CHICAGO BLOG » ambiente http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Chi il rigassificatore ferisce, di inedia perisce… /2010/12/20/chi-il-rigassificatore-ferisce-di-inedia-perisce%e2%80%a6/ /2010/12/20/chi-il-rigassificatore-ferisce-di-inedia-perisce%e2%80%a6/#comments Mon, 20 Dec 2010 22:44:59 +0000 Luciano Lavecchia /?p=7874 di Carlo Stagnaro e Luciano Lavecchia

Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso del Comune di Agrigento contro il progetto del Rigassificatore di Porto Empedocle, un progetto che risale a 6 anni fa, che prevede una capacità di 8 mld di m3, e investimenti per 650 mln. Il rigassificatore peraltro insiste sul territorio di comune diverso da Agrigento, Porto Empedocle, favorevole all’iniziativa, insieme al Ministero dell’Ambiente e la Regione Siciliana. Il sindaco di Agrigento, supportato da organizzazioni ambientaliste assortite e dalla consueta carovana del “no”, lamenta il mancato coinvolgimento nella Conferenza dei Servizi della sua Amministrazione. Insomma, più che un esempio di NIMBY (not-in-my-backyard) siamo davanti ad un caso di BANANA (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything), ove un’opera infrastrutturale di respiro nazionale (il gas costituisce il 38% dell’energia primaria consumata in Italia nel 2009), con tempi di approvazione biblici (sei anni!), riceve l’autorizzazione (la Valutazione d’Impatto Ambientale – VIA) dagli enti locali coinvolti, ma viene bloccata per le bizze di un Comune vicino. A color che opporranno che Agrigento è effettivamente prossima a Porto Empedocle, e che un rigassificatore è un impianto che coinvolge un’area ampia, rispondiamo che se ogni opera infrastrutturale deve richiedere il parere di ogni stakeholder, e del vicino di ogni stakeholder, e del vicino del vicino, e di suo cugino e degli amici del cugino, si capisce perché questo paese è 157 nella categoria “enforcing contracts” (su 183 paesi) della Survey Doing Business della World Bank (per il 2011). Va da sé che, considerando i tempi geologici, c’erano tutte le possibilità per ascoltare, senza avere necessari mante il sindaco presente, gli interessi dei cittadini di Agrigento (e anche quelli di Palermo, Catania, Napoli, Roma, Milano e Londra, già che ci siamo..) Al danno (per il Paese) la beffa (per il territorio): oltre alle ricadute occupazionali (500 operai previsti a regime), ENEL – titolare dell’investimento – prevedeva opere compensative per 50 mln di euro, fra le quali un nuovo molo per navi da crociera, riqualificazione dell’illuminazione della Valle dei Templi e disponibilità gratuita di acqua potabile ed industriale per tutto il territorio agrigentino (un’area dove al 2011 vi sono ancora comuni che ricevono l’acqua ogni 4 giorni! – ne abbiamo già parlato e ne parleremo ancora) e royalties annue da 2 mln per il Comune e 2,5 per la Regione. Insomma, ricadute più che positive per una Regione in affanno. Eppure, davanti al rispetto per i sacri confini della Patria e l’ambiente, nulla regge, niente può corrompere le candide anime dei nuovi luddisti. Oltretutto la Sicilia non è nuova nell’opposizione ai rigassificatori, come nel caso del progetto di Priolo-Melilli ove è in atto un duro scontro fra la Confindustria locale e la Regione Siciliana. Porto Empedocle sembrava fino ad ora immune da questi problemi (esiste un vasto comitato favorevole e persino lo scrittore Andrea Camilleri, noto per le sue posizioni contro il Ponte sullo Stretto). ENEL ha annunciato ricorso davanti al Consiglio di Stato, ultima speranza per il progetto. La vicenda suscita due riflessioni, entrambe deprimenti. La prima dovrebbe deprimere i consumatori elettrici. E’ ragionevole aspettarsi che, se e quando il terminale entrerà in funzione, sarà alimentato da gas nigeriano. Lo stesso gas che avrebbe dovuto rifornire un terminale – mai realizzato e sempre per opposizioni pregiudiziali – a Monfalcone. Quel gas, garantito da un contratto di lungo termine tra l’azienda di Viale Regina Margherita e il paese africano, raggiunge oggi la Francia grazie a uno swap con Gaz de France, non senza aver prima originato penali che ancora oggi gli italiani pagano in bolletta perché, ai tempi della liberalizzazione, l’extracosto dovuto all’investimento mai realizzato venne riconosciuto come straded. Così, i consumatori sborsano ogni anno più di 100 milioni di euro, e grazie alla sortita del comune di Agrigento continueranno a pagarli. La seconda questione, più generale, riguarda la natura e l’effetto della giustizia amministrativa. Nessuno di noi è un giurista, ma ci pare ovvio che il senso del diritto amministrativo sia quello di garantire il rispetto delle forme e delle procedure, non quello di offrire alle pubbliche amministrazioni l’occasione per dire la propria sempre e comunque, anche fuori tempo massimo. Il comune di Agrigento, se riteneva di dover essere coinvolto, avrebbe dovuto alzare la voce durante la conferenza dei servizi, non ora che i giochi sono fatti. Tanto più che il suo territorio è toccato dall’opera solo indirettamente, perché attraversato dal tratto di gasdotto che dovrebbe allacciare il rigassificatore alla rete nazionale e che, peraltro, è di competenza Snam, non Enel. Insomma: comunque la si guardi, siamo di fronte all’ennesimo caso studio su come spaventare gli investitori, scacciare gli investimenti, e perpetuare la stagnazione economica. Una cosa sola ci resta da fare: protestiamo, protestiamo, protestiamo!

