CHICAGO BLOG » debito pubblico http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Legalizzare l’uso di stupefacenti: quale impatto sui bilanci pubblici? – di Flavio Stanchi /2010/12/21/legalizzare-l%e2%80%99uso-di-stupefacenti-quale-impatto-sui-bilanci-pubblici-%e2%80%93-di-flavio-stanchi/ /2010/12/21/legalizzare-l%e2%80%99uso-di-stupefacenti-quale-impatto-sui-bilanci-pubblici-%e2%80%93-di-flavio-stanchi/#comments Tue, 21 Dec 2010 16:00:09 +0000 Guest /?p=7882 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Flavio Stanchi:

Lo stato della California, che deve rimediare ad un deficit di bilancio di 19,9 miliardi di dollari in vista dell’anno fiscale 2011, a inizio novembre ha votato per il “no” in un referendum popolare sulla legalizzazione della marijuana.

Se a prima vista le due cose possono apparire poco legate tra di loro, bisogna sapere che un recente studio (PDF) di due economisti americani, Jeffrey A. Miron e Katherine Waldock, edito dal Cato Institute, mostra come la stessa California avrebbe potuto generare dalla legalizzazione un risparmio per le casse dello stato di circa 960 milioni di dollari all’anno, senza considerare i possibili introiti derivanti dalla tassazione della droga in questione, stimabili intorno ai 352 milioni di dollari annui. In realtà il dato potrebbe anche essere maggiore, in quanto i due autori, per impostare il calcolo, hanno costruito uno scenario in cui si ipotizza la legalizzazione contemporanea degli stupefacenti da parte di tutti gli stati e del governo federale degli Stati Uniti d’America. Questo significa che, a causa della concorrenza tra stati, gli introiti di natura fiscale risultano minori per ciascuno stato rispetto al caso di una legalizzazione nella sola California.

Per calcolare i possibili ricavi derivanti dalla tassazione delle droghe legalizzate, gli autori hanno prima stimato l’ammontare della spesa in stupefacenti da parte dei consumatori sotto l’attuale condizione di divieto (basandosi sulle stime dell’Office of National Drug Control Policy, rivedute e corrette); in secondo luogo, hanno stimato l’ammontare della stessa spesa nel caso della legalizzazione; infine, guardando all’attuale situazione di alcool e tabacco, hanno formulato un’assunzione sulla tassazione che verrebbe applicata. Lo studio ipotizza che la curva di domanda rimanga invariata a seguito della legalizzazione, a causa del contrasto tra il maggior consumo casuale e la riduzione nel consumo dovuta a un effetto “frutto proibito”: la droga perderebbe il fascino dell’illegalità. Dal lato dell’offerta, prezzi e quantità prodotte dipenderebbero largamente dal tipo di droga in considerazione; se da alcune ricerche emerge che il prezzo della marijuana potrebbe subire una flessione inferiore o uguale al 50%, d’altra parte è lecito aspettarsi che i prezzi della cocaina e dell’eroina possano crollare rispettivamente fino al 20% e al 5% dei prezzi attuali. L’effetto sul consumo varierebbe a seconda dell’elasticità della domanda di stupefacenti, che alcuni studi mostrano essere anelastica; questo significa che una diminuzione del prezzo porterebbe a una riduzione della spesa totale in stupefacenti.

Partendo da queste ipotesi e allargando l’analisi a tutti gli stati e al governo federale, il risparmio per il paese dovuto alla legalizzazione della sola marijuana ammonterebbe a circa 8,7 milardi di dollari, derivanti dalla riduzione delle spese di polizia, delle spese giudiziarie e di quelle penitenziarie legate al traffico e al possesso della droga. Ipotizzando poi una tassazione simile a quella di alcool e tabacco, con un’accisa che pesa per il 33% del prezzo finale, e considerando anche le potenziali maggiori entrate delle imposte sul valore aggiunto e sui redditi, gli autori calcolano possibili introiti per altri 8,7 miliardi di dollari.

Generalizzando ulteriormente e guardando alle cifre relative alla legalizzazione (altamente improbabile) di tutti gli stupefacenti, il risparmio per le casse del paese salirebbe a 41,3 miliardi di dollari all’anno e le entrate della tassazione sarebbero pari a 46,7 miliardi di dollari all’anno, per un impatto totale sul bilancio di circa 88 miliardi di dollari annui. Per quanto sia improbabile che i risparmi possano davvero essere quelli prospettati, perché ciò implicherebbe licenziamenti tra le forze dell’ordine, i pubblici ministeri, ecc., è comunque plausibile ipotizzare un miglioramento economico dovuto al ricollocamento di questi a mansioni più produttive.

Il fatto che la legalizzazione possa generare dividendi fiscali non è, da sola, una ragione valida per considerarla una policy migliore della proibizione. Che si prenda l’una o l’altra parte, è tuttavia utile avere un’idea dell’ordine di grandezza dei possibili benefici economici che ne deriverebbero.

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Bunga Bunga Bonds /2010/12/11/bunga-bunga-bonds/ /2010/12/11/bunga-bunga-bonds/#comments Sat, 11 Dec 2010 17:19:30 +0000 Silvano Fait /?p=7830 A giudicare dalle apparenze l’Italia sembra un paese dove c’è ancora tanto grasso che cola: sindacalisti pignoli disposti allo sciopero quando il management rimodula i turni di lavoro, studenti che invocano più soldi alla scuola occupando strade e ferrovie con sommo disagio da parte dei pendolari e senza particolare opposizione da parte delle forze dell’ordine (le quali ovviamente sono “fasciste” per definizione, nonostante una blanda impassibilità nei confronti di chi interrompe pubblici servizi e viola la proprietà privata), politici indecisi se far cadere o far tentennare il governo, andare a nuove elezioni o coagulare nuove coalizioni. Del resto, come diceva Chuck Prince, l’ex CEO di Citibank, “As long as the music plays you have to get up and dance, and the music is still playing…” (una citazione che da sola spiega meglio di cento paper il moral hazard e la socializzazione delle perdite).

