al di sopra del popolo.

Un intero filone della storia americana continua a considerare l’eguaglianza come primo e vero nemico della libertà. E diffida dello Stato e del suo welfare invasivo. Per quegli americani, i diritti economici di libertà indidividuale – cioè la proprietà, e questo spiega anche il diritto a portare armi – resteranno sempre più forti dei diritti civili a un equo trattamento stabilito dall’alto. Per loro, la proprietà privata è l’essenza stessa della diseguaglianza, e al tempo stesso procurarsi una proprietà col successo personale è la più importante delle libertà.

L’Europa, dopo il crac della finanza ad alta leva che spingeva milioni di americani a procurarsi proprietà attraverso l’eccesso di debito, ha pensato che fosse venuto il momento di una vittoria epocale. Finalmente l’anelito proprietario e libertario americano era spezzato per sempre. Lo Stato e le sue politiche redistribuzioniste erano l’unica risposta, l’unica via alla civiltà che tempera l’individuo nel nome degli interessi generali. Che sciocca illusione roussoiana, questa europea. I Tea Parties ci dicono il contrario. L’America profonda sa che crescerà più e meglio di noi con meno Stato o senza Stato tra i piedi. Come è sempre stato. Per questo, del resto, negli USA per ogni cittadino che vive solo del proprio ce n’è non più di 0,6 che percepiscono un qualche reddito integrato o corrisposto dal settore pubblico, mentre in Europa la percentuale è più che doppia da noi, tripla in Francia e quadrupla in Svezia. NOI Siamo figli dell’idealismo organicista, in chiave solidarista cristiana o socialista. La maggioranza degli americani ne resta immune. Quando lo capiremo sarà sempre troppo tardi per noi. Perché, oltre a crescere meno, per questo errore culturale avremo anche subìto più del giusto gli effetti di un’egemonia americana che, nel mondo nuovo, è soggetta sì a potenti ridimensionamenti. Ma portati dalla Cina, non dalla vecchia Europa appesantita dalle sue illusioni.

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/2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/feed/ 9
Basta con gli sregolati. Rimettere le regole al centro /2010/10/28/basta-con-gli-sregolati-rimettere-le-regole-al-centro/ /2010/10/28/basta-con-gli-sregolati-rimettere-le-regole-al-centro/#comments Thu, 28 Oct 2010 15:49:37 +0000 Oscar Giannino /?p=7427 Tutti siamo servi della legge perché possiamo essere liberi, scriveva Cicerone nell’ Oratio pro Cluentio. Proprio per questo il magistrato romano si rivolgeva all’assemblea con una formula di rito, per la quale se nella legge si fosse successivamente scoperto che qualcosa vi era di illegittimo, l’approvazione sarebbe stata nulla. Può sembrare anticaglia, ricordarlo. Invece, è essenziale. In un Paese come l’Italia, dove si stima che il mancato rispetto della rule of law e l’incertezza del diritto ci costino l’equivalente di 400 miliardi di mancato Pil ogni anno cioè quasi un terzo della ricchezza prodotta, riporre le regole al centro della vita pubblica è una strategia di successo sicuro per la crescita. Ed è questo, ciò che propone Roger Abravanel con il suo nuovo libro, intitolato proprio “Regole”, dopo il grande successo della sua precedente opera, dedicata alla meritocrazia, e che tanto ha fatto discutere politica ed economia. Viene facile immaginare il contrasto immediato, tra chi vuole mettere buone regole al centro di un tentativo di ripresa dell’Italia, e il panorama di sregolatezza assoluta – privata e pubblica – che ci propone la politica da qualche tempo a questa parte. Ma su questo non mi soffermo, lascio a ciascuno tutta la riprovazione del caso per una politica ridotta a budoir, dossier, inchieste, appartamentini, amanti e serietà consimili. Preferisco restare al punto, e parlare delle regole nuove.

