CHICAGO BLOG » Città http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Le infrastrutture in Italia: quale ruolo per i privati. Live blogging /2010/09/21/le-infrastrutture-in-italia-quale-ruolo-per-i-privati-live-blogging/ /2010/09/21/le-infrastrutture-in-italia-quale-ruolo-per-i-privati-live-blogging/#comments Tue, 21 Sep 2010 09:23:00 +0000 Alberto Mingardi /?p=7107 A Roma oggi viene presentato il nostro primo “Rapporto sulle infrastrutture”. E’ un lavoro ampio e credo molto interessante, con un forte impianto comparato. Il fuoco è il sistema autostradale in Italia. Il convegno è coordinato con la consueta abilità dal direttore di questo blog ed è stato aperto da un intervento di Carlo Stagnaro, che ha riassunto la sua introduzione al rapporto e i suoi risultati più significativi, già presentati qui. Riassumo qui alcune delle cose che stanno dicendo i diversi partecipanti. Va da sé, la scelta dei temi più rilevanti toccati è assolutamente discrezionale.

Castellucci (AD, Autostrade) traccia un bilancio: il piano d’investimenti di Autostrade copre 1100 km, quest’anno investiremo 1 miliardo e mezzo. I privati investono il quadruplo della società Autostrade quand’era pubblica. Quando la società venne privatizzata, non aveva neanche la capacità finanziaria per la quarta corsia sulla Milano-Bergamo. C’è una grande concentrazione dell’investimento laddove c’è traffico: questo porta ad un “riequilibrio territoriale” (per anni gli italiani del Nord hanno pagato le autostrade del Sud). Fluidità migliorata, grazie agli investimenti e ad una oculata gestione di cantieri. Importanti risultati in termini di sicurezza (asfalto drenante e tutor). Autostrade ha il minor debito di tutto il settore: i ritorni per gli azionisti sarebbero stati molto più alti, se si fosse fatto più leverage. Il cash-flow è stato utilizzato per gli investimenti più che per gli investimenti. La preoccupazione degli investitori internazionali è che prima o poi si debba di nuovo, discrezionalmente, modificare il contratto di Autostrade: “l’incertezza costa per tutti” (domanda, mia, un po’ scontata: ancora una volta, un problema di credibilità del nostro amato Paese?). Gli investitori sono disponibili a prendere il “rischio traffico” e il “rischio investimento”, non il “rischio regolatorio”.

Castelli (Vice Ministro, Trasporti): c’è un problema di credibilità del Paese. Al di là delle buone enunciazioni di principio nelle tavole rotonde, investitori internazionali ne vengono poco. Non bisogna riscrivere i contratti, per non minare la credibilità della controparte pubblica. Poi però il Vice Ministro cambia rotta: se arriva una grande tempesta finanziaria, un evento davvero eccezionale, qualche correzione si può fare (?). Castelli difende le tariffe: sono un’equazione. Castelli prende coraggiosamente le distanze da Alemanno (per questa polemica). Non è possibile che nel nostro Paese non si capisca che i cittadini debbono pagare per i servizi di cui usufruiscono. Serve un “contributo ai privati sempre più massiccio”, in linea con un trend mondiale, ed è imprescindibile a causa dei vincoli di finanza pubblica. E’ giusto il momento di far costare meno le opere. Basta alle opere compensative. E’ giunto il momento di porre mano alla legge obiettivo perché non è possibile avere progetti definitivi che costano tre volte i preliminari. E’ giunto il momento di snellire oneri amministrativi. L’intervento dei privati è indispensabile sotto ogni punto di vista, per incentivarlo serve più certezza del diritto.

Paolo Costa (ex Ministro dei Trasporti, economista del ramo, ora all’autorità portuale di Venezia): la privatizzazione “vista da dentro” è stata effettivamente un successo. Il tema vero è quello della stabilità della regolazione: il rapporto IBL insiste su di essa come il cuore del problema. L’impianto concettuale è legato all’idea che vi sia una gara iniziale, e poi pacta sunt servanda. In Italia sfortunatamente “gare iniziali” non se ne fanno. A parte la privatizzazione di Autostrade (pure atipica), le altre concessioni in Italia sono “quasi-imposte”. C’è un problema di storia e di prassi. Siamo di fronte a concessioni date quando ancora la concessione era considerata un istituto pubblico. L’assenza di gare in senso proprio apre la strada alla imprevedibilità e alla discrezionalità dell’attore pubblico. Il regolatore è “catturato” dai concessionari, quasi di norma in questo Paese. Ci vogliono gare effettive, trasparenti, sulla base delle quali venga aggiudicata la costruzione di una singola opera, non di un “pacchetto” di opere. Ogni tanto i patti non sono stati adempiuti per influenza del privato, non “contro” di esso!

Nicola Rossi (economista e senatore PD): quello che è stato fatto nella seconda metà degli anni Novanta (privatizzazione Autostrade), non poteva non essere fatto ed è stato un bene per il Paese farlo. E’ stato un processo non completato, però. Processi non completati di apertura del mercato possono essere pericolosi, creando un effetto boomerang. Lo sforzo deve essere completato: abbiamo ancora tratte significative gestite da un operatore pubblico, e bisognerebbe lavorare perché questo non sia più il caso; resta debole l’impianto della regolazione a causa dei conflitti d’interessi (lo Stato concedente è anche concessionario ed è anche regolatore); il finanziamento delle nuove opere dovrebbe essere lasciato al mercato. Tre problemi da porre all’ordine del giorno: (a) semplificazione delle procedure, anche se sono quindici anni che ci si prova invano. Problemi legati alla tendenza connaturata della PA ad evitare che vi sia un centro di responsabilità riconosciuto come tale; (b) stabilità delle norme è fondamentale, non si cambiano le regole del gioco a partita iniziata, i contratti non possono essere “formati progressivamente” o “modificati in corsa”. Ma come meravigliarsi, in un Paese in cui da destra e sinistra si prendono provvedimenti fiscali “retroattivi”, cosa che ovunque farebbe scendere la gente in piazza? (c) C’è anche un problema di qualità della legislazione: la norma sul pedaggiamento del raccordo anulare era “scritta con i piedi”, la legge elettorale gioca un ruolo, ma c’è il guaio che in provvedimenti “blindati” da governi di destra o sinistra non si può correggere neppure l’ortografia.  Il risultato sono norme inapplicabili o folli, che il Paese nella sua infinita saggezza consapevolmente ignora.

Marco Ponti (economista dei trasporti): sono uno dei responsabili dell’incertezza regolatoria, ma mettere mano al contratto è stato necessario, perché era troppo vago (il price cap era mal definito). Il settore ha una struttura duale: alcune strade hanno determinate regole, altre strade vivono sotto un quadro normativo diverso. La domanda di trasporto ormai è quasi tutta nelle aree metropolitane: questo cambia il quadro in cui ci troviamo.
Ci sono davvero grandi economie di scala nel settore? Occorre dimostrarlo. C’è un “paradosso delle dimensioni”: l’aumento tariffario è distribuito su una platea tanto vasta che consente più facilmente la costruzione di opere inutili.
Non è possibile estendere il business dei concessionari? Le reti locali “fanno schifo” e sono meno sicure, perché non estendere anche lì l’attività dei concessionari? “Privatizzare di più” la gestione delle reti stradali.
La regolazione in Italia è mal fatta, manca un regolatore indipendente. La regolazione deve “mimare” il mercato: come mai in Italia non c’è un concessionario che perda dei soldi? “Se non possono fallire, non sono imprese”.
Pietro Ciucci (Presidente dell’Anas): com’è giusto, Ciucci vuole dare delle risposte ai punti critici sollevati dal nostro Rapporto sull’Anas (“giudizi netti, franchi, alcuni di questo non condivisibili”). Replica a Costa: le gare per fare nuove concessioni si fanno, l’Europa ce le impone, e le concessioni cominciano a scadere (la Venezia-Padova è scaduta, altre, come la Brennero, scadono prossimamente) e c’è un articolo di legge che ha invitato l’Anas ad anticipare i tempi per fare le gare. Non è vero che le tariffe non scendono: le tariffe vengono riviste a termine concessione, e vengono riviste secondo le complesse formule tariffarie. Il principio per cui chi usa un’autostrada paga per quel servizio è scritto in una direttiva europea e recepito dal Parlamento. Il soggetto regolatore non è l’Anas: le leggi non le fa l’Anas. Anas è un concessionario dello Stato che “subconcede” alcuni tratti a pedaggio. La sua vigilanza si limita a queste subconcessioni. Dove sta il conflitto d’interessi? La garanzia del ruolo del privato in Italia è una realtà: se si va oltre le enunciazioni di principio, si vede che in Italia il quadro normativo è stato relativamente stabile. Ruolo del pubblico è complesso: anche abbassare il costo del capitale. Per questo bisogna immaginare una soluzione mista, pubblico-privata.
Replica di Castellucci: due dati interessanti della discussione: (1) nessuno di chi ha partecipato alla privatizzazione di Autostrade mette in dubbio il successo della privatizzazione, (2) tutti sottolineano il valore della certezza del diritto. “Contratto di concessione” è un ossimoro: o è un contratto, o è una concessione. L’UE ci porta a considerare i contratti come contratti, in cui pubblico e privato hanno pari dignità.
Sull’allocazione del rischio: gli investitori sono disposti ad accettare fallimento e rischio.-traffico, sono disposti ad accettarre rischi che conoscono e gestiscono. Non sono disposti ad accettare rischi che non conoscono e non gestiscono: come il rischio di modifica delle regole del gioco. I contratti devono essere “adattabili”, ma non “modificabili” e non a formazione progressiva. Se si rispettano alcuni “requisiti minimi di certezza”, è ancora possibile trovare risorse sui mercati internazionali.