di Carlo Stagnaro e Luciano Lavecchia

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Contro l’ambientalismo alle brioches /2010/12/07/contro-lambientalismo-alle-brioches/ /2010/12/07/contro-lambientalismo-alle-brioches/#comments Tue, 07 Dec 2010 13:50:29 +0000 Oscar Giannino /?p=7795 Conosco abbastanza Paolo Conti del Corriere della Sera per sapere che non s’inventa certo battute dei suoi intervistati. Dunque immagino che siano fedeli,  le parole riportate stamane nell’intervista al Corriere di Giulia Maria Crespi, storica intoccabile figura di riferimento dell’ambientalismo d’alta cultura italiano, fondatrice del FAI del quale resta presidente onorario, nonché presidente dell’Associazione per l’agricoltura biodinamica. Oltre che ex editrice di sinistra del Corrierone. Se sono parole fedeli, in una sola risposta c’è tutta la mia distanza siderale da quella che considero, con tutto il rispetto, una tutela ispirata alla nostalgia del sano vecchio tempo antico, quello in cui quando al popolo mancava il pane da Versailles gli si consigliavano brioches. Ecco la risposta: “No alla terza pista di Malpensa,. Sono in pericolo territori straordinari, una fonte di ossigeno e di agricoltura, paesaggi intatti e invidiati dal mondo. Tutto per una massa di voli low cost… non capisco”.  Ma li capite, voi, invece, i paesaggi malpensoti che da tutto il mondo verrebbero a invidiarci? Tutto poi per un branco di miserabili senza dané che si ostinano a volare per quattro euro, pezzenti e putibondi che non sono altro… E non finisce qui.