I mercati però devono aver cominciato a gettare un occhio oltre i festini di capodanno, se lo spread BTP–Bund è arrivato a superare i 200 basis point per la prima volta dal 1997. In primavera, la Spagna dovrà rifinanziarsi pesantemente e nel corso del 2011 la Repubblica Italiana dovrà chiedere, cappello alla mano, oltre 300 miliardi di euro. Se proprio non vogliamo farci andare a traverso il panettone stiamo pure zitti, ma senza una bella botta di fortuna sarà necessaria l’ennesima manovra correttiva. Abbonderanno le proposte demagogiche, del tipo: facciamo pagare “la rendita”, aumentiamo l’aliquota sui profitti finanziari. Diciamo le cose come stanno: soltanto uno stolto può pensare che incrementare le tasse sugli interessi sia la cosa giusta da farsi. L’unico margine di manovra che attualmente rimane all’Italia è l’elevato livello di risparmio domestico, e chiedere in prestito soldi ai cittadini prospettandogli un aumento di imposta (ovvero una riduzione del rendimento netto) è semplicemente “tafazziano”.

I capitali esteri, da che mondo è mondo, sono più volatili e una politica monetaria estremamente accomodante ha ridotto il costo della speculazione a livelli infimi. Praticamente nulli, visto che è possibile andare in leva allo zero virgola qualcosa e vendere CDS su debiti sovrani con la garanzia che Trichet interverrà a sostegno. Sarebbe quindi cosa buona e giusta evitare di creare un clima che ingeneri aspettative fortemente negative, non dico nelle menti di crudeli squali che nuotano nel mercato (i quali sono poco inclini a credere ai politici), ma nei risparmiatori domestici, a partire dal più scafato degli imprenditori fino a includere la nonnina novantenne. La quale avrà pure la quinta elementare (e non il titolo di “dottò” come i precari aspiranti burocrati) e conoscerà soltanto le quattro operazioni, ma ne ha viste abbastanza da aver sviluppato il fiuto necessario che le consente di sentire quel certo odor di letame attorno allo stato delle finanze pubbliche e dell’economia che spinge gli individui a favorire la prudenza e a preoccuparsi delle proprie sorti a breve termine e poco più. Paradossi dei keynesianimo mili–tonto: andare in piazza chiedendo deficit spending a colpi di sanpietrini riduce gli “animal spirits” e aumenta la “preferenza per la liquidità” …

Intanto l’Unione Europea con l’ausilio dell’IMF ha già predisposto l’ennesimo piano sposta-sfiga. Dall’Irlanda al prossimo dei PIIGS (è riapparsa una “I”). Vi è anche qualche probabilità che i suddetti si trasformino e diventino “BI–PIGS” o “PI–BIGS” visto l’esaltate andamento dei titoli di Stato belgi.

In ogni caso, se le cose dovessero peggiorare e l’unione monetaria dovesse tendere al collasso, per i nostalgici della lira verranno predisposte delle speciali emissioni di Bunga Bunga Bonds (rating BBB ovviamente…) che consentiranno una transizione indolore, un rilancio dell’export grazie al nuovo cambio svalutato, e l’ampliamento delle prestazioni sociali. I ricercatori del nulla che avanza sono invitati a scendere dai tetti e a sollevare le terga dai binari per prenotare un posto da sottoscrittore in prima fila alle Poste.

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ABS: frenare senza slittare? /2010/12/08/abs-frenare-senza-slittare/ /2010/12/08/abs-frenare-senza-slittare/#comments Wed, 08 Dec 2010 09:15:23 +0000 Pietro Monsurrò /?p=7811 Gli ABS a cui mi riferisco non sono i sistemi di frenata anti-slittamento delle automobili, ma le Asset Backed Securities: uno strano nome, suggeritomi da un’amica, per indicare il modello proposto pochi giorni fa – e parrebbe oggi prevedibilmente bocciato dai tedeschi – dai ministri lussemburghese e italiano Juncker e Tremonti sulle pagine del Financial Times. Gli autori propongono infatti di creare un’agenzia europea (EDA: European Debt Agency) che svolga una funzione di credit transformation per i titoli pubblici di tutti i paesi europei, sia quelli finanziariamente solidi come la Germania che quelli finanziariamente su, od oltre, l’orlo del baratro come la Grecia.

L’EDA emetterà obbligazioni omogenee comprando obbligazioni eterogenee. Ad esempio, potrebbe comprare 60€ di titoli tedeschi al 3%, 30€ di titoli italiani al 5% e 10€ di titoli greci al 7% (cifre arbitrarie) e offrire un’obbligazione unica da 100€ con rendimento ad esempio del 3.5%. Dopo un anno, riceverebbe capitale e interesse dai governi tedesco, italiano e greco (per un ammontare, in base ai numeri che ho dato, letteralmente, di 104€), e pagherebbe 103.5€ agli investitori nel fondo EDA, tenendo 0.5€ come profitti (al lordo delle spese di gestione). Se la Grecia pagasse per problemi di credito solo il capitale, cioè 10€, anziché anche gli interessi del 7%, il fondo EDA perderebbe invece 0.2€. Si tratta cioè di un gigantesco veicolo di investimento strutturato di proprietà pubblica.

Secondo i piani di Juncker e Tremonti, il fondo dovrebbe comprare il 50% delle emissioni primarie dei paesi europei in condizioni finanziarie normali, e fino al 100% delle emissioni primarie dei paesi europei in crisi finanziaria. Essendo il debito pubblico dei paesi dell’eurozona attualmente pari a circa 9.5 triliardi di euro e il PIL pari a circa 8,5 triliardi di euro, un fondo del genere allo stato attuale dovrebbe detenere circa il 55% del PIL dell’area euro. Tremonti e Juncker dicono il 40%, ma perché considerano il PIL europeo anziché quello dell’eurozona, e assumono che nessun paese europeo economicamente rilevante (e Grecia e Irlanda non lo sono) si trovi a dover vendere tutte le sue emissioni all’EDA perché effettivamente tagliato fuori dai mercati finanziari.

Come andrebbe gestito il fondo? Essendo un fondo pubblico, l’ABS in questione verrebbe gestito da politici o da persone appuntate dai politici. Possiamo quindi supporre che il fondo introdurrà pesanti distorsioni allocative ai mercati, visto che il suo scopo è proprio schermare i paesi finanziariamente più deboli dalle conseguenze della propria incapacità, miopia ed irresponsabilità politiche. Si comporterà come la banca centrale: farà di tutto per impedire l’aggiustamento del mercato, posticipare le dovute riforme, nascondere i problemi, riempirsi le casse di asset privi di valore per aiutare le banche (in questo caso i governi). Considerando che la manipolazione del credito è probabilmente la principale causa dell’instabilità economica e finanziaria (come ho sostenuto al recente Rothbard Seminar di Milano: “Azzardo morale, processo di mercato e crisi finanziarie”), la cosa non lascia ben sperare.