Enrico Morando (senatore PD): i governi cambiano ma i problemi restano. I governi italiani alla domanda: perché non si fanno infrastrutture? hanno risposto, destra e sinistra: perché mancano i soldi. Il rapporto dell’IBL dimostra che così non è: in un’economia globale non mancano capitali, il problema è come attrarli, nel settore della costruzione delle infrastrutture, al fine di aumentare la capacità competitiva del Paese. Noi non riusciamo ad attrarre capitali privati non per assenza di capacità pubblica, ma per problemi che riguardano il funzionamento del sistema-Italia nel suo complesso. Ci sono questioni che travalicano il settore: giustizia e relazioni sindacali “impattano” l’attrazione di capitali per il settore autostradale, molto più della regolazione di settore. Una punzecchiatura a Ciucci: apprendo con stupore che non vi sarebbe un conflitto d’interessi in capo all’Anas.

(Subentra cs perché am ha il pollice dolente)

Morando si chiera a favore del coinvolgimento delle regioni nella regolazione e vigilanza sulle autostrade, purché restino ben distinti questi compiti dall’ingresso in campo come concessionari. Di fatto approva il “modello lombardo” che vede un coinvolgimento dell’Anas assieme alla regione per incentivare la realizzazione di infrastrutture utili.

Giannino si aggancia a quest’ultimo punto per passare la parola a Enrico Musso, senatore del Pdl ed economista dei trasporti che precisa di parlare più da economista che da politico. Musso sottolinea le parole di Morando sulla non pertinenza dei problemi di finanza pubblica: oggi il privato non è più un “esecutore efficiente”, ma può giocare in prima persona, sia per virtù sia per necessità. Il privato, cioè, non è più un mero amministratore (o realizzatore) di redditività, ma un investitore che si assume dei rischi. Quindi, la platea dei privati interessati deve essere necessariamente aperta allo scenario globale: se vogliamo buone infrastrutture, dobbiamo essere in grado di attrarre investimenti. Quali condizioni vanno rispettate? Anzitutto, prosegue Musso, creare vera contendibilità attraverso gare vere e concessioni di durata rapportata all’entità degli investimenti. Un secondo elemento è la flessibilizzazione degli elementi tariffari: il trend è sempre più quello di far pagare la viabilità specie in relazione alla congestione. Dunque il pagamento non è solo corrispettivo della costruzione e gestione, ma riflette anche il valore d’uso, quindi si potrebbero immaginare pedaggi variabili in funzione della domanda. Conclude Musso: la redditività, specie nel trasporto merci, si colloca su un ciclo che spesso è intermodale, non sta sul singolo segmento. Dunque il ruolo del privato può essere valorizzato su interi archi intermodali come i grandi corridoi europei? Infine, ribadisce che le opere devono essere “utili”, e anche allo scopo di discriminare quelle utili da quelle inutili è essenziale che le regole e le norme siano certe. In Italia abbiamo un paradosso per cui il regolatore pubblico è rigido nell’adeguarsi ai cambiamenti ma estremamente volubili all’opinione pubblica e questo contribuisce a creare confusione dannosa. “Il rischio di cattura del regolatore non c’è perché il regolatore non esiste: l’Anas dovrebbe essere abolita e superata da un’autorità indipendente e dalla riassegnazione delle concessioni a soggetti privati”.

Interviene Luigi Grillo, presidente della commissione trasporti del Senato. Grillo ripercorre le principali tappe degli anni recenti: svalutazione della lira nel 92, legge Merloni nel 93 che ha l’effetto – secondo lui – di paralizzare gli investimenti in opere pubbliche fino al 2001. La ragione è che le procedure sono talmente macchinose da impedire la realizzazione delle opere. Le cose cambiano con la nomina di Lunardi a ministro. Quindi legge obiettivo, legge delega e legge 166 che modifica la Merloni. Grazie alla riforma del 2002 che ha sbloccato il project financing gli investimenti sono ripartiti. Cita statistiche sulle gare e l’investimento di capitali privati per dimostrare che effettivamente una modifica ha potuto liberare forze importanti, stoppate dall’intervento a gamba tesa di Di Pietro che cancella il diritto di prelazione. I project riprendono quando, nel 2008, il centrodestra re-introduce il diritto di prelazione. Dunque, dice Grillo, se fai norme appropriate ottieni i risultati: “abbiamo poche risorse pubbliche, molte risorse private e il sistema bancario più forte d’Europa”. Grillo critica il veto Tremonti sul project di terza generazione, che avrebbe consentito una serie di investimenti senza onere per il pubblico. Il PF di terza generazione consente ai privati di prendere l’iniziativa per un investimento, senza che la decisione debba nascere in prima battuta dagli enti pubblici. In sostanza si tratta di una evoluzione della normativa esistente per esaltare il ruolo dei privati, che sarebbe molto efficiente specie al nord dove la PA funziona. Grillo propone la tariffazione delle superstrade (circa 6.600 km) per consentire investimenti necessari in capacità e sicurezza. Tutto questo, secondo Grillo, funziona o può funzionare: cosa non funziona? Certo, la macchinosità delle procedure. Ma l’anno scorso una norma ha sbloccato 11 concessioni autostradali. Pochi mesi dopo si è ritenuto che queste concessioni già sbloccate dovessero essere riportate al Cipe, che le ha riapprovate nelle condizioni precedenti alla norma: siamo al punto di partenza e sono ancora bloccate, con ingenti investimenti in attesa. Altro grande problema è responsabilizzare il ruolo dei magistrati per curare le patologie della giustizia. Sull’Anas, Grillo ritiene che il controllo andrebbe assegnato ad altri soggetti, separandolo dal ruolo di concedente e concessionario. A differenza di Musso, però, Grillo ritiene che il controllo non dovrebbe essere assegnato a un’authority ma al ministero.

Giannino lascia la parola a Francesco Ramella per le conclusioni.Ramella parte con due buone notizie: (1) non ci sono più i soldi perché abbiamo capito che né il debito né le tasse sono utili. (2) I soldi pubblici non servono. Quali opere servono? Servono opere dove c’è congestione, cioè sulle tratte più redditizie. Il sistema, se lasciato a se stesso, si auto-equlibra. Il problema è che continuiamo a fare opere che non servono, o perché non ci sono abbastanza persone che la usano, o perché non sono disposte a pagare abbastanza.  Poiché gran parte del traffico è locale, prosegue Ramella, finanziamo le opere pubbliche a livello locale: è un modo per discriminare tra opere utili e no. Conclusione: lo stato più che fare dovrebbe lasciar fare e smettere di fare le cose sbagliate.