Hanno bloccato l terza pista a Heathrow, perché non Malpensa? Sfugge alla gentildonna che l’aeroporto londinese ha un traffico sei volte superiore a Malpensa, e che in città vi sono altri tre aeroporti maggiori. La Broni-Mortara? Mai, gli Asburgo – testuale, anzi, “persino gli Asburgo”  – non l’avrebbero mai permessa, era una delle campagne più produttive dell’Impero. L’Impero! Capite?  L’agricoltura in ritirata? Mica c’entrerà qualcosa la Politica Agricola Comunitaria, e i costi di produzione? Macché , è il cemento a decretarne la sconfitta. E Galan, il neoministro dell’Agricoltura che in piena ottemperanza delle norme comunitarie dice finalmente no – dopo la sbornia ideologica che ha accomunato sinistra e Lega – alle Regioni che annunciano unilateralmente in violazione della legge il no agli OGM? E’ un birbone, attenta alla salute dei cittadini. E l’energia? Mica gli ambientalisti sono il partito del no, risponde la Crespi. Ma quante pale inutili nell’eolico. Assurdo sacrificare terreni per il fotovoltaico. E le centrali a biomasse singnificano trasporti e spreco di combustibile, bisogna puntare tutto sull’autoproduzione. E magari, perché no, ripristinare anche il focatico, la sana imposta dell’assolutismo che gravava su ogni camino familiare….

La TAV invece è giustissima, dice la signora. Poichè è pressoché certo che non si farà, non costa molto dirsi a favore. E’ solo tutto ilo resto, che non va fatto. Naturalmente in nome del santo nume tutelare della battaglia contro ogni saccheggiatore del patrimonio ambientale, artistico, culturale, archeologioco e museale italiano: il professor Salvatore Settis che da 16 anni -  guarda il  caso, dacchè c’è quel torvo arruffiafemmine di Berlusconi in pista – annuncia privatizzazioni e cessioni del Colosseo e del Campo dei Miracoli.

Ragazzi questo non è ambientalismo. E’ pura arcadia, Jacopo Sannazzaro al posto di Bandiera Rossa, e Pietro Metastasio invece di Rouget de l’Isle. Un’intervista così finisce obbligatioriamente con una riverenza, e tutti via a ballare il minuetto nel salone degli specchi.  Naturalmente senza luce elettrica, perché i re ne facevano a meno, bastavano le torce.

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Agricoltura, trasporti e biodiversità: la nuova frontiera del protezionismo commerciale /2010/11/26/agricoltura-trasporti-e-biodiversita-la-nuova-frontiera-del-protezionismo-commerciale/ /2010/11/26/agricoltura-trasporti-e-biodiversita-la-nuova-frontiera-del-protezionismo-commerciale/#comments Fri, 26 Nov 2010 13:24:47 +0000 Giordano Masini /?p=7706 Alcuni commenti al mio ultimo post su Chicago Blog mi inducono a tornare su un argomento, quello dell’agricoltura di prossimità e della sovranità alimentare, intorno al quale mi sembra che circolino molti luoghi comuni e ben radicati. In particolare un lettore scriveva che è giusto sostenere l’agricoltura locale, o nazionale, per alcune ragioni:

  1. perchè è buona e salutare e va tutelata per la salute di tutti (anche la vostra)
  2. perchè si aiuta la produzione italiana, e tutti i paesi proteggono la propria produzione (anche la Germania che va tanto di moda solo perchè spende un po meno degli altri)
  3. perchè l’ortofrutta non è un prodotto normale, portarla in giro per il mondo ne sminuisce la qualità
  4. la biodiversità è un patrimonio inestimabile della umanità, purtroppo certe cose non hanno prezzo ed il mercato non funziona per loro

Mi sembra evidente che i primi due punti tendano ad annullarsi a vicenda: la nostra produzione è migliore (non solo più buona, addirittura più salutare!) di quella proveniente da altri paesi, ed è giusto tutelarla, ma se lo fanno, per la stessa ragione, anche altri paesi (il lettore cita la Germania, non avendo chiaro che la politica agricola è europea), è chiaro che qualcuno la sta sparando grossa: o noi, o i tedeschi, o più probabilmente tutti e due. Come se un attore in tournée, presentandosi sul palcoscenico di Parma, esordisse dicendo: “siete un pubblico fantastico, il più bel pubblico che abbia mai incontrato, come dicevo proprio ieri a Reggio Emilia…”