Un problema preliminare è che se il fondo deve dare liquidità al mercato, deve avere una leva ragionevole, altrimenti non riuscirebbe a garantire la credit transformation. Se il fondo venisse capitalizzato con il 2% di capitale, basterebbero perdite del 2.5% per generare perdite per gli obbligazionisti. Un capitale proprio del 2%, cioè una leva di 50 a 1, costerebbe 100 miliardi di euro. Un fondo decentemente capitalizzato richiederebbe cioè nuovi capitali per diverse centinaia di miliardi di euro. A spese ovviamente del contribuente.

Il fondo EDA eliminerebbe almeno metà del mercato primario (cioè di emissione), e quando serve l’intero mercato, dei titoli pubblici europei. L’EDA acquisterebbe titoli pubblici, assicurandone la liquidità fungendo da compratore dominante o addirittura unico. Inoltre comprerebbe titoli pubblici già emessi dai vari stati europei nel caso in cui gli investitori vogliano disfarsene, ad un prezzo pari a quello di mercato meno un haircut. Ad esempio, con un haircut del 3% sui titoli greci, l’EDA si troverebbe a comprare 100€ di titoli greci a 97€ dagli investitori che vogliano disfarsene, di fatto agendo da pavimento per i prezzi dei titoli pubblici.

Tutto dipende dal taglio dei capelli, dunque. L’haircut sarà un prezzo politico forzato al mercato dal market-maker di turno (l’EDA), esattamente come il prezzo del credito interbancario a breve (e occasionalmente anche a lungo) è fissato da un’altra autorità politica, la Banca Centrale Europea: l’equilibrio di mercato non conta, dunque, come non conta l’efficienza allocativa. Il prezzo verrà fissato in base a considerazioni di carattere politico, e paesi grandi come l’Italia avranno ovviamente una certa leva per prevenire eventuali aumenti dell’haircut. Oppure verrà fissato in modo da impedire che i paesi irresponsabili paghino le conseguenze delle proprie azioni, esattamente come la BCE agisce con le banche: l’unico problema è che eliminare le conseguenze dei propri errori incentiva proprio quel tipo di azioni che producono rischi sistemici. La soluzione ad un’overdose non è assumere un’altra dose di droga.

Juncker e Tremonti parlano inoltre di profitti. Solo se il mercato sovrastima la probabilità di fallimento dei titoli europei è però possibile fare profitti dalla trasformazione di credito. Se la crisi dovesse perdurare, l’EDA dovrebbe essere ricapitalizzata dai contribuenti europei, cosa che potrebbe capitare anche alla BCE, dovesse subire perdite sui rifiuti tossici che ha comprato negli ultimi anni (la BCE, in realtà, potrebbe stampare moneta per ricapitalizzarsi, anche se con alcuni vincoli legali da rispettare).

Non è impossibile che il mercato sovrastimi la probabilità di fallimento dei paesi sovrani. Un agente neutrale al rischio che stimasse la probabilità di fallimento della Grecia pari al 33% sarebbe indifferente tra un titolo tedesco al 3% e un titolo greco al 4%. Spread superiori implicano probabilità di fallimento stimate superiori, oppure avversione al rischio da parte degli investitori, cosa che in tempo di crisi ha un ruolo fondamentale nel determinare gli spread. L’EDA potrebbe operare come agente relativamente neutrale al rischio e arbitraggiare i tassi, guadagnando profitti. O potrebbe correggere stime di fallimento supposte eccessive. In entrambe i casi, si fornirà credito a costo inferiore ai paesi che hanno ampiamente dimostrato di non saperne fare buon uso. Fare arbitraggio sulla risk aversion privata, e peggio ancora sostituirsi al pricing di mercato del rischio, è una garanzia per manipolare i mercati e generare moral hazard: l’EDA complementerebbe dunque il ruolo, nefasto nel lungo termine perché incompatibile col regolare funzionamento dei mercati, della banca centrale.

Eppure non è detto che queste valutazioni siano eccessivamente pessimistiche. Se la crisi durerà ancora a lungo (quella giapponese va avanti imperterrita da 20 anni), il debito pubblico continuerà a crescere e la struttura finanziaria dei paesi e delle banche europee rimarrà fragile e soggetta a potenziali reazioni a catena (perdite sugli asset => perdite sul capitale bancario => perdite per deleveraging => ulteriori perdite sugli asset), diventa forse ragionevole pensare che nessuno vorrà tenere titoli PIGS decennali in portafoglio. L’Irlanda ha voluto garantire le sue banche e ora ne pagherà le conseguenze. L’unica differenza è che l’Europa nel suo complesso è sufficientemente grade da potersi permettere di creare disastri ben maggiori prima che il banco salti. Un po’ come il Giappone, che resiste da ormai due decenni a qualsiasi tentativo di razionalizzare la sua economia, sacrificando lo sviluppo economico, e dunque le generazioni future.

Nessuno si fiderà mai dell’euro finché l’unico scopo delle autorità fiscali e monetarie europee sarà quello di nascondere la polvere sotto il tappeto: una qualunque colf farebbe un lavoro migliore, e ad un costo di molto inferiore. L’Europa ha bisogno di realizzare le perdite delle banche, ridurre la fragilità sistemica ricapitalizzando i mercati finanziari, e tagliare la spesa pubblica, il deficit e il debito per migliorare le prospettive di crescita economica nel lungo termine ed allontanare lo spettro dei fallimenti sovrani. Il resto non solo non serve, ma genererebbe ulteriori distorsioni, incentivi perversi, e scuse per non riformare.

I sintomi servono ad indicare le malattie: l’abuso dei farmaci sintomatici viola, dunque, il giuramento di Ippocrate. Non è riempiendo le casseforti della BCE di debiti suini (PIGS) o creando un nuovo strumento di manipolazione dei mercati che si risolvono i problemi. Abbiamo messo tonnelate di stucco sulle crepe della diga, ma nessuno pare si sia preoccupato finora di abbassare il livello delle acque a monte facendole defluire a valle. Qualcuno si prenderà la responsabilità di fare una cosa del genere, prima o poi? Sono tre anni che è scoppiata la crisi, e il modello “chiudiamo gli occhi e fingiamo che i problemi scompaiano” è ancora la strategia favorita dalle nostre istituzioni. L’EDA è un piano di lungo termine? Forse in Unione Sovietica, trattandosi di socializzare interi mercati. Può funzionare per prender tempo e prepararsi ad affrontare meglio la crisi? Probabilmente sì, ma che garanzie danno le nostre istituzioni questa volta si comporteranno in maniera lungimirante e responsabile, quando a tre anni dall’inizio della crisi non hanno fatto nulla di tutto ciò?