Solo che per “regole” bisogna intendersi: per noi antistatalisti haykyani, l’ipernormativismo dirigista è un errore altrettanto se non più grave che avre poche regole sbagliate.  Dal nostro punto di vista, isogna tornare cioè alla saggezza antica e a quella della vera civiltà liberale. Non alla prevalenza della legge positiva su quella efficace perché espressione del convergere della società e dei suoi corpi intermedi. Non alla prevalenza dello Stato sulla società, della macro sulla microeconomia, l’unica fa crescere davvero perché si fonda sull’effetto che incentivi e disincentivi esercitano nelle scelte di lavoro, consumo, risparmio e investimento di milioni e milioni di individui.

Dal disordinato prevalere dell’iperproduzione legislativa nata dall’errore socialista e kelseniano, che identificava legge e decisione dello Stato, bisogna tornare alla legge come processo di scoperta invece che come puro atto decretato. Per chi volesse approfondire la fondamentale distinzione, qui un dialogo di Hayek assolutamente illuminante. In questo processo, giocoforza non è più tanto o solo il politico – lontano e spesso ignorante dei processi produttivi e dei veri mali che ritardano la crescita italiana – ma l’uomo d’impresa e chi ha cognizione di economia e sviluppo, a proporre “dal basso” in un processo di ordine spontaneo le nuove regole più efficaci per la crescita.

Analogamente – anche se fino a un certo punto, perché in realtà su questo anch’egli cede a qualche forma di dirigismo -  Abravanel nel suo libro lancia una sorta di appello, perché proprio nel mondo economico e nella società civile anche in Italia si trovi l’equivalente dei 25 baroni che nel 1215 imposero al Re d’Inghilterra la Magna Charta Libertatum. Abravanel non si limita alla dimostrazione di come e quanto perdiamo per la trasgressione e l’illegalità diffuse in tutta la società italiana, figlie non di un DNA deviato ma di un circolo vizioso di cattiva regolazione ed eccessiva invadenza pubblica. L’autore avanza cinque proposte concrete.

Ma, prima dell’analisi, due premesse. La prima è che il passaggio in corso da anni dalle regole per lo sviluppo industriale a quello sempre più basato sui servizi non si risolvono solo in deregulation e semplificazione, ma in una vera e propria riregolazione, cioè in norme nuove che devono presiedere ai cambiamenti che nel mondo nuovo attendono settori come sanità, ambiente e finanza. E’ la grande lezione della crisi mondiale.

La seconda premessa è che sono assai meno categorico di Abravanel nell’identificare come una delle cause essenziali delle cattive regole la piccola impresa italiana. Anzi, sono in pieno dissenso. Quando Abravanel scrive “piccolo è brutto, anzi bruttissimo”, identifica tout court nel più della piccola impresa l’evasione di massa, la bassa produttività e l’alto tasso di concorrenza sleale con le aziende che competono invece grazie a legalità e innovazione. Ma così si rischia di cadere nello stesso errore di decenni fa, quando s’immaginò che anche l’Italia dovesse incamminarsi obbligatoriamente verso crescite dimensionali delle aziende del tipo americano e tedesco.

Da quell’errore nacque per esempio un sistema fiscale che, intendendo favorire la grande impresa finanziarizzata, le fa pagare anche 30 punti di tax rate meno di quanto chiede invece ai piccoli. Ma l’effetto è stata la decrescita verticale dei grandi gruppi italiani nelle graduatorie comparate mondiali. La piccola impresa italiana resta in molti settori capace – malgrado tutti questi ostacoli – di adattarsi ad alta velocità al mutare della domanda, ed è grazie a lei che la quota dell’export manifatturiero nel commercio mondiale è stata difesa anche in questi ultimi due terribili anni. E’ verop che piccola impresa significam meno patrimonio, meno investimenti,l meno ricerca, ostilità al passaggio proprietario gebnerazionale aprendosi al mercato e ai manager. Ma per ovviare a questi difetti bisogna pensare a nuove regole adatte per il tessuto reale dell’impresa italiana e accompagnarla alla crescita per più investimenti e innovazione, bisogna invece evitare di replicare regole inadeguate al nostro caso. Altrimenti, oltretutto,  l’intera rappresentanza d’impresa italiana non potrà sposare questa rivoluzione, visto che i piccoli prevalgono dovunque e si sentono – sono, a mio avviso – assai più vittime che colpevoli.