La realtà è, ovviamente, diversa. Nessuna regione può vantarsi di avere una produzione migliore, fatta solo di eccellenze. Avrà ottimi prodotti di un tipo, e pessimi prodotti di un altro tipo, e questo grazie alle caratteristiche del terreno e del clima. Se una regione pretende di soddisfare il proprio fabbisogno alimentare esclusivamente con prodotti provenienti dal suo territorio non tutela affatto la salute dei propri cittadini. Tutela soltanto (è più chiaro al punto 2 citato dal nostro lettore) i produttori locali. Anzi, è più corretto dire che “tenta” di tutelarli, ma in realtà sono proprio loro a venire danneggiati nel medio e lungo periodo, in quanto si impone loro di lavorare esclusivamente per un mercato ristretto, mentre potrebbero fare affari migliori puntando sui prodotti “vocati” del proprio territorio e aprendosi a mercati più ampi.

Tentare di produrrre i prodotti sbagliati vicino casa rende meno e costa di più: ci vorranno più fertilizzanti, più acqua, più fitofarmaci, e soprattutto più terra: Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu citavano, in un loro recente articolo, il caso delle fragole: un ettaro in California ne produce 50 tonnellate, mentre la stessa superficie in Ontario non ne rende più di 10. Quindi se in Ontario volessero produrre una quantità “californiana” di fragole, dovrebbero procurarsi, probabilmente strappandola ad ecosistemi come le praterie o le foreste, una superficie agricola cinque volte superiore a quella di cui oggi dispongono.

E questa considerazione ci porta direttamente agli altri due punti citati dal nostro lettore, quello della qualità dei prodotti che vengono da lontano, e, più in generale, ai problemi legati al trasporto su lunghe distanze, e quello della biodiversità, espressione alla quale, prima di attribuire un valore (“patrimonio inestimabile dell’umanità”), bisognerebbe cercare di attribuire un significato.

Oggi le merci non vengono più trasportate da una parte all’altra del mondo con i clippers a vela, anche se già i trasporti via clipper permettevano ai molini inglesi di panificare con il grano australiano. Se è vero che i prodotti ortofrutticoli tendono a perdere qualità se non vengono consumati freschi, è altrettanto vero che la qualità di un prodotto ortofrutticolo fuori stagione è minore di quella di un prodotto di stagione: quindi importare, nel periodo invernale, frutta proveniente dall’emisfero australe, e mandare laggiù la nostra frutta nella bella stagione, significa che i consumatori (di tutto il mondo) si troveranno nel piatto i prodotti migliori al prezzo migliore.

La biodiversità è un concetto che va molto di moda negli ultimi tempi, ma presumo che non tutti coloro che ne parlano con tanta facilità non sarebbero in grado di chiarirne il significato. Innanzitutto, dato che parliamo di agricoltura, sarebbe opportuno specificare se ci si riferisce alla biodiversità o alla biodiversità agricola: sono due cose diverse, spesso la salvaguardia di una contribuisce all’impoverimento dell’altra, ma nessuna delle due viene danneggiata dall’intensificazione agricola e dall’efficienza produttiva.

Per biodiversità si intende la varietà di specie, animali o vegetali, che abitano un dato ecosistema. Chiaramente lo sviluppo dell’agricoltura tende a impoverirla, dato che sostituisce ecosistemi complessi con superfici su cui cresce solo una varietà vegetale. Ma, come spiegato prima, consumare solo prodotti provenienti da territori vicini significa doversi procurare più terra coltivabile: l’agricoltura intensiva è meno dannosa per la biodiversità rispetto all’agricoltura di prossimità, tanto in voga tra gli ambientalisti.