Come sempre, aveva visto giusto Mises: “Le vie di mezzo portano al socialismo”. Nel nostro, caso, a politiche incompatibili col funzionamento dei mercati, e che sostituiscono a questi l’arbitrio di istituzioni incapaci di guardare in faccia la realtà, di prendere decisioni coraggiose, e di risolvere, in definitiva, più problemi di quanti ne creano. L’importante è stuccare le crepe: prima che la diga salti, si avrà tempo per trovare un capro espiatorio.

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No eurobond, tre cose servono all’Italia /2010/12/07/no-eurobond-tre-cose-servono-allitalia/ /2010/12/07/no-eurobond-tre-cose-servono-allitalia/#comments Tue, 07 Dec 2010 17:35:39 +0000 Oscar Giannino /?p=7802 Dunque come previsto all’Ecofin la Germania ha detto no. No sia al rafforzamento dell’EFSF: tradotto, significa non c’è capienza per salvare Portogallo e Spagna. Sia alla proposta Tremonti-Juncker di eurobond avanzata ieri sul FT. Il ministro italiano dell’Economia ha dichiarato di essere ottimista, anche l’EFSF l’Italia lo propose a fine 2008 e molti risero, poi la Grecia in panne nella primavera 2010 obbligò a vararlo. Lo stesso avverrà per gli eurobond, pensa Tremonti. Vedremo al Conmsiglio Europeo e al summit dei capi di Stato e  di governo che lo segue. A me non pare probabile che le cose si smuovgano, e oltretutto la proposta di un’Agenzia del Debito Europeo che rilevi debito dei membri eurozona fino al 40% del Pil comune e cioè di ciascun membro, mantiene due punti che non mi sono affatto chiari e che anzi mi appaiono temibili. Continuo a pensarla come Roberto Perotti oggi sul Sole. Era meglio ristrutturare il debito greco a febbraio, avviare cioè un semidefault che avrebbe scoraggiato a insistere tutti gli altri membri “eurodeboli”. Congiuntamente credo che il problema irrisolto sia quello delle banche innanzitutto tedesche e francesi, come ho scritto ieri. E che comunque l’Italian dovrebbe fare tre cose, subito e di suo, senza confidare negli eurobond.

I due punti non chiari – a me almeno – della proposta Tremonti-Juncker riguardano: i tassi ai quali si praticherebbe lo swap tra debito nazionale e debito dell’EDA; il premio ai più deboli.  I tassi d imercato cioè spread compresi sono esclusi, naturalmente, in sede ci conversione. I proponenti hanno parlato di conversione  “alla pari”, e hanno aggiunto che anzi andrebbe assicurato un premio ai Paesi sotto stress. E’ come dire che aboliamo dal 50 al 100%b il potere del mercato di esprimere un giudizio sui diversi premi di rischio Paese: non si tratta di essere tedeschi, per respingere un’idea di questo tipo. E’ evidente che incoraggia comportamenti irresponsabili, da parte della politica fiscale e di bilancio a livello nazionale.  La seconda proposta non chiara riguarda il proposto meccanismo di sostegno da parte dell’EDA al finanziamento di almeno il 50% dei nuovi titoli che sarebbero emessi dagli Stati membri, e anche qui si propone di giungere fino al 100% dui finanziamento in caso di stress. Un secondo e temibile premio all’azzardo morale dei governi.

Veniamo all’Italia. Tremonti, tra manovra pluriennale estiva e correzioni nella legge di stabilità per il 2011, ha frenato il deficit tendenziale dello 0,9% di Pil per il 2011, e dell’1,5% sia nel 2012 che nel 2013. Altri hanno dovuto fare sforzi multipli di tali grandezze. La spiegazione del perché siano stati “costretti” a fare più dell’Italia si chiama avanzo primario. Il saldo primario è la differenza tra uscite e entrate, al netto della spesa per interessi sul debito. Tra i 16 paesi dell’eurozona l’Italia è in testa. Positivo nel 2008 (+2,5% del Pil) il saldo primario italiano ha girato, causa recessione, per la prima volta dal 1991 in territorio negativo nel 2009 (-0,6%). Per il 2010, si dovrebbe chiudere di poco sotto lo zero. Per tornare ad avanzo primario positivo nel 2011. Livelli nettamente migliori della media dell’eurozona, pari a -3,6% nel 2010 e a -2,9% nel 2011. Tra i big, la Germania registrerà disavanzi primari nel 2010 e 2011 del -2,3% e -2%, la Francia del -5,4% e -4,5%. Terribili gli andamenti dell’Irlanda (-8,8% e -7,6%), Spagna (-7,6% e -7,2%). Meglio la Grecia post massicci tagli primaverili(-4,0% e -4,1%).

Ma il premio di rischio dei titoli pubblici dipende da altre due cose: dalla crescita, dall’ammontare di interessi da pagare sul debito. Eccoli, i talloni d’Achille del nostro Paese. L’aumento del Pil italiano è dell’1,1% quest’anno e l’anno prossimo, previsto in lieve miglioramento nel 2012 all’1,4%. La serie tedesca è 3,7%, 2,2% e 2%. Quella francese +1,6% in 2010 e 2011, 1,8% nel 2012. Quando la crescita di un Paese è inferiore agli oneri sul debito, o l’avanzo primario compensa la differenza oppure il debito pubblico sale ancora. Noi siamo su quella via: ma tutti quelli che gridano contro Tremonti, al centro e a sinistra, vogliono più spesa pubblica.

Infine, gli interessi sul debito. Siamo più esposti alle oscillazioni degli spread di altri che hanno avanzi primari peggiori. Per diluire il più possibile gli interessi del debito ed accrescere la durata media dei titoli emessi noi teniamo in media quattro aste al mese, due di titoli a breve e due a durata medio-lunga. L’ammontare è minore delle maxi aste concentrate in pochi mesi adottate dai più nell’eurozona. Una strategia ottima quando è basso lo spread, come nel primo decennio dell’euro. Quando il mercato balla, più emissioni si traducono in più occasioni per il mercato di premere il doppio pedale tra basso prezzo nominale di acquisto e alto rendimento. Per questo siamo finiti sopra i 200 punti base, la settimana scorsa.