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Milano si agita, ma manca il progetto. di Mario Unnia /2010/07/02/milano-si-agita-ma-manca-il-progetto-di-mario-unnia/ /2010/07/02/milano-si-agita-ma-manca-il-progetto-di-mario-unnia/#comments Fri, 02 Jul 2010 13:39:01 +0000 Guest /?p=6427 Riceviamo da Mario Unnia e volentieri pubblichiamo:

Un entusiasmo progettuale percorre la città dopo tanto letargo. Il Manifesto per Milano promosso dal Corriere della Sera è emblematico: all’elenco chilometrico delle adesioni seguono incontri e assemblee di cittadini che fanno richieste sproporzionate alle risorse e ai tempi necessari. C’è poco da aspettarsi da questa progettazione collettiva se non un’attivazione dell’opinione pubblica a scopo politico, in vista delle elezioni, e forse un incremento delle vendite della testata.

La voce del popolo in quanto tale ha raramente prodotto qualcosa di significativo e di valido, e d’altro canto le classi dirigenti affidabili non hanno bisogno di adunate per sapere cosa fare. E, se non bastasse, è di qualche giorno l’ultima trovata, ‘Sìamo Milano’, che vede riuniti creativi, artisti, intellettuali, o pseudo tali.

In questo clima si sono mossi anche i Radicali con l’iniziativa dei cinque referendum per la qualità dell’ambiente e della vita a Milano. Rispetto all’attivismo velleitario del Manifesto la proposta è migliore sotto il profilo metodologico. Ma purtroppo il referendum consultivo di indirizzo, previsto nello statuto del Comune di Milano, è ben poca cosa. Il Comune entro 60 giorni dall’esito deve dire se è d’accordo e provvedere (i tempi e i modi li sceglie lui, naturalmente), se non è d’accordo deve spiegare il perché. Dunque anche questo strumento di attivazione popolare può dare origine a infiniti dibattiti prima e dopo la consultazione, ma come tutte le modalità di democrazia diretta può favorire una decisione del governo,  però senza vincolarla.

Piuttosto, domandiamoci quale profilo di città evocano i cinque quesiti – mobilità sostenibile, non cementificazione delle aere Expo, riapertura dei Navigli, alberi e verde pubblico, energia pulita. La domanda non è peregrina, e rinvia ad una ricerca fatta dall’associazione ‘Primato Milano’ e presentata nel settembre 2005 in vista delle elezioni comunali. Si trattò di una consultazione tramite questionario scritto di esponenti qualificati della comunità professionale di Milano: l’argomento era duplice, il profilo di metropoli che si immaginava a dieci anni, nel 2016, e di conseguenza il profilo del candidato Sindaco che ne poteva essere il coerente attuatore. I rispondenti furono 230, pari al 53% dei contattati.

Tralascio il profilo del candidato e vengo al profilo della città. Se ne delinearono tre, e ne trascrivo una sintesi dal rapporto finale

Fast Town, la città che compete (indice di convergenza 56%)
Una città con vocazione competitiva, europea, cosmopolita. Centrata sull’ intreccio tra nuova industria e finanza, comprende le attività di ricerca, progettazione, formazione, servizi, e l’apparato terziario, costituito da finanza, borsa, headquarters, authorities. I business portanti sono moda, design, salute, media, università, e il terziario finanziario privato, banche, assicurazioni, fondi e sim. La città privilegia un governo programmatorio e un elevato efficientismo pubblico. Le città di riferimento, citate per la nuova industria, sono Barcellona, Lione, Francoforte, Monaco, e, per la finanza, Londra, Francoforte, Zurigo. Francoforte sembra riflettere l’intreccio “nuova industria e finanza” indicato dagli intervistati.

È tuttavia il modello di città non è esente da contraddizioni. Infatti, è una città mono-dimensionale che rischia di non vedere o addirittura di contrapporsi alle esigenze, ai valori, alle culture, alle etnie diverse o emergenti. È una città che può subire i meccanismi degenerativi della competizione. Da ultimo, è una città più interessata al lavoro che alla qualità della vita. L’impegno nel raggiungimento degli obiettivi economici può mettere in secondo piano il valore della socialità.

Slow Town, la città che vuole la qualità della vita (indice di convergenza 35%)
È un modello di città ‘alternativo’. È una città che auspica e persegue una diversa qualità della vita, valorizza il patrimonio storico-culturale anche come fonte di business, è orientata all’estetica, alle comunità che la costituiscono, al ‘punto di vista del cittadino medio’. È sensibile alle culture e agli stili di vita diversi ed emergenti, al volontariato, in parte alternativa alla tradizione milanese. Lo sviluppo è affidato prioritariamente alle attività culturali ed educative, al turismo, all’entertainment, al non profit. La città privilegia un governo concertativo e caratterizzato dai processi corali/assembleari di gestione del pubblico. Le città citate per la bellezza, il comfort e la qualità della vita sono Ginevra, Amburgo e Copenaghen.

Ma si porta dietro anch’essa alcune rilevanti contraddizioni. Innanzitutto non ha chiaro il profilo di una classe dirigente adatta al suo progetto e privilegia una governance fondata sul metodo della concertazione che comporta eccessive lentezze decisionali. Tende, poi, a non affrontare il problema del come promuovere nuove e adeguate  fonti di ricchezza. E, da ultimo, rischia una diaspora ed uno spezzettamento dei valori.

Hard Town, la città che funziona (Indice di convergenza: 9%)
È sostanzialmente una città austera. Ricerca una fase di assestamento, dopo le stagioni dello sviluppo e della crisi, ed è orientata alla manutenzione migliorativa della situazione esistente. L’obiettivo del buon funzionamento della città prevale sulla volontà competitiva. L’opzione minimalista è suggerita da un realismo conformista. L’equilibrio attuale tra attività e servizi non è soddisfacente, ma non va stravolto, bensì  migliorato. La città privilegia l’efficientismo di una classe dirigente burocratica. Le città di riferimento sono Barcellona e Monaco (evidentemente per ragioni diverse da quelle che sono un riferimento obbligato per la Fast Town) e Stoccolma.
Anche questo modello di città non è esente da contraddizioni. Si tratta, infatti, di un modello di città sostanzialmente anonima, che tende ad essere utilizzata dai cittadini come un bene strumentale e non mostra forti aperture culturali verso il nuovo e il diverso. Di più: è una città che si considera ‘fredda’ ai valori del business, non supporta prioritariamente l’attività imprenditoriale.

E veniamo alle conclusioni. Il lettore può divertirsi a confrontare, a distanza di cinque anni, la Milano di oggi con i tre profili individuati allora dalla ricerca, e scegliere quello che più si avvicina alla realtà odierna. Può anche essere un esercizio utile.

Tornando al documento,  è certamente datato, ma mantiene una sua validità. Innanzitutto ricorda che occorre individuare, attraverso opportuni sondaggi, non una lista di singoli problemi pratici, che sono ben noti a tutti, bensì ‘visioni’ o ‘profili’ della città di Milano. Ciò che manca nel dibattito popolare del Manifesto per Milano e anche nei referendum dei Radicali. I cinque referendum riguardano appunto singoli problemi pratici, ma non delineano un profilo coerente che si richiami, ad esempio, alla Slow Town.

Inoltre ricorda che è velleitario pensare ad una città che ‘armonizzi’ i tre profili indicati: ne risulterebbe un compromesso, e Milano è segnata da una serie di falliti compromessi. Gli alberi in piazza del Duomo o davanti al Cenacolo sono l’ultimo delirio compromissorio. La vocazione della città non può che essere una, preminente, e questa ne definisce la specificità.

Infine, un avvertimento: ogni modello di città richiede una classe dirigente funzionale alla sua vocazione. La scelta della classe dirigente ad hoc presuppone idee chiare nella cittadinanza: ma non sono i Manifesti  né i referendum di basso profilo quello che aiuta i cittadini alla scelta migliore.