Veniamo alle proposte di Abravanel. La prima è nell’ambito dei servizi pubblici locali. La frammentazione attuale nelle oltre 7mila società controllate localmente dalle Autonomie italiane impedisce a settori come la raccolta dei rifiuti – vedi il disastro napoletano – e i servizi idrici efficienza e scala d’impresa tale da generare investimenti. E sin qui siamo perfettamente d’accordo. Per questo, la proposta è di riattribuire centralmente allo Stato la concessione, disegnando autorità nazionali indipendenti per nuove regole su ambiti operativi che abbiano più senso della parcellizzazione per singolo Comune. L’obiettivo è quello di gare poi per attribuire le concessioni su più vasta scala a soggetti che abbiano taglia d’impresa paragonabile ai giganti esteri come la francese Veolia, un po’ come si fece con l’energia elettrica ai tempi della riforma Bersani. Stante che la privatizzazione di massa che noi proponiamo non passa in nessun Comune né di destra né di sinistra, forse la proposta di Abravanel ha più chanche. Lo scandalo della monnezza e dell’acqua inefficiente in teoria glòi dà ragione. Ma col federalismo in corso d’attuazione scommetto che tutte le Autonomie griderebbero all’esproprio.

La seconda proposta riguarda il turismo. Realizzare in aree vocate l’accorpamento del frazionamento proprietario offrendo concessioni edilizie a lungo termine su aree di grandi dimensioni, in modo da consentire investimenti per alzare la qualità dell’offerta e preservare insieme il territorio. Come avvenne in Costa Smeralda e come a Ortigia sta provando da anni Ivan Lo bello, il presidente di Confindustrria Sicilia che proprio della legalità e della lotta ai collusi ha fatto la nuova bandiera di Confindustria nazionale. Su questa sono pienamente d’accordo. ma scommetto che media e ambientalisti griderebbero come un col suomo alla cementificazione speculativa, invexce di capire che poli turistici di livello hanno bisogno di economie di scala e investimenti adeguati, che sono collegati alla tutela ambientale invece che al disastro delle nostre coste attuali, disastro che è figlio del fai-da-te.

Terza proposta: estendere a tutti i livelli i test per misurare i risultati di docenti e studenti, rimettere al centro il potere del Ministero con un corpo di veri ispettori per verificare i risultati del sistema. Decentrare alle Regioni l’elaborazione di un vero piano dell’offerta formativa assorbendo i provveditorati, e aprendosi a esperienze come quelle dei voucher alle famiglie, nelle Regioni in cui esiste un mercato vero dell’offerta. Il capitolo è lungo: concordo, ma immagino la reazione dei sindacati e dei docenti.

Quarta proposta, nella giustizia civile, che vale più di quella penale come freno allo sviluppo e che ci vede nelle graduatorie al 156° posto sotto Guinea e Gabon: estendere a tutti i livelli la forma organizzativa della delivery unit già sperimentata con successo da Mario Barbuto, presidente di Tribunale di Torino e oggi di Corte d’Apello, che è riuscito a smaltirne l’arretrato in pochi mesi di anni. D’accordissimo. Immagino però la reazione delle correnti dell’ANM, agli occhi delle quali sin qui ogni criterio oggettivo di verifica di produttività e merito configura un rischio che la politica ne faccia uso per metter toghe alla berlina.

Quinta proposta di Abravanel: spezzare la logica della cattiva informazione iperpoliticizzata a partire da dove essa è più parossistica, cioè la Rai, abolendo commissione di vigilanza e governance di partuiti, e frapponendo una fondazione indipendente – con nominati con incarichi a scadenze diverse per limitare lo spoil system – tra proprietà pubblica e reti e testate, sul modello di Trust BBC. Io qui sono per la privatizzazione netta, invece: non credo possibile che la politica italian per come essa è non aggirerebbe anche il filtro di una fondazione di cui essa disegnerebbe le regole.