In conclusione: la finanza pubblica italiana è apparentemente più sotto controllo che tra i nostri partner, come pura dinamica di spesa comparata. Ma la bassa crescita e l’esposizione alla volatilità consigliano tre cose. Non abbassare la guardia, cioè spendere meno e non di più. Molto meno, per abbattere le tasse. E, se possibile, una manovra di rientro straordinario del debito. Il patrimonio immobiliare liquidabile pubblico – escluso tutto ciò che è vincolato, non parliamo di Colosseo e Pompei – vale circa 500 miliardi. Cederne anche solo due terzi, con veicoli e procedure di mercato, abbassa il debito pubblico di 20 punti di Pil, al di sotto della media dell’eurozona l’anno prossimo. Sarebbe la fine dell’eccezione italiana, la premessa per concentrarsi sulla vera sfida: crescere di più.

eniamo all’Italia.

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Tremonti rilancia gli eurobond. Sarà dura, perché.. /2010/12/06/tremonti-rilancia-gli-eurobond-sara-dura-perche/ /2010/12/06/tremonti-rilancia-gli-eurobond-sara-dura-perche/#comments Mon, 06 Dec 2010 11:08:38 +0000 Oscar Giannino /?p=7787 All’Eurogruppo di stasera e all’Ecofin di domani Tremonti e il presidente dell’Eurogruppo Juncker riproporrano gli eurobond europei, questa volta non per rilanciare gli investimenti pubblici ma anche e sprattutto per swappare titoli dei Paesi a rischio nell’eurozona. Ho dei fortissimi dubbi che per i tedeschi la proposta sia accettabile.  E una controproposta, dovessi essere io al tavolo.

Che cosa continua a non funzionare, nelle regole europee sin qui stabilite dopo il caso greco e quello irlandese? Che cosa non convince ancora, dopo che la Germania di Angela Merkel e la Francia di Sarkozy hanno formalmente confermato che il loro patto di Deauville diverrà proposta formale e ufficiale al Consiglio europeo, e cioè che dopo il 2013 l’attuale fondo di stabilità finanziaria EFSF varato dopo il salvagente alla Grecia diventi un meccanismo stabile – per questo serve una modifica al trattato europeo – al quale comparteciperanno anche le banche private? Non si era detto nel corso degli ultimi mesi che i salvataggi avvenivano in realtà solo per tuteklare non gli euromembri a rischio ma le banche stesse di Germania e Francia, visto che sono imbottite di titoli sovrani europei che fino a qualche mese fa avevano premi di rischio diversificati solo nell’ordine delle decine e non di centinaia punti base? Perchè non considerare allora favorevolmente, l’idea tedesca degli haircuts, cioè che le banche stesse si espongano in caso di rischio default dei Paesi di cui hanno comprato i titoli, a tagli degli interessi attesi se non a una rinuncia di parti stesse del capitale stesso impegnato?

La prima cosa che i mercati hanno capito, sapendo far di conto, è che tali haircuts più che tagli di capelli finirebbero per essere tagli di teste. Un analista di JPMorgan la settimana scorsa ha calcolato che una decurtazione pari a non più del 20% del valore di rimborso dei titoli pubblici dei Paesi a rischio – cioè Grecia e Irlanda, Portogallo e Spagna – basterebbe oggi come oggi a determinare l’azzeramento del capitale proprio delle maggiori banche francesi.

La seconda cosa che i mercati hanno capito, sapendo sempre far di conto sin qui ancora una volta meglio di regolatori e governi, è che i tassi d’interesse ai quali si dovranno sottoporre gli euromembri “deboli”, per effetto delle nuove regole tedesche, spingono in realtà questi paesi non a salvarsi, ma semplicemente al baratro. Per fare un solo esempio: poiché l’Irlanda è tenuta a pagare un rendimento del 5,8% sul prestito fattole dal Fondo Monetario internazionale e dall’EFSF.  Nelle condizioni attuali e proiettate nel triennio delle finanze pubbliche irlandesi, questo significherà che al 2014 i soli oneri sul prestito rappresenterebbero il 25% del totale delle entrate di Dublino. Una condizione di default peggiore di quella rischiata per i soli salvataggi bancari.

L’Irlanda si troverebbe a trasferire ogni anno il 10% del suo reddito nazionale tra interessi sui prestiti vecchi e nuove emissioni: siamo a proporzioni analoghe a quelle dei debiti di guerra imposti alla Germania a Versailles dopo la prima guerra mondiale, tra le grida di Keynes che per una volta vide giusto, ammonendo che così facendo si mettevano solo le basi per un nuovo conflitto europeo che sarebbe invece poi diventato mondiale. Persino uno dei pochi sinceri europeisti americani, come il liberal Barry Eichengreen che insegna economia e scienze politiche a Berkeley, ha scritto sdegnato sull’Handesblatt che questo bel pasticcio gli ha fatto cambiare idea sull’euro, perché se le classi dirigente europee sono così “corte di leadership” allora la moneta unica è destinata a saltare.

Di fronte alla malaparata degli spread impazziti di Spagna e Portogallo – e per la prima volta anche dei BTP italiano sopra i 200 bps sul BUND -  i governi europei riservatamente si sono inginocchiati di fronte al board della BCE, implorandola di informare i mercati che la banca centrale è pronta a comprare quantità industriali di titoli dei Paesi a rischio, fino a piegare il mercato nella sua speculazione se necessario. Cosa che la BCE ha sia pur riottosamente accettato di dire, contraria com’è alla monetizzazione del debito massicciamente praticata invece dalla FED.

Senonché anche questa terza cosa i mercati rischiano di capirla come una nuova circostanza aggravante. Se la BCE copre con acquisti, tanto vale per fondi monetari, banche che devono disintermediare titoli pubblici ed hedge funds scatenarsi a briglia sciolta sull’aumento degli spreads e scommesse sui relativi futures, è come dire al mercato che ci sono di aggio possibile 1000 basis points per la Grecia, 800 per l’Irlanda, 5 o 600 per Portogallo e Spagna, e magari fino a 380 o 400 per gli stessi titoli italiani, forbici amplissime in cui far razzia con la stessa facilità con cui si possono rubare le offerte dalle cassette in Chiesa. Per di più senza rischiare di rimetterci nulla della carta che ti resta in mano, dopo gli acquisti calmieratori della BCE.