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Manifesto per Milano, chi conta non ha firmato /2010/05/15/manifesto-per-milano-chi-conta-non-ha-firmato/ /2010/05/15/manifesto-per-milano-chi-conta-non-ha-firmato/#comments Sat, 15 May 2010 13:56:39 +0000 Guest /?p=5995 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Mario Unnia

Il coraggio e l’orgoglio, questo il motto del Manifesto per Milano, pubblicato a doppia pagina sul Corriere della Sera di giovedì 15 maggio. C’è un ‘decalogo’ di buoni propositi, con titoli tipo ‘Ritrovare l’anima’, oppure ‘Guardare oltre’, e ancora ‘La paura da vincere’, e in più cinque ‘progetti’: naturalmente solidarietà, naturalmente ambiente, naturalmente salvare Milano, naturalmente cultura del fare, naturalmente Expo. Come si vede, fotocopie di fotocopie. Ma la sorpresa viene dall’elenco dei firmatari detti ‘protagonisti’, che si sono accodati ai tre estensori del Manifesto. Ci si trova di tutto e il contrario di tutto, destra sinistra e centro, in maggioranza gente di teatro, di stampa, di accademia, di scienza, di mondo. E a pag. 18, in bella mostra, il sindaco Moratti e il cardinale Tettamanzi, mallevadori, par di capire, dell’intero progetto. Insomma, vengono in mente il vescovo e il podestà, i due unici poteri delle città medioevali. Stando alle firme, i poteri che contano sono restati fuori.

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Stephen Goldsmith sbarca nella Grande Mela /2010/05/06/stephen-goldsmith-sbarca-nella-grande-mela/ /2010/05/06/stephen-goldsmith-sbarca-nella-grande-mela/#comments Thu, 06 May 2010 12:45:55 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=5925 La notizia è che Stephen Goldsmith ricoprirà un ruolo di spicco nell’amministrazione della città di New York. L’autore di “Governare con la rete. Per un nuovo modello di pubblica amministrazione” (IBL Libri) è stato infatti nominato dal sindaco Michael Bloomberg come suo vice.
Goldsmith ha ricoperto il ruolo di sindaco di Indianapolis dal 1992 al 1999, mettendo in pratica ciò che poi ha sistematizzato in “Governare con la rete”. Durante i suoi due mandati, per fornire servizi pubblici ai cittadini ha creato delle vere e proprie “reti”, dove ogni soggetto ricopriva un ruolo ben definito. Responsabilizzazione dei cittadini, coinvolgimento delle comunità locali e una posizione di primo piano data ad organizzazioni non profit e for profit, questo è stato l’obiettivo (raggiunto) del sindaco Goldsmith. La sfida che ora dovrà affrontare è senza dubbio affascinante, NYC ha 10 volte la popolazione di Indianapolis: le stesse ricette possono funzionare anche nella Grande Mela? Stando a quanto si è appreso, Goldsmith dovrà sovrintendere al funzionamento della polizia e dei vigili del fuoco di New York, e a tanti altri settori fra i quali quelli dei trasporti e della sanità.
Dopo il termine della sua esperienza come sindaco di Indianapolis, Goldsmith ha ricoperto il ruolo consigliere di Bush, durante gli anni della sua amministrazione. Nello specifico, si è occupato delle iniziative della Casa Bianca legate al mondo del non profit e al coinvolgimento delle comunità locali (e soprattutto delle comunità religiose) presenti in larghissima quantità sul territorio statunitense. Non è un caso, infatti, che in “Governare con la rete” Goldsmith dedichi molto spazio ai servizi di assistenza sociale, ad esempio ai servizi di assistenza all’infanzia: tutela della famiglia, adozioni, affidamenti. Per ognuno di questi settori possono essere messe in piedi vere e proprio “reti”, che, grazie alle possibilità di coordinamento offerte dalle innovazioni tecnologiche, permettono una frequente e veloce interazione fra le parti coinvolte. Ma lo stesso schema è applicabile a numerosi ambiti: dalla gestione dei parchi alla costruzione di infrastrutture.
Come scrive Goldsmith, “un’entità statale che realizza la maggior parte della sua missione tramite reti di partner richiede un’impostazione e una serie di capacità diverse rispetto ai tradizionali modelli di governo”. Nel libro si trovano numerosi consigli su come impostare tali reti, e sulle capacità necessarie per renderle operative.
Il libro costituisce una sorta di manuale, che cerca di dare risposta alle tante domande legate ai nuovi modi di erogare servizi pubblici. Goldsmith (ed Eggers, co-autore del libro) non mancano di farcire il volume con numerosi esempi concreti. Ciò che negli Stati Uniti è divenuto realtà da parecchi anni, da noi si deve ancora imporre, scontrandosi con problemi di natura culturale.
Se negli ultimi tempi, in Italia, il dibattito è stato inflazionato da termini come “esternalizzazioni”, “privatizzazioni”, “liberalizzazioni”, non si può dire che nella realtà delle cose il panorama abbia subito particolari svolte. Un esempio è rappresentato dal tema della “privatizzazione” dell’acqua, affrontato in diverse occasioni su questo blog. Se da una parte è stato messo in atto un provvedimento volto a coinvolgere maggiormente i privati nella gestione dei servizi idrici, dall’altra non si è atteso molto per gridare allo scandalo, ricorrendo subito al referendum per abrogare una legge dello Stato.
Le forme tradizionali di erogazione dei servizi sembrano segnare il passo, sia per motivi di efficienza che economici. Il settore pubblico andrebbe ripensato. Se esiste la volontà politica di fornire determinati servizi, il problema si sposta allora su “come” questi vadano erogati. Goldsmith dimostra come il settore pubblico possa reinventarsi, perdendo il suo carattere “operativo” per concentrarsi sul ruolo di impulso e controllo. Non più dunque una gestione del servizio attraverso una struttura “pesante” e burocratica, ma attraverso una pluralità di soggetti, tenuti insieme da regole chiare stabilite preliminarmente (sulle finalità da raggiungere, sulle modalità della collaborazione, ecc.).
Teniamo dunque d’occhio quello che succederà a NYC, perché potrebbero realizzarsi esperienze da cui trarre ispirazione. Nel frattempo, per gli amministratori che vogliano mettere in pratica la “dottrina Goldsmith, esiste già un manuale a cui appoggiarsi, si chiama “Governare con la rete”.

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Il federalismo polis-centrico. Di Mario Unnia /2010/04/08/il-federalismo-polis-centrico-di-mario-unnia/ /2010/04/08/il-federalismo-polis-centrico-di-mario-unnia/#comments Thu, 08 Apr 2010 07:05:19 +0000 Guest /?p=5618 Riceviamo da Mario Unnia e volentieri pubblichiamo.

Quale il ruolo di Milano in una Lombardia schiacciata, come un tramezzino, tra Piemonte e Veneto animati da un forte protagonismo? Si potrà ancora parlare di un primato di Milano, ovvero di una sua egemonia sull’intero Nord? Per rispondere giovano alcune riflessioni proprio sul federalismo di cui si farà un gran parlare nei prossimi mesi.

A sentire il dibattito post elettorale il grande vincitore serebbe il federalismo regionalista e il partito del territorio, grazie ai quali l’Itala si avvierebbe a vivere la sua stagione di progressivo spostamento dell’egemonia politica dallo stato (che pur vive un momento di rilancio, ma solo a causa della crisi)  alle regioni: il tutto presentato come un portato dei tempi.

Il paradosso è che in verità le cose non stanno proprio così, come insegna l’esperienza dei paesi confrontabili con il nostro. Nel grande processo di globalizzazione, rallentato dalla crisi, ma non interrotto e destinato a riprendersi e a sviluppare, non sono né gli stati e tanto meno le regioni, bensì le grandi città i luoghi in cui avviene l’intersezione tra i processi di globalizzazione e le dinamiche culturali, sociali e politiche (le due dimensioni espresse dal vocabolo ‘glocal’). In un mondo strutturato dalle reti, una di queste collega le capitali politiche, un’altra le città finanziarie, una terza le città della scienza e della ricerca, una quarta quelle della comunicazione, e così via. Ma sono i nodi che contano, perché la reti sono a modo loro gerarchiche (come a maggior ragione è gerarchica la ‘grande rete’ per antonomasia, a dispetto di quel che pensano gli ingenui navigatori) . Infatti è l’eccellenza della funzione ad assegnare ad una città la leadership nella rete di appartenenza; senonchè, la vera leadership la guadagna e la mantiene la città che si trova all’intersezione del più alto numero di reti. L’esempio emblematico è Londra, che è al tempo stesso capitale politica, finanziaria, dell’informazione, della cultura, e dello spettacolo.