Come si vede, sono comunque proposte molto diverse dal tono generale della politica odierna e da ciò che propone. C’è da augurarsi che almeno qualcuna di queste venga posta al centro di una seria agenda italiana.  Ne dispero profondamente, però.

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Ritardati pagamenti PA: punire i politici /2010/10/27/ritardati-pagamenti-pa-punire-i-politici/ /2010/10/27/ritardati-pagamenti-pa-punire-i-politici/#comments Wed, 27 Oct 2010 12:57:51 +0000 Oscar Giannino /?p=7404 Evviva, la pubblica amministrazione è finalmente obbligata a saldare i suoi debiti in 30 giorni come termine ordinatorio, ed entro 60 al massimo perentoriamente. Dopodiché scattano interessi dell’8%. E’ la direttiva approvata tre giorni fa dal Parlamento Europeo, e subito si è stappato champagne. Nell’Italia odierna la media dei pagamenti della PA è salita dai 128 giorni del 2009 ai 140 quest’anno, attestano Confindustria e Rete Italia. Con settori in cui si superano i 180, afferma l’Associazione Nazionale dei Costruttori. E sacche di debito insoluto – per esempio nel settore sanitario, in alcune Regioni del Centrosud – in cui il ritardo arriva a 800, 900 e anche più di 1000 giorni. E’ uno scandalo italiano che si misura in anni, non in settimane. La classica misura dell’inefficienza, approssimazione e illegalità corruttrice dello Stato italiano. Ho un’ideuzza a sorpresa, per attuare la norma…

Il rispetto alla lettera della nuova regola porterebbe in poche settimane dai 50 ai 70 miliardi di euro nelle casse delle imprese. Per molte di loro, una boccata d’ossigeno decisiva. Per non poche, la differenza tra sopravvivere e continuare a dipendere dalla sola moratoria bancaria. Ma è inutile illudersi. E non solo perché Strasburgo lascia a ogni governo sino al 2013 per la messa in regola.

Il realista pensa che resterà una grida manzoniana. L’ottimista testone – eccomi – aggiunge: a meno che… Vediamo. Per realismo, va ricordato che le norme di contabilità pubblica prevedono che il debito pubblico sia tale solo alla scrittura di un mandato di pagamento, o della concessione di una garanzia reale che riconosca il debito come escutibile o scontabile in banca o su un mercato secondario (come capita ai Bot). La contabilità pubblica è per cassa, non per competenza. A molti sembrerà strano, ma se avete vinto una gara bandita dalla PA per la prestazione di un servizio o l’acquisito di un bene, ai sensi del diritto privato siete tutelati a ricevere il compenso dovuto. Ma per la contabilità pubblica quel debito della PA non esiste sinché non viene certificato o pagato almeno in parte. Poiché moltissime Autonomie locali non riescono fronteggiare i debiti per i vincoli del Patto di stabilità interno, il rispetto testuale dei 30 giorni porterebbe automaticamente all’emersione di debito pubblico per 3 o 4 punti aggiuntivi di Pil. Si può immaginare la giusta contrarietà di Tremonti.

A meno … a meno di immaginare un meccanismo che unisca tre diversi pilastri – rigore, trasparenza e prevenzione – facendo contenti sia imprese sia Tesoro. Qualunque garanzia pubblica sul debito insoluto oltre i 60 giorni può essere reperita nell’ambito della Cassa Depositi e Prestiti, il cui bilancio sta fuori dal recinto del debito pubblico per Bruxelles, esattamente come per gli analoghi istituti tedesco e francese. L’intero debito sarebbe immediatamente bancabile senza aggravi per il Tesoro. Per le Autonomie non in linea col patto di stabilità, si imporrebbe però un controllo di legittimità preventivo da parte della sezione specializzata della Corte dei Conti. E infine una doppia penalizzazione automatica: sui futuri impegni di spesa dell’Ente pubblico fino a regolarizzazione del debito avvenuta, ma anche – sorpresa! – in termini patrimoniali e personali per gli assessori e i politici che deliberano spese senza aver denari in cassa. Solo se rendiamo responsabili coloro che spendono in deficit, limitandoli e colpendoli a tempo nel loro patrimonio, evitiamo che a risponderne siano poi gli incolpevoli successori. E non ditemi per favore che a quel punto è come dire che politica la possono fare solo i ricchi, perché bastano sanzioni commisurate allo stock di patrimonio detenuto e al reddito dichiarato, oltre che alle attività partecipate o controllate. Che ne pensate?  Non è dal basso, che bisogna fare efficienza e rigore?