Quali ricette, allora? Gli europeisti inguaribili, quelli che fanno finta che la Germania non abbia solidi limiti costituzionali e politici al salvataggio altrui, predicano e ripetono che bisogna far nascere la fiscalità congiunta europea. S’illudono, a mio giudizio.  Dui tutto abbiamo bisogno, tranne che di un fisco armonizzato. In Italia, le tasse devono scenddere se vogliamo sopravvivere e crescere.

C’è poi il, fronte degli eurorealisti comunque ottimisti, in cui militano Tremonti e  Juncker con la loro idierian proposta “eurobond salvacicale”.  Non si è riusciti a far decollare gli eurobond per finanziare la crescita e gli investimenti fuori dai limiti al deficit posti dal Patto di stabilità, non credo che nasceranno più facilmente a copertura di chi ha bolle scoppiate da curare. Il ministro Schauble, appena promosso dal Financial Times primo nella graduatoria europea di credibilità, ha già detto che ècpntrario.

I mercatisti come me, contrari a ogni armonizzazione fiscale che significherebbe solo eternare tasse altissime per tutti invece di farle scendere, pensano invece che è molto meglio occuparsi del problema vero: cioè le banche che hanno in pancia i titoli. I mercati scommettono che le banche tedesche e francesi non si toccano, a costo di far saltare l’euro. Meglio ripatrimonializzare direttamemente quelle banche allora, come i tedeschi con la loro opacità sugli attivi e gli stress test farsa non hanno voluto fare, che obbligare paesi interi a trasferire fette inaudite di ricchezza dei contribuenti a quelle stesse banche per anni a venire.

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Zapatero: Eppur si muove… /2010/12/02/zapatero-eppur-si-muove%e2%80%a6/ /2010/12/02/zapatero-eppur-si-muove%e2%80%a6/#comments Thu, 02 Dec 2010 09:37:14 +0000 Andrea Giuricin /?p=7743 La crisi del debito ha avuto un effetto immediato in Spagna. Il Governo Zapatero ha annunciato ieri una serie di azioni che vanno in direzione della liberalizzazione e della privatizzazione in diversi settori. La Spagna aveva raggiunto due giorni fa, un differenziale record rispetto ai Bund tedeschi di quasi di 300 punti, il più alto di sempre dal momento dell’entrata dell’euro. Dopo Grecia ed Irlanda, la sfiducia dei mercati sembrava andare dritta verso la Penisola Iberica. Il Governo Zapatero ha deciso di non aspettare ed ha deciso di operare misure nella giusta direzione. L’Italia, invece, chiude il parlamento per evitare Vietnam politici, titolano oggi i giornali: c’è di che riflettere, sulle risposte diverse agli spread in salita.

Non che non permangono dei gravi errori nella politica economica del governo guidato dal leader del Partito Socialista, dato che le riforme delle Casse di Risparmio e del mercato del lavoro sono state troppo timide, ma il passo effettuato ieri non è da sottovalutare.

Possiamo distinguere tre categorie di decisioni:

-         Semplificazione e abbassamento delle imposte

-         Liberalizzazioni

-         Privatizzazioni.

Il primo punto è coraggioso, perché si decide di abbassare in parte l’imposta sulle società al 25 per cento per quelle piccole-medie imprese che fatturano meno di 10 milioni di euro annuali (precedentemente era pari a 8 milioni di euro) e la base imponibile per l’applicazione di questo livello di tassazione sale da 120 a 300 mila euro.

Tutte le aziende avranno la libertà di scegliere l’ammortamento dell’imposta sulle società nel periodo compreso fino al 2015, in modo da diminuire in tempo di crisi la pressione fiscale.

Abbassare la tassazione d’impresa è importante per aumentare la competitività. Inoltre, come segnalato anche dalla World Bank nel rapporto Paying Taxes, la riduzione di questa imposta non diminuisce le entrate.

Si elimina inoltre l’iscrizione obbligatoria alla Camera di Commercio, che diventa solamente volontaria. Questo permetterà un risparmio di 250 milioni di euro annuali per le imprese. Si favorirà inoltre la creazione dell’impresa in 24 ore.

Il secondo punto è relativo ad un aumento della liberalizzazione del mercato del lavoro. Si permette un’entrata più libera delle agenzie di lavoro private, in un mercato del lavoro profondamente rigido che vede una disoccupazione al 20,7 per cento e una disoccupazione giovanile superiore al 43 per cento.

Sul mercato del lavoro non viene tuttavia meno una certa “vena socialista”; infatti si rafforza il piano “PRODI” di protezione e inserimento sul mercato del lavoro con circa 1500 impiegati pubblici in più per favorire l’inserimento professionale.

Il terzo punto è forse il più controverso. Il Governo Zapatero vuole compiere privatizzazioni per circa 14 miliardi di euro, che arriverebbero dalla vendita del 30 per cento delle “Lotterie di Stato” e il 49 per cento degli aeroporti (AENA).

Controverso perché il Governo vende senza perdere il controllo, volendo mantenere una politica aeroportuale nazionale e pubblica. E la gestione aeroportuale pubblica non è stata certo delle più brillanti, dato che nel 2009 AENA ha perso circa 340 milioni di euro.

Un punto aggiuntivo, ma non meno importante è il taglio della spesa che arriva dall’eliminazione del sussidio di disoccupazione di lungo periodo (dopo 2 anni di sussidi a circa l’80 per cento dell’ultimo stipendio) di 426 euro mensili.

Il passo di Zapatero è stato certamente coraggioso, ma quasi obbligatorio, viste le condizioni tempestose nelle quali la nave Spagna stava navigando nel mercato delle aste pubbliche. Bisogna ricordare che lo stesso primo ministro aveva portato il deficit all’11,1 per cento sul PIL nel 2009.

Queste decisioni sono importanti, ma le prossime settimane non saranno facili per la Spagna che si ritrova un sistema di “cajas” davvero deboli e che potrebbero “saltare” da un momento all’altro.

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Poche tasse, molte entrate. Perché l’Irlanda non vuole alzare le imposte sulle imprese /2010/11/25/poche-tasse-molte-entrate-perche-l%e2%80%99irlanda-non-vuole-alzare-le-imposte-sulle-imprese/ /2010/11/25/poche-tasse-molte-entrate-perche-l%e2%80%99irlanda-non-vuole-alzare-le-imposte-sulle-imprese/#comments Thu, 25 Nov 2010 20:03:13 +0000 Carlo Lottieri /?p=7689 Alle prese con gravi problemi di bilancio conseguenti alla decisione davvero improvvida di salvare le proprie banche e quindi costretta ad affrontare un deficit fuori controllo (superiore al 30% del pil), l’Irlanda sta studiando in vari modi come ridisegnare la propria economia. Ci saranno tagli alle spese e, soprattutto, vi sarà un massiccio aiuto dal resto d’Europa. Non è sorprendente che in questa situazione si inviti l’Irlanda a modificare le proprie regole in materia fiscale, in particolare accrescendo il prelievo sulle imprese, che oggi è tra i più modesti d’Europa, dato che è solo al 12,5%.