La biodiversità agricola invece è la varietà di specie, animali e vegetali, che coltiviamo o alleviamo per soddisfare il nostro fabbisogno di cibo, e qui il discorso si fa più complesso. Tutte le varietà che coltiviamo sono il frutto di una selezione genetica operata dall’uomo nel corso di millenni. Per questo la biodiversità agricola è in costante evoluzione, adattandosi in ogni epoca ai bisogni dell’umanità. Ma questo non significa che oggi sia meno ricca che in passato: se a Pachino oggi si può coltivare il celebre pomodorino a grappolo non lo si deve alla faticosa opera di recupero di antiche varietà da parte degli agricoltori locali, ma al lavoro di una multinazionale biotech israeliana che ha “inventato” quel tipo di pianta, individuando poi nel territorio della Sicilia sudorientale il territorio ideale per la sua coltivazione. Altrimenti anche lì, come ovunque, coltiverebbero ancora pomodori insalatari a buccia spessa.

Il caso di Pachino dimostra proprio come la ricerca dell’efficienza (la varietà giusta coltivata nella zona giusta) possa arricchire sia la biodiversità agricola che le tasche degli agricoltori, venendo incontro ai bisogni del mercato prima che a quelli dei eurocrati agricoli.

C’è un’altro aspetto che viene spesso citato in difesa dell’agricoltura di prossimità: i trasporti su lunga distanza, si dice, sarebbero all’origine dell’emissione di grandi quantità di CO2 che potremmo risparmiare consumando cibo prodotto più vicino a noi. Questa considerazione è però completamente sbagliata, perché prescinde dal fatto che l’energia impiegata nel trasporto su lunghe distanze è venti volte inferiore a quella impiegata per le fasi della produzione. Quindi si risparmia molta più energia, e di conseguenza si produce meno CO2, producendo fragole in California, per usare l’esempio precedente, e trasportandole in Ontario, piuttosto che pretendendo di fare tutto vicino casa. Se si volesse discutere seriamente dell’abbattimento delle emissioni legate alla produzione di cibo, il primo passo dovrebbe essere la rimozione di qualsiasi tipo di barriera commerciale.

Per approfondire questo tema consiglio vivamente il paper dal titolo “Yes We Have No Bananas: A Critique of the ‘Food Miles’ Perspective” di Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu, per Mercatus Center at George Mason University.

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Nuova PAC: a capofitto verso il 2013 /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/ /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/#comments Sun, 21 Nov 2010 11:46:52 +0000 Giordano Masini /?p=7647 Prendo spunto da un post pubblicato su Agricoltura24 che riprende a sua volta un articolo di Terra e Vita e che mi sembra dare, fino a questo momento, il quadro più completo degli indirizzi proposti per la nuova Politica Agricola Comune post 2013. Ho sempre pensato che la PAC sia uno strumento perverso e tendenzialmente criminogeno, per le gravi distorsioni che induce nel mercato agroalimentare. Ma dalle proposte che circolano oggi, a mio avviso la PAC sta prendendo una strada del tutto insensata, iniqua e controproducente anche rispetto alle stesse intenzioni dichiarate dai suoi sostenitori, e rischia di essere la pietra tombale per l’agricoltura europea. In questo post (forse un po’ lungo) proverò a spiegare perché.

Dai primi orientamenti si comprende che alcune scelte della nuova Pac sono inevitabili, come la soppressione dei pagamenti storici. In tutti i documenti emergono due nuovi temi: la remunerazione dei beni pubblici e gli strumenti per contrastare l’instabilità dei mercati.

Non tutti possono aver chiaro, ovviamente, cosa significhi “remunerazione dei beni pubblici”. Con questa denominazione, inserita nella PAC all’inizio del nuovo millennio, si pretende che gli agricoltori, oltre a mettere sul mercato prodotti agroalimentari e trarre profitto da questa attività, producano anche beni che avrebbero valore per la collettività, ma che non sarebbero remunerati adeguatamente sul mercato: paesaggio agrario, presidio territoriale, biodiversità, lotta al cambiamento climatico, conservazione dell’ambiente, sviluppo rurale, salubrità degli alimenti, benessere degli animali.