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Viva l’offshore, abbasso le tasse /2010/10/20/viva-loffshore-abbasso-le-tasse/ /2010/10/20/viva-loffshore-abbasso-le-tasse/#comments Wed, 20 Oct 2010 10:10:03 +0000 Oscar Giannino /?p=7344 Mi assumo volentieri un compito in pressoché totale controtendenza. Mi riferisco alle polemiche intorno alle società offshore alle quali si vorrebbe ridurre la contesa tra Fini e Berlusconi, da una parte chi sostiene sia uno scandalo il velo proprietario posto intorno a quel certo appartamento monegasco, dall’altra chi replica che altrettanto vale per le società schermo intestatarie dell’ennesima villa del Cavaliere ad Antigua. Consapevole dello scandalo della maggioranza dei lettori, mi accingo dunque all’elogio delle società offshore, dei trust anonimi comunque costituibili secondo le legislazioni di paesi rispettabilissimi come la Svizzera, il Liechtenstein, Antigua e le Cayman, Bahamas e il Delaware, Monaco e Dubai. Continuo da decenni a pensare che le possibilità offerte da tali ordinamenti siano benefiche e anzi salvifiche, e mi tocca spesso ripeterlo.

Se dovessimo procedere a una stima anche solo spannometrica dei beni e delle attività detenute attraverso veli societari offshore, verrebbero le traveggole. Alcuni esempi. Nel 2005 l’IRS, l’Agenzia delle Entrate degli Stati Uniti, stimava approssimativamente in “almeno” 11.500 miliardi di dollari – più dell’80% del Pil, allora – il valore offshore detenuto dalle sole persone fisiche soggette al fisco americano. Addirittura la Santa Sede – quando già gli Stati nell’esplosione del loro debito pubblico erano famelicamente protesi al massimo recupero di gettito fiscale – nel novembre 2008 presentò alla conferenza promossa a Doha dall’Assemblea generale dell’ONU su finanza e sviluppo un documento in cui si stimava – non so con che precisione, ma ci avevano lavorato banchieri papali assai fini – che le attività offshore detenute da gruppi e persone fisiche dei paesi avanzati rendevano non meno di 860 miliardi di dollari l’anno. Quando la crisi mondiale ormai era bell’e che esplosa e già gli Stati iniziavano ad accumulare punti su punti di Pil di debito pubblico aggiuntivo, ecco che il professor Avinash Persaud, emerito del Gresham College di Londra e membro della Tassk Force dell’ONU sulla riforma finanziaria internazionale, il 5 marzo 2009 scriveva sul Financial Times che l’attacco ai centri e alle società offshore altro non rappresenta che una pigra e seduttiva distrazione politica rispetto all’obiettivo di affrontare seriamente il problema della regolamentazione finanziaria dei Paesi industrializzati. Finchè questa resta disomogenea e ogni Paese tenta di arbitrare con più alto fisco a proprio vantaggio, la regola della libertà personale è tentare di deludere le pretese esose degli Stati spreconi e dilapidatori.