Da questo orecchio, però, gli irlandesi sembrano non sentirci, per ragioni che un recente intervento di Nicolas Lecaussin dell’Iref (Institut de Recherches économiques et fiscales) ha illustrato molto bene.

L’Irlanda è infatti il Paese europeo che ottiene le entrate fiscali maggiori. Può sembrar strano che aliquote limitate producano grandi attivi, ma è così. In questo caso non si tratta in primo luogo di portare la mente alla “curva di Laffer” (che evidenzia come la tassazione, oltre un certo livello, deprima la produzione e quindi finisca per comprimere anche le entrate tributarie), quanto invece di aver ben presente che siamo ormai in un’economia largamente basata sulla concorrenza tra sistemi fiscali, legali e regolamentari. E poiché molte attività hanno una forte propensione a spostarsi, è normale che si trasferiscano dove il prelievo è più modesto.

In questo senso, i dati sono eloquenti. Con un’aliquota del 12,5% l’Irlanda riesce a introitare il 3,9% del pil, mentre la Francia ottiene solo il 3% (nonostante una tassazione al 34,4%), la Germania il 2,1% (con una tassazione al 29,8%) e la vecchia Europa “a 15” il 3,4% (con una tassazione media del 23,2%). Senza questa limitata tassazione, l’Irlanda non avrebbe mai conosciuto lo straordinario sviluppo che ha avuto negli ultimi trent’anni.

Il boom della Tigre celtica è stato figlio in larga misura, infatti, proprio della lungimirante decisione di abbassare le imposte, i contributi sociali, la regolamentazione. E se ora a Dublino la situazione è divenuta drammatica, questo si deve al fatto che le banche irlandesi – come quelle americane – si sono lanciate in operazioni irragionevoli (dando soldi a chi non era in grado di restituirli) e poi alla “generosità” con il ceto politico è corso in loro aiuto.

Ora anche i Paesi europei hanno messo mano al portafoglio, per togliere l’Irlanda dai guai, ma l’hanno fatto anche al fine di premere sul governo dell’isola affinché cambia la sua fiscalità. Gli “inferni fiscali” del continente – Germania, Francia, Italia ecc. – non sono disposti a sopportare la concorrenza delle economia a limitata pressione fiscale, ma i dati sulle entrate e l’esigenza di guardare al futuro sembrano indurre gli irlandesi a non modificare il loro sistema tributario. Speriamo sappiano resistere a lusinghe e minacce.

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È necessaria una tragedia greca per ottenere le liberalizzazioni anche in Italia? /2010/11/24/e-necessaria-una-tragedia-greca-per-ottenere-le-liberalizzazioni-anche-in-italia/ /2010/11/24/e-necessaria-una-tragedia-greca-per-ottenere-le-liberalizzazioni-anche-in-italia/#comments Wed, 24 Nov 2010 13:44:15 +0000 Guest /?p=7686 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Luigi Ferrata:

Vittorio da Rold su il Sole 24 Ore del 23 novembre analizza le ricette adottate dal Governo greco per fronteggiare la crisi.  Si tratta di una serie di liberalizzazioni e riforme strutturali che incidono in profondità nel tessuto sociale e burocratico del Paese. Da Rold sottolinea anche come Papandreu sia consapevole dell’impopolarità delle proprie scelte, ma che sia determinato a proseguire anche a costo di essere sconfitto alle elezioni.

Fa un certo effetto scorrere la lista e vedere come il Primo Ministro stia procedendo verso una maggiore liberalizzazione delle professioni di avvocato, ingegnere, farmacista e medico per ottener l’aumento di un punto di PIL. E ancora per risparmiare e snellire i costi burocratici il Governo greco è anche riuscito a far passare una riforma dell’organizzazione statale grazie alla quale sono state eliminate le 57 province per sostituirle con 13 macroregioni ed addirittura il Governo ha ottenuto che molti comuni venissero accorpati garantendo risparmi nell’ordine di un miliardo e mezzo all’anno.
Tra le altre misure adottate una seria lotta all’evasione fiscale, basata anche sull’utilizzo della tecnologia fornita da Google Maps per individuare gli evasori.

In sostanza le misure adottate in Grecia sono considerate le ricette necessarie per uscire dalla crisi: in altre parole per salvarsi la Grecia ha compreso l’importanza e l’urgenza di liberalizzare il mercato ed il Governo è disposto a sopportarne il costo politico nell’interesse del paese, confortato dal fatto di poter guadagnare in termini di crescita del Pil.

Rileggendo il paragrafo e sostituendo le parole Grecia e a Papandreu con Italia e Berlusconi si ottiene una fattispecie che dovrebbe essere perfettamente adattabile anche al nostro Paese ma che purtroppo non viene implementata.

A mio avviso è paradossale che nella situazione di crisi, anche l’Italia, che sicuramente in termini di crescita non gode di ottima salute, non si arrenda all’evidenza e non decida di imboccare la strada delle liberalizzazioni, tanto più che le scelte effettuate dalla Grecia sono di buon senso, condivisibili e addirittura oggetto dei programmi elettorali dei partiti di maggioranza.

La Grecia per crescere ha scelto, l’Italia vuole crescere, sa cosa deve fare, ma non lo fa.

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Fossi irlandese: viva la sterlina! /2010/11/22/fossi-irlandese-viva-la-sterlina/ /2010/11/22/fossi-irlandese-viva-la-sterlina/#comments Mon, 22 Nov 2010 16:43:16 +0000 Oscar Giannino /?p=7656 Mi spiace andare controcorrente, ma se io fossi irlandese avrei del tutto condiviso l’atteggiamento tenuto dal governo in queste ultime settimane. Avrei cioè detto fino alla fine che di aiuti non c’era bisogno, perché il debito pubblico era coperto per un anno:così da far “strizzare” le altre capitali dell’euroare.  E avrei anche opposto fiera resistenza alla condizione numero uno per gli aiuti posta dai tedeschi e dai francesi. Anzi, avrei anche aggiunto sul tavolo un’altro argomento polemico, che al contrario l’Irlanda non ha ritenuto opportuno usare.