Sulla base di questo principio (la cui arbitrarietà e scarsa fondatezza è evidente anche a un bambino) la PAC è stata, ormai quasi un decennio fa, suddivisa in due pilastri: da una parte gli aiuti diretti, destinati a sostenere il reddito dell’agricoltore, dall’altra i cosiddetti aiuti allo sviluppo, focalizzati da una parte a sostenere lo sviluppo delle aziende e dall’altra a premiare quei comportamenti e quelle pratiche agricole in grado di produrre “beni pubblici”. Per esempio, se in Europa le autorità pubbliche possono finanziare le aziende agricole biologiche ma non le compagnie aeree lo si deve proprio al fatto che, secondo i tecnocrati di Bruxelles, Almaverde Bio produce beni pubblici ed Alitalia no.

Ora, il primo pilastro della PAC sembra avere un problema: il sistema in base al quale è stato calcolato il premio che ogni azienda riceve, e sul quale non mi dilungo, ha prodotto delle differenze inaccettabili tra paese e paese e deve essere superato: attualmente l’Italia percepisce mediamente 300 euro/ha, mentre la Grecia percepisce 600 euro/ha e la Romania soltanto 40 euro/ha.

Il dibattito su questo tema è molto acceso e, per trovare un equilibrio tra le varie posizioni, è probabile che i pagamenti diretti potrebbero essere rimodulati in più componenti:

  • una parte (ridotta rispetto ai livelli attuali, ad esempio 100-200 euro/ettaro) erogata a tutti gli agricoltori;
  • una parte riservata alle zone con svantaggi naturali, ad esempio la montagna e le zone svantaggiate; a tal proposito, c’è la proposta di portare le indennità compensative dal 2° al 1° pilastro;
  • una parte, selettiva, in funzione del fabbisogno di lavoro o del valore aggiunto o di specifici comportamenti orientati alla fornitura di beni pubblici ambientali.

Sembra, quindi, che la produzione di questi fantomatici beni pubblici debba diventare un criterio per indirizzare, oltre agli aiuti allo sviluppo, anche i fondi che dovrebbero servire al sostegno del reddito, quello uguale per tutti. Ma se una quantità così rilevante di soldi dei contribuenti europei dovrà essere spesa in questa direzione, sarebbe giusto chiedersi se e come, al di là dei luoghi comuni, questi beni pubblici portino qualche vantaggio alla salute e all’ambiente (anche se basterebbe il fatto che nessuno sembra disposto a pagare di tasca sua per essi, ma si sa, c’è sempre chi è in grado di scegliere per noi meglio di noi)

Se parliamo di agricoltura biologica, non esiste un solo studio scientifico serio (e si sono dati da fare per cercarlo) in grado di dimostrare che nutrirsi di alimenti biologici rechi qualche beneficio per la salute, mentre per quanto riguarda l’ambiente, è di un’evidenza lapalissiana che fornire all’umanità il fabbisogno di cibo con tecniche scarsamente produttive come quella biologica comporterebbe l’impiego di una quantità enorme di superficie agricola, oggi occupata da praterie e foreste.

Anche dal punto di vista del contenimento delle emissioni, è l’agricoltura intensiva che produce i migliori risultati, come ho avuto già modo di argomentare citando un autorevole studio di PNAS, e per quanto riguarda il presidio territoriale e la tutela del paesaggio agrario (anche questi sono concetti strani da capire: per quale ragione il paesaggio rurale attuale dovrebbe essere migliore di quello passato e di quello futuro?) è solo un’azienda agricola competitiva e orientata al profitto ad avere interesse a continuare a lavorare la terra, invece che abbandonarla e sostenersi solo con i sussidi (non è un’ipotesi, è quanto sta accadendo).

Quindi, una PAC seria dovrebbe, avendo a cuore l’ambiente, premiare l’agricoltura intensiva, l’uso delle biotecnologie, la ricerca del profitto. E’ ovvio che per premiare questi comportamenti la maniera migliore sarebbe quella di eliminare completamente i sussidi, incentivando i produttori a perseguire l’efficienza. Premiare e sostenere comportamenti opposti è completamente demenziale, oltre ad essere uno spreco intollerabile di denaro pubblico.