Ne consegue una forte competizione tra città (dall’Expo alla Formula Uno) all’interno del sistema urbano transnazionale, trasversale rispetto agli stati, che in parte coincide, in parte no, con la competizione tra territori.  Emerge una sorta di confederazione di centri di potere urbani, verrebbe da dire una lega di potenziali città-stato. Le città che non si inseriscono in questo sistema vengono prima  o poi retrocesse a capitali di contado.

La tendenza all’affermazione del sistema urbano transnazionale sinteticamente evocato capovolge i paradigmi concettuali del federalismo, e suggerisce proprio ai fautori del medesimo una pausa di riflessione. E’ un paradosso non solo apparente, ma lo spostamento di fatto, al di là dei desideri e delle ideologie, del peso politico dal territorio ai nodi delle reti, costituiti dalle città, ridimensiona il modello del federalismo regionalista dal momento che non è la regione, e tanto meno la macroregione, il soggetto percepito come soggetto politico principale (vedi il recente comportamento elettorale). Si può aggiungere, altro paradosso solo apparente, che è proprio il territorio il soggetto sconfitto dalla globalizzazione se è privo al suo interno di un nodo di eccellenza, di una città egemone nella rete transnazionale, e questo è vero anche se molti federalisti impiegheranno tempo per rendersene conto. Va da sé che la tendenza in atto rende obsolete le ipotesi secessioniste dei territori; e, terzo paradosso solo apparente, condanna i partiti territoriali proprio nel momento in cui sembrerebbero essere i dominatori dell’arena politica.

Il federalismo cui guardare è dunque il cosiddetto ‘federalismo polis-centrico’. L’obiezione, che il federalismo polis-centrico estremizzi la frammentazione territoriale, non regge, perché proseguirà in futuro la frammentazione degli stati in unità più piccole ed emergeranno alcune città non solo in forza della dimensione, bensì anche della funzione e dell’autosufficienza fiscale. Un’ altra possibile evoluzione è verso l’expanded federalism, che comprende le città-nodo come terzo partner al fianco del governo federale e degli stati. In Usa si discute di federalismo urbano e di federalismo urbecentrico: ambedue i modelli evidenziano il posto che le città occupano nella struttura del sistema federale, tra i governi degli stati e il governo di Washington.

Occorre aggiungere che questo neofederalismo polis-centrico è il prodotto del declino della forma stato dominante nell’epoca moderna, e a modo suo è un ritorno alle origini del federalismo: evidenzia infatti la prevalenza della negoziazione e tendenzialmente del ‘contratto’ tra comunità federate, in primis le città-nodo, piuttosto che del ‘patto politico’. Dalla crisi dello stato emergerebbe  un insieme di contratti, di aggregazioni di diritti e di obblighi che hanno alla base negoziazioni di carattere privatistico, ciò che esisteva nella fase che precedette appunto la formazione e il consolidamento dello stato moderno.

In questa prospettiva Milano può evitare la fine del salame nel tramezzino. Purchè rifletta su se stessa, sui suoi assets, faccia un check up delle sue energie vitali, e si ponga l’obiettivo di diventare davvero una città-nodo nel federalismo transnazionale polis-centrico. Con una classe dirigente all’altezza della partita.

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Scusi, sa dov’è via Hayek? /2010/04/01/scusi-sa-dove-via-hayek/ /2010/04/01/scusi-sa-dove-via-hayek/#comments Thu, 01 Apr 2010 15:09:22 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=5575 Chi è nato e cresciuto nei paesi del socialismo reale in salsa emiliana ha familiarizzato da subito con i “santini” del PCI: Marx, Gramsci, Togliatti, ecc. Bastava alzare un attimo lo sguardo per constatare che la toponomastica cittadina non lasciava spazio al dubbio: l’amministrazione locale non poteva che essere “rossa”. Non so se esista una storia della toponomiastica italiana, ma credo sarebbe di un certo interesse. Per capire l’influenza delle varie dottrine di pensiero sui territori che compongono la nostra Penisola, basterebbe dare un’occhiata a chi sono intitolate le vie che attraversiamo. In un paese, come l’Italia, dove tutto viene letto in chiave politica, anche l’intitolazione di vie, piazze, giardini, ecc. spesso divide. Così succede quando si vuole “riabilitare” qualche figura più o meno compromessa con il Ventennio, oppure quando il personaggio in questione ci ha lasciato da troppo poco tempo e non è ancora stato “storicizzato”.
E allora abbiamo avuto aspre polemiche quando a Roma si voleva intitolare una via a Giuseppe Bottai; oppure, di recente, nel momento in cui si è pensato, a Milano, di ricordare Craxi attraverso la toponomastica. E cosa dire della proposta di dedicare una via a Rosa Berlusconi? Nessuna di queste proposte è andata in porto. Il risultato è stato solamente un gran baccano.
Con un po’ di stupore ma con grande piacere abbiamo invece appreso che la Giunta del Comune di Milano ha deciso in questi giorni di dedicare una via a un grande scienziato sociale del Novecento: Friedrich A. von Hayek. In zona Bicocca ci sarà una Via Hayek! Verrebbe voglia di trasferirsi…
Forse è inutile ricordare chi era Hayek. Premio Nobel per l’economia, figura di punta della cosiddetta “scuola austriaca”, intellettuale di straordinario valore, Hayek si è battuto per tutta la vita a sostegno della libertà. In anni in cui il mondo era spaccato in due, tanti si sono fatti accecare dal sol dell’avvenire, e hanno sostenuto attivamente forme di pianificazione in campo economico e ideologie di stampo socialista. Hayek no, ha sempre difeso “la società libera”, senza paura di sporcarsi le mani. Dare il suo nome a una via è un omaggio a tutta una tradizione di pensiero che ha sempre saputo tenere la barra ferma.
Oltre a Via Friedrich von Hayek, il Comune di Milano ha istituito il Giardino Antonio Custra, i Giardini Antonio Marino, via Alle donne vittime della violenza, via Gian Maria Volontè e via Giovanni Ansaldo.
Come spiega l’assessore alla cultura Massimiliano Finazzer Flory (a lui si deve la felice scelta di dedicare una via ad Hayek): “Vi è un passaggio esplicito che tiene insieme queste vie ed è la libertà. Con Giovanni Ansaldo abbiamo voluto ricordare un rappresentante di una borghesia illuminata e impegnata a favore della città. Gian Maria Volontà è, invece, un attore che ha saputo abbracciare i generi del cinema e del teatro lungo la direzione di una nuova drammaturgia densa di motivazioni etiche. Con Friedrich Von Hayek Milano è la prima città italiana ad onorare un grandissimo filosofo ed economista liberale che ha posto al centro della sua teoria la società aperta e l’economica di mercato come luogo della conoscenza, battendosi contro il falso individualismo e contro tutti i totalitarismi”. Che dire: ora aspettiamo via Milton Friedman, largo Ludwig von Mises e magari piazza Bruno Leoni!

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“Casa popolare”? Un bel bordello… /2010/03/27/%e2%80%9ccasa-popolare%e2%80%9d-un-bel-bordello/ /2010/03/27/%e2%80%9ccasa-popolare%e2%80%9d-un-bel-bordello/#comments Fri, 26 Mar 2010 23:05:27 +0000 Carlo Lottieri /?p=5539 È ormai scattata l’ora X per il grande progetto governativo volto a rilanciare l’edilizia popolare di Stato. E si deve riconoscere che il Novecento pare proprio non voglia mai finire, nonostante la devastazione conseguente a ogni sorta di pianificazione (economica, urbanistica, sociale ecc.) e a dispetto della bruttezza delle periferie costruite dai governi – tanto a Sofia come a Milano, a Praga come a Roma – sottraendo soldi a chi veniva poi spedito a vivere lì.