Tutti sanno qual è la realtà. L’Irlanda non è Paese che abbia mentito sui suoi numeri pubblici come la Grecia. Non è Paese che abbia un deficit annuale a doppia cifra sul Pil delle partite correnti, come capita al Portogallo che non riesce a generare esportazioni e dipende dai capitali stranieri. L’Irlanda paga l’esplosione del suo sistema bancario, che adottando in pieno il modello di intermediazione ad alta leva era iperesposto su crediti e impieghi ad alto rischio, divenuti nella crisi insolvibili perché privi di prezzo. Con banche più grandi della sua economia, la garanzia pubblica data al sistema da salvare ha finito per non bastare, perché perdite e rettifiche sono giunte in due anni a coprire più di 40 punti nazionali di Pil.

L’innalzarsi degli spread dei titoli pubblici irlandesi sul Bund ha punito un Paese la cui economia è inefficiente? No, ha punito il fatto che in più di due anni l’euroarea non ha saputo né voluto in alcun modo darsi un meccanismo di salvataggio e  garanzia degli intermediari finanziari che non sui riverberasse immediatamente sui conti pubblici anno per anno dei diversi Paesi membri. E’ un meccanismo che vede di volta in volta i Paesi leader tirare la corda fino all’estremo secondo prossimo al default del Paese che si trovi esposto al rischio, per poi imporgli condizioni capestro per salvare le proprie banche che regolarmente hanno titoli di quel paese e sono i veri destinatari del salvataggio, che invece spingerà il Paese destinatario a due conseguenze sbagliate. La prima è una massiccia deflazione,pagata da tutti gli incolpevoli cittadini e dalle imprese. La seconda, nel caso irlandese, è ancor più inaccettabile, e costituisce la richiesta che più ha registrato opposizione a Dublino. E cioè alzare drasticamente quell’aliquota del 12,5% sul reddito d’impresa che ai grandi paesi dell’euroarea ha dato fastidio per anni. Garantendo all’Irlanda una crescita fortissima del’economia reale attirando imprese da tutto il mondo, e nell’equilibrio tra entrate e spese e dunque non in deficit, quel 12,5% di aliquota flat mostrava al mondo intero che la scelta di alte tasse europee era un pietoso scudo abbatticrescita, necessario in realtà solo a reggere l’eccesso di intermediazione pubblica del reddito nazionale.

Per questo, fossi irlandese, col cavolo che accetterei gli aiuti che servono a coprire le esposizioni franco-tedesche su titoli irlandesi, imponendo all’economia irlandese il costo e obbligando l’Irlanda ad uniformarsi alle alte aliquote continentali. Piuttosto, fossi stato un uomo di governo irlandese avrei continuato a far capire ai franco-tedeschi che è la loro Europa alla loro condizioni, che non regge. Tanto che avrei annunciato l’uscita dall’euro per un accordo di cambio collegato alla sterlina, autonoma dall’euro per fortuna dei britannici e lungimiranza di Margaret Thatcher. Su questa base, à la guerre comme à la guerre, avrei scommesso che americani e britannici avrebbero mobilitato tutte le proprie energie, per far accorrere il Fondo Monetario a sostegno dell’Irlanda.

Non è andata così. Purtroppo, franco-tedeschi ne ottengono l’ennesima conferma che l’euroarea può continuare ad andare avanti mettendo nel mirino uno dopo l’altro i Paesi esposti, al servizio dell’europrimato germanico e con la scappatoia offerta ai francesi di non prevedere rientri quantitativi del debito pubblico come tetti dichiarati ex ante in assenza del cui raggiungimento scattino sanzioni automatiche. Come capisco gli irlandesi capisco anche i tedeschi, forti delle scelte che hanno fatto su rigore pubblico e produttività privata. Purché sia chiaro che alla fine l’euro su questi presupposti non reggerà. E che presto verrà il turno dell’Italia, dopo il Portogallo. Perché non abbiamo bolle né banche esplose, ma cresciamo troppo poco e a quel punto il mercato penserà che senza un giogo al collo il debito pubblico non scenderà mai. Ci pensa, la politica italiana? Pronta com’è a dire che a quel punto la colpa è stata solo di chi ha invece frenato la spesa pubblica, non mi pare proprio. Credo anzi che in molti ci sperino, nell’Italia presto al posto dell’Irlanda. Allacciate le cinture.

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Chi ha troppi soldi, noi o lo stato? – di Antonio Martino /2010/11/19/chi-ha-troppi-soldi-noi-o-lo-stato-%e2%80%93-di-antonio-martino/ /2010/11/19/chi-ha-troppi-soldi-noi-o-lo-stato-%e2%80%93-di-antonio-martino/#comments Fri, 19 Nov 2010 10:04:07 +0000 Guest /?p=7642 Quando, il 23 novembre 1986, mi rivolsi ai 35.000 partecipanti alla marcia dei contribuenti di Torino, debuttai dicendo pressappoco: “Siamo qui da neanche un’ora e lo Stato italiano ha speso (?) mila miliardi, ne ha incassati (?) mila e ha contratto nuovi debiti per (?) mila.” Le cifre esatte, ovviamente, a distanza di tanti anni non le ricordo più, ma ricordo l’obiettivo di questa mia premessa. Volevo illustrare la tesi che, come sostenuto da Oscar Wilde, “il tempo è spreco di denaro”.

L’iniziativa dell’IBL si muove nella stessa direzione e, anche se i problemi di misurazione dello stock di debito sono notevoli, merita il nostro plauso. La ragione è molto semplice: le persone normali vivono in una dimensione monetaria che non conosce i milioni o i miliardi di euro. Quando si parla, quindi, di quei numeri, la convinzione di chi ascolta è che la cosa non riguardi lui, che di quelle somme non sa alcunché, ma altri. Se ci si limita a indicare valori pro-capite il discorso, anche se indubbiamente più comprensibile, non è tanto efficace quanto vedere le lancette di un orologio che scandiscono la corsa verso la bancarotta.

Quel maledetto orologio non si guasta mai, neanche fosse di produzione elvetica! Continua a marciare imperterrito nonostante gli eroici sforzi dei nostri governanti che, sprezzanti del pericolo, continuano a tartassarci nell’implicita convinzione che noi abbiamo troppi soldi e lo Stato, invece, troppo pochi. Come una fanfaluca di tale fatta possa essere ancora propalata senza arrossire è un mistero che supera l’umana comprensione.

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