Quanto allo studio comparato del meglio che può offrire alla libertà dei capitali la tecnica offshore, non è esattamente materia per manigoldi. Il manuale di riferimento sui paradisi bancari, dell’avvocato d’affari francese Edoard Chambost, non a caso fu tradotto nel 1980 in italiano dall’avvocato Franzo Grande Stevens, puntualmente non a caso chiamato in causa insieme a Gianluigi Gabetti nelle vicende ereditarie e fiscali collegate al patrimonio dell’Avvocato Agnelli, per il ruolo ricoperto in numerose società “coperte” estere a fini fiscali. Migliaia di società italiane, hanno per decenni utilizzato il velo di holding per lo più di diritto lussemburghese, per eliminare la tassazione dei dividendi e incorporare ai proprietari il più delle plusvalenze. Dalla riforma Visco a quella della participation exemption voluta da ultimo da Tremonti, alla ricerca del gettito perduto, la lotta è sempre andata persa: perché la libertà prevale, e tra le massime espressioni della libertà vi è appunto quella dell’organizzazione della proprietà, al fine di ridurne i gravami a cominciare da quelli fiscali.

Come insegna nel suo bellissimo “Paradisi e paradossi fiscali” il professor Giuseppe Marino, che dirige il master in diritto tributario d’impresa alla Bocconi, un tempo l’invidia fiscale era di sinistra e la libertà fiscale di destra, quell’invidia che secondo Bertrand Russel “è vizio in parte morale, in parte intellettuale, consistente nel non vedere mai le cose in se stesse, ma soltanto in rapporto alle altre”. Ohimè nell’Italia di oggi l’invidia fiscale da tributi esosi si estende ormai da sinistra a destra. Il che rende ancor più necessaria la difesa dell’offshore, vero presidio di libertà che sconfiggerà sempre- non illudetevi, cari statalisti – la lega degli Stati ad alto prelievo e bassa crescita.

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Perché in Italia vince la “preferenza L” /2010/09/12/perche-in-italia-vince-la-preferenza-l/ /2010/09/12/perche-in-italia-vince-la-preferenza-l/#comments Sun, 12 Sep 2010 15:31:02 +0000 Oscar Giannino /?p=7021 Questo paper l’avevo messo da parte l’anno scorso, ed è rimasto colpevolmente a dormire sotto una pila di stampe, a conferma che la carta tradisce più dei computer. Mi è ripassato per le mani sbarazzandomi di carta inutile. Ma è come se mi abbia parlato, scivolando via per farsi raccogliere e leggere. Lo consiglio a tutti. Perché punta il dito su una singolarità italiana in cui ci imbattiamo tutti ogni giorno: lavoro, scuola, università, servizi pubblici, organizzazione e prestazione del lavoro nelle imprese private, politica, sindacato, professioni. Dovunque in Italia si tocca con mano il prevalere della “preferenza L”. Dove “L” sta per low:  bassa qualità. Dovunque, la bassa qualità è una convenzione accettata, anche se a chiacchiere convive con molti proclami di chi dichiara di non volerla e di non praticarla. Di fatto, la bassa qualità e il pressapochismo sono una conventio di massa, la vera Costitizione materiale del Paese. Ma perché?

Per chi la pensa come noi che non esitiamo a dire che dall’Italia se non migliora bisogna essere pronti ad esercitare l’exit visto che la voice serve a poco, cioè ad andarsene senza troppe nostalgie, non è un caso che il aper l’abbiano scritto due studiosi italiani di qelli che non rinneano il proprio Paese, ma fatto sta che la propria carriera l’hanno fatta all’estero e non tornano. Diego Gambetta insegna Sciologia ed è fellow del Nuffield College ad Oxford, Gloria Origgi si è perfezionata in filosofia del linguaggio e scienze cognitive al Polytechnique e insegna a Parigi all’Institut Jean Nicod del CNRS.