Nelle intenzioni del governo si prevedono 50 mila nuovi alloggi da realizzare in cinque anni e che dovranno mobilitare – nelle logiche keynesiane di chi ci amministra un effetto fondamentale è questa spesa “indotta” – circa 4 miliardi di euro. Tutti fondi statali? No, attenzione, perché si tratterà di operazioni in cui il denaro pubblico gestito da politici e burocrati si mischierà a quello privato: con il rischio (ma è quasi una certezza) di offrire tanto nuovo lavoro alle procure di mezza Italia.

L’iniziativa si muoverà essenzialmente su due linee: l’acquisto, il recupero e la costruzione diretta di alloggi popolari; la creazione di fondi immobiliari che uniscano soldi dello Stato, risorse delle regioni e capitali di provenienza privata. Il tutto entro un quadro nazionale che verrà poi negoziato con le autorità regionali. Insomma, “di tutto e di più”.

Se molte perplessità vengono dall’impianto particolarmente barocco di questa iniziativa governativa (come se non si fosse ancora compreso che la via più breve verso la corruzione consiste nel far cooperazione capitali pubblici e privati!), è l’obiettivo stesso dello Stato immobiliarista che lascia molto perplessi e che anzi non promette nulla di buono.

Come già mi era capitato di scrivere anni fa, bisognerebbe infatti prendere atto che, nel settore dell’edilizia popolare, l’intervento pubblico ha miseramente fallito: per più di un motivo. Quando regioni o comuni dispongono di un patrimonio immobiliare da assegnare alle famiglie più bisognose, la conseguenza inevitabile è che lo sforzo di risolvere un problema ne crea altri e spesso perfino più seri. Per molte e convergenti ragioni.

Degrado immobiliare. Gli enti pubblici non sanno gestire le abitazioni e, per vari motivi, non riescono ad amministrarle in maniera efficiente. Quando un impianto idraulico si guasta, l’ente pubblico (si tratti di un comune oppure di un ex Iacp) non può rivolgersi al primo artigiano disponibile che goda di una qualche fiducia (come fa ognuno di noi), ma deve seguire procedure che evitino favoritismi e corruzione. Nel frattempo, però, la casa è inondata. Se l’occhio del padrone ingrassa il cavallo, dobbiamo prendere atto che le case popolari sono cavalli senza padrone: destinati dunque a una rapida rovina. (Non a caso in tutta Italia si procede periodicamente alla letterale demolizione di palazzi e quartieri popolari che l’incuria di politici e burocrati ha progressivamente devastato.)

Segregazione abitativa. Il programma (che si vorrebbe “sociale”) di quanti costruiscono case popolari poi assegnate, in ogni area, alle famiglie più disagiate finisce per concentrare proprio nei medesimi quartieri quanti hanno più problemi: legati alla tossicodipendenza o a malattie invalidanti, alla povertà estrema o ai malesseri connessi all’immigrazione. I progetti volti a realizzare case popolari, è risaputo, sono destinati a creare quartieri-ghetto, dato che il beneficio di poter disporre di un’abitazione a canone moderato viene ovviamente riservato, in prima battuta, a quanti ne hanno maggiormente bisogno.

Iniquo trattamento. Raramente l’utilizzo delle abitazioni pubbliche, inoltre, risponde a criteri di equità. Qui non ci si riferisce in primo luogo al fatto che l’espansione del patrimonio immobiliare pubblico ha spesso riguardato appartamenti di pregio (quasi sempre intercettati da politici, sindacalisti e altri membri della “casta”), ma soprattutto al fatto che è proprio della distribuzione dei benefici “in natura” il fatto di rivelarsi inefficiente. Chi dieci anni fa ha ottenuto un appartamento a canone sociale perché era disoccupato e quindi rientrava tra coloro che ne avevano diritto, oggi potrebbe aver visto modificare la propria situazione: ugualmente rimane dov’è (gli sfratti sono impossibili tra privati, figuriamoci se il proprietario è pubblico…) anche se altri ne avrebbero più bisogno.

Spreco di risorse. Non soltanto il capitale immobiliare pubblico è gestito male e degrada, ma esso è utilizzato come peggio non si potrebbe. Se ad esempio sono un cittadino romano e ho bisogno di un’abitazione e un giorno mi viene assegnato un appartamento a Roma Nord, certamente la cosa mi fa piacere e accetto; magari però i miei parenti e amici sono di Roma Sud, e questo comporta per me un notevole di disagio. Non solo: se anche dovesse bastarmi, per le mie esigenze, un bilocale del valore di 600 euro al mese, certo non mi lamenterò se mi danno un tri o un quadrilocale del valore di 800 euro. Senza dubbio se avessi ricevuto quella cifra invece del bene, avrei preso un appartamento più piccolo, nel mio quartiere e avrei utilizzato i soldi rimasti per altre mie esigenze.

Tutto allora si risolverebbe se gli enti pubblici decidessero di abbandonare la proprietà degli immobili e, ovviamente, se smettessero di acquistarne e costruirne di nuovi. Gli stessi fautori del solidarismo di Stato, d’altra parte, meglio farebbero a chiedere che l’ente pubblico si limiti a sostenere economicamente chi ne ha bisogno, lasciandolo quest’ultimo libero di trovare un’abitazione in affitto dove vuole.

Ovviamente una logica di questo tipo toglierebbe all’Uomo Politico (specie se si veda come un Grande Stratega) la facoltà di dettare l’agenda, progettare l’architettura complessiva, selezionare la Sgr che gestirà il fondo, coinvolgere le regioni, trovare una ragione per tenere in mano pubblica la Cassa depositi e prestiti. Negli schemi dell’economia liberale, un ministro può anche costruire case, se vuole. Ma deve farlo rischiando i suoi soldi personali ed evitando di mettere le mani nelle tasche altrui.

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Uomini liberi, case inviolabili. Di Marco Romano /2010/03/23/uomini-liberi-case-inviolabili-di-marco-romano/ /2010/03/23/uomini-liberi-case-inviolabili-di-marco-romano/#comments Tue, 23 Mar 2010 11:06:49 +0000 Guest /?p=5477 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Marco Romano.


“Questa casa è inviolabile”, scrivevano spesso orgogliosamente sulla porta i cittadini di qualche città nei primi secoli di questo millennio: perché per essere tali, cittadini di una città, dovevano avere il possesso di una casa, e tuttora, se vogliamo trasferirci in una nuova città, un vigile urbano verrà a controllare per l’appunto dove abitiamo.

Se sulle facciate delle case la città ha una qualche competenza e una qualche giurisdizione perché il loro aspetto esteriore contribuisce, come del resto sappiamo per esperienza, alla sua bellezza – e per questo fin dal Cinquecento vengono costituite commissioni edilizie per controllarne la corrispondenza ai canoni stabiliti dagli architetti rinascimentali – la pretesa di legiferare sul loro assetto interno ha un fondamento dubbio.

È che in quello stesso periodo nascono imprenditori edilizi che costruiscono interi quartieri da collocare sul mercato, sicché diventerà necessario stabilire regole certe anche per questo settore merceologico – accanto a quelle minuziosissime che regolavano tutti gli altri settori – e poiché il costo dei terreni edificabili era già allora una componente rilevante del prezzo di una casa, occorreva stabilire quanto potesse venire costruito su ogni lotto.

Il sistema più semplice era quello di fissare in una strada nuova l’altezza del filo di gronda lasciando poi agli acquirenti di decidere come regolarsi con l’altezza dei piani: ma era un accorgimento praticabile nel caso di una strada tracciata con intenti monumentali – nella via Alessandrina a Roma o in via Maqueda a Palermo o nel Cours Belsunce a Marsiglia – che per venire esteso a tutta la città doveva venire generalizzato con una regola.

Quando nel 1666 Londra brucerà nel Great fire, nella sua ricostruzione tutte le strade verranno allargate secondo misure standard che evitino il propagarsi di un altro incendio di casa in casa, e per ciascuna larghezza verrà stabilita un’altezza massima calcolata in modo da rendere possibile la suddivisione dei fabbricati in un numero definito di piani con un’altezza prestabilita: è quello che vediamo in tutte le città, un meccanismo che tuttavia – seppure nella forma di una regola di mercato e di una normativa antincendio – introduce una giurisdizione pubblica sull’interno delle case.

Nel corso dell’Ottocento poi gli igienisti, constatando le dubbie condizioni sanitarie dell’edilizia corrente – le case operaie con un servizio unico sul ballatoio, gli interrati abitati, le stanze non sufficientemente aereate – promuoveranno regolamenti edilizi particolarmente minuziosi proprio sulla disposizione interna degli appartamenti: ora la casa non è più inviolabile, perché a nessuno è più permesso di adattarla liberamente ai propri desideri.

Ma è ormai venuto il tempo rivedere le nostre convinzioni e ridurre al minino essenziale sia le norme di carattere urbanistico – oggi in sostanza al rapporto tra i metri quadrati di superficie di fabbricato edificabile e i metri quadrati di terreno disponibili, anche se personalmente preferirei tornare al rapporto tra larghezza stradale e altezza dei fabbricati, che dà luogo a una città più bella e meglio vivibile – sia quelle edilizie, lasciando alla consapevolezza del mercato di decidere come tagliare i singoli alloggi.

Su questa strada sembra aver fatto benissimo il governo ad avviare una prima cauta liberalizzazione dei lavori interni a un appartamento o a una casa, bypassando le procedure per ottenerne l’autorizzazione. Ma occorrerebbe una più radicale liberalizzazione perché l’interno di un alloggio ritorni a essere il dominio della libertà individuale: in questo caso non occorrono controlli di congruità urbanistica – già conseguiti all’origine del fabbricato – e non si vede perché il suo proprietario non possa abbassare i soffitti a 2,26, l’altezza perfetta suggerita da Le Corbusier, di stringere i corridoi (e pazienza se non lasceranno passare la carrozzella di un infermo), di aprire il bagno su una stanza oppure di non chiuderlo affatto, di dormire in un locale più piccolo di otto metri quadrati, di aprire soltanto una finestra nell’alto di un sottotetto, e quant’altro i suoi desideri possano suggerire: il principio dell’inviolabilità del domicilio, connaturato alla democrazia millenaria della civitas e quindi al suo mercato – come sostiene Salvati – può venire incrinato per gravi e drammatici motivi (come quelli del tardo Ottocento) ma deve appena possibile venire ripristinato.

La cosa curiosa è la modestia delle reazioni corporative: gli architetti dovrebbero essere felici di essere ora in grado di proporre ai loro clienti soluzioni planimetriche e arredamenti finalmente liberi e fantasiosi, offrendo finalmente sul mercato la loro libertà inventiva, e invece li vedo trincerarsi dietro alla pretesa di essere migliori garanti di un capomastro della stabilità statica degli edifici da restaurare: poco, mi pare.

Marco Romano è professore ordinario di estetica (http://www.esteticadellacitta.it) della città. Il suo ultimo libro è “La città come opera d’arte” (Einaudi, 2008).

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TPL: I danni dello statalismo /2010/03/17/tpl-i-danni-dello-statalismo/ /2010/03/17/tpl-i-danni-dello-statalismo/#comments Wed, 17 Mar 2010 09:57:46 +0000 Marco Mura /?p=5409 La gara d’appalto può selezionare le società più competitive? La proprietà pubblica incide negativamente sulla produttività? E quanto incide su quest’ultima il fatto che l’azienda sia a proprietà mista, totalmente pubblica o totalmente privata?
È a queste tre domande che cerca di dare una risposta questo paper focalizzato sul trasporto pubblico locale, scritto per la Fondazione Eni Enrico Mattei da Andrea Boitani, Marcella Nicolini e Carlo Scarpa. Lo studio raffronta gli schemi su titolarità della proprietà e i criteri di scelta delle società su un campione di 72 imprese europee, per il periodo che va dal 1997 al 2006.
La risposta, naturalmente, è che, sì, le aziende aggiudicatarie del servizio attraverso gara d’appalto hanno un tasso di produttività più elevato, mentre la proprietà pubblica ha un impatto fortemente negativo. Inoltre, per quanto riguarda le società miste, la partecipazione statale incide in maniera inversamente proporzionale sulle performance aziendali. Le società a prevalenza pubblica (la cui quota pubblica è definita dallo studio superiore all’85%) risentono della tendenza ad essere gestiti con criteri manageriali burocratici. Sopra l’85% del capitale sono quelle meno produttive in assoluto.
Lo studio mette in luce la debolezza dei sistemi a rete fissa (tram e metropolitane) diminuisce le aspettative di produttività. Generalmente le linee tramviarie non riescono a intercettare un numero di passeggeri sufficiente a coprire i rilevanti costi fissi necessari a operare il servizio: le aziende che più traggono profitto sono quelle che gestiscono il servizio sotterraneo senza però possedere l’infrastruttura. A incidere negativamente sulla produttività aziendale, il trasporto di superficie e l’offerta di collegamenti per le aree extraurbane.
Il divario di produttività tra le aziende interamente pubbliche e quelle miste, aumenta sensibilmente nel segmento del solo servizio di trasporti di superficie. Il che ha a che fare con l’alta densità delle città e dunque con la densità del traffico che interessa le strade su cui operano i mezzi delle società di trasporto pubblico. Un paradosso, è evidente, dalle stesse scelte statali. Dalla pianificazione urbanistica – fondata su quel concetto di “smart growth” che tanto furba non sembra – che impila centinaia di miglia di persone, sottovalutando, quando non ignorando del tutto, il problema della scarsità di parcheggi e quello del congestionamento delle strade, le cui proporzioni sono talmente evidenti che la “concorrenza sleale” praticata dai mezzi che godono di quelle regalie chiamate corsie preferenziali stenta a strappare consumatori a quell’ultimo baluardo della libertà individuale che è l’automobile.
Che poi, per ritornare al nostro paper, un’azienda affiliata a un grande gruppo – meglio se multinazionale – abbia una produttività maggiore di una singola è evidente. Come nel caso di Arriva, una società totalmente privata che con i suoi oltre 15mila autobus e 580 treni, offre oltre un miliardo di corse ogni anno ai passeggeri di ben dodici Paesi europei, dalla Svezia all’Italia, dal Portogallo alla Polonia. E che miete profitti su ogni fronte senza operare in mercati protetti o tramite aggiudicazioni dirette.
La riflessione conclusiva del paper riguarda la lentezza del processo di riforma del trasporto pubblico locale, attribuita a una percezione eccessiva dei costi della privatizzazione e dei costi politici di quella che nel nostro Paese sembra davvero una riforma impossibile, come evidenziava anche Andrea Giuricin nell’Indice delle liberalizzazioni 2009 in un capitolo che mette a nudo le vistose inefficienze del settore trasporti pubblici. Il mantenimento del potere economico e politico rende i costi del servizio doppi rispetto all’Inghilterra, benchmark nel settore.
Se i bandi di gara fanno bene alla concorrenza in Europa, nel Belpaese il problema delle gare a evidenza pubblica è che quasi sempre si concludono con la vittoria dell’incumbent. Fatto per nulla sorprendente, considerato che chi gestisce il servizio ed effettua la scelta è lo stesso soggetto che detta le condizioni. Spesso concepite ad arte, specialmente grazie alle rigide prescrizioni sul mantenimento dell’occupazione, fatto da cui – evidentemente – scaturiscono precise conseguenze.
Secondo quanto riportato dal volume Comuni S.p.A., Il capitalismo municipale in Italia – una ricerca sulle municipalizzate realizzato sempre dalla FEEM, dove troviamo ancora Scarpa tra gli autori – con i suoi quasi 80mila dipendenti, quello del trasporto pubblico locale è il settore a più alta intensità di lavoro, contro quote d’attivo e ricavi poco oltre il 10%. I dati del 2005 parlano di 5.810 milioni di euro, suddivisi per 100 imprese. Quasi la metà dei 10.570 milioni delle 67 imprese fornitrici di elettricità e gas.
Il rapporto tra margine operativo lordo e ricavi è del 6,66%, peggiorato solamente da quello nel settore ferrovie (le aziende municipali sono in tutto sette, di cui una – le Ferrovie Nord di Milano – quotata in borsa) e farmacie. Sì farmacie, municipalizzate: la sorprendente conferma dell’alta socializzazione sanitaria del nostro paese.
Il costo del lavoro incide significativamente sui bilanci delle municipalizzate di questo settore: il rapporto costo del lavoro/ricavi  è un esorbitante 53,97%, davanti – pur con una certa distanza – al 46,51 del settore ferrovie.
Che la colpa sia da imputarsi alla scarsità di autisti? O sarà colpa della politicizzazione (il lavoro di uno, il voto di una famiglia) e dell’ottusità di un certo sindacalismo oltranzista che si ostina a rivendicare aumenti salariali e garanzie del tutto slegate dall’andamento e dalle ipotesi di andamento delle imprese datrici di lavoro? Peraltro, senza mai – si aggiunga per inciso – riuscire a intercettare la solidarietà di un pubblico, al contrario sempre più indispettito a ogni ennesima paralisi delle città.
Sia chiaro, «nessuno contesta l’interesse collettivo a che questo servizio [TPL] sia erogato, e che questo avvenga a condizioni che ne favoriscano una fruizione ampia, ma – ci associamo toto corde al punto di vista degli autori del volume Comuni S.p.A. –  il fatto che questo fine venga conseguito in modo così sistematico tramite imprese pubbliche protette da una qualunque pressione competitiva, piuttosto che tramite imprese private soggette a regole pubbliche, alimenta legittimi dubbi».
Su una sola cosa non ci sono dubbi: lo statalismo non può essere la panacea ai mali da esso stesso creati.