G&G hanno ragione: in Italia la “preferenza L” vince sulla “preferenza H”, il basso sull’alto, il pressapochismo sul perfezionismo e la precisione, non solo melle truffe commerciali olearie e vinicole ai danni dell’Ue e nelle quote latte, tanto meno è prassi con cui la parte meno acculturata e patrimonializzata del Paese tenta di sfangarla dall’eccesso di competizione portato dagli have sugli have not. E’ regola e non eccezione in ogni ambito. Quando viene documentato che  l’economista Stefano Zamagni copia pagine iuntere non quotate da Robert Nozick, il filosofo della politica e rettore del Suor Orsola Benincasa Antonio Villani fa la stessa cosa da molti autori tedeschi, e il filosofo Umberto Galimberti idem con patate copiando di soppiatto da Giulia Sissa che insegna in California, alle loro carriere e stima reputuazionale non capita assolutamente nulla, anzi si scatena una reazione come quella di Gianni Vattimo “cari signori, la filosofia è copiare”, oppure ancora, nel caso di Zamagni, una difesa a oltranza in nome del fatto che lo si vorrebbe colpire in quanto “di sinistra”. Senza contare il fatto che ciascuno ha detto o fatto capire di essere sommamente innocente, perché la copiatura indichiarata avveniva a opera di studenti-negri estensori dei testi per il prof, che certo non aveva a quel punto facoltà di cotnrollo delle citazioni e plagi…

Ma, ripeto, il problema è generale, dell’intera società italiana, non certo del suo corpo accademico e solo di una scuola e università ridotte a mega ammortizzatori sociali di massa (vedi polemiche sui precari: per averlo detto alla radio fuori dai denti come mio costume mi son beccato migliaia di sms d’improperi) invece che a palestre dove si acceda in nome di ciò che si dovrebbe promuovere, cioè merito ed eccellenza.

E il motivo per cui dovunque vince il fattore L è un enorme equilibrio di Nash, quello cioè in cui nessun attore del gioco ha interesse a disallineare la propria preferenza, rispetto a una soluzione alla von Neumann, chealteri le’quilibrio innome del fatto di prevedere un vincitore netto. Se ci ensate bene, è la stessa colpa che si fa al maggioritario in nome del parlamentarsismo e dell’eterna mediazione parlamentare spacciata per essenza della democrazia, è la stessa risposta che si oppone a qualunque riforma vada a incidere seriamente su rendite consolidate, si tratti delle farmacie o di accessi e tariffe delle professioni, dell’ordinamento giudiziario o del pubblico impiego.

L’effetto di questo equilibrio di Nash a favore del fattore L è una buona spiegazione, purtroppo, della bassa produttività italiana comparata, dunque ha effetti negativi certi a lungo andare nel suo complesso, anche se a milioni di praticanti indefessi si traduce nell’apparente vantaggio a breve di autotuela e autopromozione, scegliendo di corrispondere ogni giorno ad altrettanti convinti della superiorità di L su H.

Per chi  crede e punta su H, dunque, la scelta non è predicare, come facciamo qui. O meglio serve ma è un pannicello caldo, la comunicazione pubblica vive come un rito la celebrazione dell’eccellenza tradita, perché poi la imputa sempre a qualcun altro, a chi ha vinto le elezioni o a chi ti escluso dal posto perché amico degli amici come se non lo fossi 90 volte su 100 anche tu.

Oltre le prediche inutili, per chi crede nel fattore H la via consiste nell’associarsi, formare capitale umano e fisico, assumere e licenziare, stipulare contratti e osservarli eccetera SOLO con coloro che praticano la stessa opzione. Perché solo così a lungo andare, e all’emergere del vantaggio sicuro di maggior produttività e benessere da maggior serietà, inizierà a risultare incentivanmte a catena disallineare dall’equilibrio di Nash al ribasso il comportamento concreto di un sempre maggior numero di infingardi avvantaggiati dalle reti relazionali che sono la vera ossatura, dovunque, del nostro Paese.

Roba tosta, da calvinisti illusi? No. E’ la via più seria a cambiare il Paese, quella della serietà.

Se questo alle elezioni significa poi non trovare un partito o una coalizione in linea col fattore L, allora non basta non votare. Perché l’alternativa all’exit cioè all’espatrio per chi può, nella teoria dei giochi è voice cioè fondarne uno nuovo. Di sole persone serie. E chi ride dicendo “illusi” o è un rassegnato profittatore e allora lo capisco, oppure se non ha niente da perdere ha solo da guadagnarci.

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