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Dove finisce lo Stato? Ce lo spiegano tre libri /2010/02/17/dove-finisce-lo-stato-ce-lo-spiegano-tre-libri/ /2010/02/17/dove-finisce-lo-stato-ce-lo-spiegano-tre-libri/#comments Wed, 17 Feb 2010 20:21:21 +0000 Marco Mura /?p=5219 In questi giorni il catalogo della IBL Libri, la casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni che a breve festeggerà il suo primo compleanno, si arricchisce di due nuovi volumi. In linea con un filone tematico da sempre indagato con attenzione, i due saggi in questione vertono sulle alternative alla produzione di beni e servizi da parte dello Stato, attraverso reti decentrate, comunità contrattuali e associazioni volontarie.
Per la collana Mercato, Diritto e Libertà,  è fresco di stampa Beni pubblici e comunità private, di Fred Foldvary, docente di economia presso la Santa Clara University in California, il cui solo sottotitolo – Come il mercato può gestire i servizi pubblici – è già in grado di anticipare al lettore il contenuto del lavoro.
«La tesi centrale del libro – spiega nella sua prefazione Stefano Moroni, già da tempo prezioso riferimento per l’IBL in tema di pianificazione e regolamentazione urbanistica, come in occasione del ciclo di seminari dal titolo La città rende liberi – è che la teoria tradizionale dei beni pubblici trovi un’applicazione assai più limitata di quanto generalmente presupposto. Le comunità contrattuali sono l’esempio lampante di come numerosi “beni” spesso e a torto ritenuti “pubblici” nel significato ortodosso – ad esempio, strade, piazze, parchi, illuminazione degli spazi comuni, raccolta dei rifiuti, ecc. – possano essere invece perfettamente forniti da strutture private».
Il lavoro, che si snoda in quattordici capitoli è idealmente diviso in una prima parte teorica – in cui si offre una robusta critica alla teoria dei presunti fallimenti del mercato, un’indagine accurata sui beni territoriali collettivi, la governance su base volontaristica per arrivare alla spiegazione di cosa sono e come funzionano i “club territoriali” e le “comunità di proprietà e associazioni di comunità” – e una seconda parte più empirica, in cui si ripercorrono i casi di fortunata applicazione degli schemi spiegati partendo da Walt Disney World (un classico, per chi si occupa di questi temi) per arrivare alla città di St. Louis, senza tralasciare il caso di Arden e i suoi “land trust”, dei condomini di Fort Ellsworthe della Reston Association, un altro case study di grande interesse.
Per la collana Policy, il nuovo titolo è Governare con la rete e, anche in questo caso, l’efficace sottotitolo scelto per l’edizione italiana – Per un nuovo modello di Pubblica amministrazione – riassume sinteticamente le ambizioni del testo, la cui uscita è accompagnata dai buoni auspici del Ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, il quale nella sua prefazione all’edizione si augura «che il volume costituisca uno strumento di crescita complessiva nel rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione».
Il libro è scritto a quattro mani da Stephen Goldsmith, ex sindaco di Indianapolis, e William D. Eggers, stimato esperto in materia di pubblica amministrazione, e direttore della Deloitte Research. Goldsmith spiega a fondo quella stessa «rete di partnership, appalti e alleanze» con cui, rinnovando la pubblica amministrazione, ha potuto far rinascere una città, fornendo servizi migliori e a minor costo, recuperando e creando nuovi spazi e infrastrutture il tutto senza chiedere un dollaro in più ai cittadini, ma anzi, dimostrando concretamente la possibilità di quantificazione del “guadagno” derivante da una pubblica amministrazione che sia appoggia al privato e ai mercati con ben quattro riduzioni delle imposte.
Il saggio – che nonostante la complessità del tema è scritto e tradotto in modo da rendere agevole la comprensione anche al neofita, senza per questo rinunciare a un rigoroso tenore scientifico – vede i suoi otto capitoli divisi in due parti. I primi tre spiegano «la nascita della gestione con la rete», gli ultimi cinque spiegano come avvalersene al meglio, trovando il modo di avvalersi di ogni informazione e potenzialità dispersa, e trattando in profondità il tema della responsabilità del proprio operato e l’importanza della formazione del capitale umano, perché tutto questo sia possibile.
Inoltre, è già da qualche giorno in libreria La città volontaria, una raccolta di saggi curata da David T. Beito, Peter Gordon, Alexander Tabarrok (in questo caso l’editore è ancora Rubbettino/Leonardo Facco) a cui hanno collaborato, fra gli altri, anche James Tooley e ancora Foldvary.
«Un libro interessante, che metterà alla prova chi ritiene che lo Stato sia la risposta alla maggior parte dei bisogni della società», scrive Vito Tanzi nella prefazione, in cui sottolinea come il tema del free riding (secondo cui i beni “pubblici” devono essere necessariamente prodotti dallo Stato e finanziati con la tassazione dati gli asseriti caratteri di “non rivalità” e “non escludibilità” nel consumo che contraddistinguerebbero tali beni) sia stato artatamente esacerbato dai teorici del ruolo totalizzante in ambito economico dello Stato.
Colpisce in modo particolare come la produzione privata di beni pubblici sia stata sempre più messa in discussione, in coincidenza con l’espansione dello Stato che ha contraddistinto il Novecento, fino al punto che – fa eco lo storico Paul Johnson nella sua introduzione all’edizione originale – «il ruolo statale non è mai stato definito da alcuna ragionevole considerazione di cosa esso dovrebbe fare, quanto dalla sua capacità. Se lo stato può, quasi sempre fa».
Così, pagina dopo pagina, si ripercorrono – e si evidenzia lo schema teorico che ne ha permesso il funzionamento – i casi storici in cui istituzioni, enti e associazioni contrattuali si incaricavano di fornire legislazione (particolare attenzione è dedicata al caso classico della lex mercatoria), protezione dal crimine, assistenza sanitaria, istruzione, pianificazione urbana. Particolarmente denso il capitolo dedicato alla tradizione del mutuo soccorso delle società americane prima del ventesimo secolo.
A chiunque sia disposto ad accostarsi all’argomento senza pregiudizi, questo tris di libri offre l’occasione di approfondire e confrontarsi con tesi “controcorrente” spiegate in una maniera chiara e ragionata, attenta  non fornire soluzioni che risultino troppo cervellotiche da non poter trovare applicazione nel mondo reale o, ancora meno, utopistica. Prendendo in prestito ancora le parole di Johnson, un motto ideale che unisca l’indagine tutti e tre i lavori potrebbe essere: «Ogni idea è degna di essere indagata. Il solo criterio di valutazione deve essere: Funziona? Può essere fatta funzionare?».
Ed è proprio nella convinzione che le idee spiegate in queste edizioni possano funzionare che ci farebbe piacere discuterne – perché no? – anche sulle pagine Facebook (qui Foldvary, qui Goldsmith ed Eggers), che anche in questo caso, in conformità allo spirito dei tempi, gli abbiamo voluto riservare.

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