Per quanto riguarda invece la “stabilizzazione dei mercati”, questi sono gli orientamenti che emergono dal summenzionato articolo:

In molte proposte emerge una nuova richiesta per la Pac: il contrasto all’instabilità dei mercati e il miglioramento della posizione degli agricoltori nella filiera agroalimentare. Gli strumenti della vecchia politica di garanzia (prezzi garantiti, dazi, sussidi all’esportazione, ammasso pubblico, quote, set aside, ecc.) hanno mostrato tutti i loro limiti e non sono più applicabili nella prospettiva futura. Tuttavia l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi e dei mercati rimane ancora attuale. Anziché la vecchia politica di garanzia, si richiede di favorire gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori agricoli, attraverso la concentrazione dell’offerta, il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti tramite la cooperazione, l’associazionismo, l’interprofessione.

Il fatto che si ribadisca l’inutilità di quegli strumenti perversi utilizzati fin ora per stabilizzare (forse sarebbe più corretto dire “distorcere”) i mercati è senz’altro positivo. Preoccupa però il fatto che si continui a ritenere l’apertura dei mercati come un pericolo da cui proteggersi, e sono inquietanti gli strumenti di cui l’UE vorrebbe dotarsi per perseguire tale risultato.

Ci sono fin troppe evidenze che dimostrano come i prezzi di quei prodotti che vengono scambiati sui grandi mercati internazionali siano molto più stabili di quelli che da questi mercati vengono esclusi, quindi l’idea che l’agricoltura di prossimità e “il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti” possa portare qualche beneficio è completamente sballata. Sarebbe meglio che ci si concentrasse sulle opportunità per le aziende agricole di affacciarsi con i loro prodotti sui mercati emergenti e lontani, piuttosto che forzarle a rimanere ancorate ad un desolante status quo.

Se è vero come è vero che il prezzo di un prodotto tiene conto di tutti i costi di produzione, la tendenza a localizzare tutte le produzioni rinunciando all’efficienza di produrre su terreni e a climi vocati e vendere ovunque ci sia domanda rappresenta un violento colpo di zappa sui piedi della nostra agricoltura, soprattutto nel momento in cui le produzioni agricole di altri grandi paesi, come Cina, India e Brasile, cominciano a volare, e non, come recita la vulgata, a causa del basso costo del lavoro (altrimenti dovevano volare anche negli scorsi decenni) ma proprio grazie alle biotecnologie, all’intensificazione e all’apertura al mercato globale. Un esempio per tutti: negli ultimi 10 anni il Brasile ha triplicato il proprio export agroalimentare, la sua produzione agricola è cresciuta del 79% con un incremento della superficie utilizzata limitato al 28%.

Per quanto riguarda poi gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori (leggi: i consorzi potranno intervenire sui mercati regolando l’offerta, al fine di indurre un aumento dei prezzi) basterebbe la triste esperienza del vino italiano (e francese), che con metodi del genere si sta progressivamente autoescludendo dal mercato mondiale a far desistere da simili proponimenti. Perché si tende a dimenticare che qualsiasi consumatore, sia esso un consumatore finale o un trasformatore, reagisce a questi meccanismi orientando altrove le sue scelte, e in tempi di mercati globalizzati le alternative non mancano. Se il protezionismo è un errore lo è sempre, ed è inutile e controproducente farlo uscire in pompa magna dalla porta per farlo rientrare, in silenzio e sotto mentite spoglie, dalla finestra.

Per finire, ed è il dato forse che preoccupa di più, nella nuova PAC post 2013 aumenteranno a dismisura quelle voci di spesa in cui è indispensabile il ruolo attivo degli intermediatori pubblici e parapubblici (checché se ne dica sono loro i veri beneficiari della PAC, e che siano loro stessi a disegnarne gli indirizzi forse aiuta a capire ciò che sta succedendo), come le associazioni professionali. Quando si parla di cooperazione, associazionismo, e interprofessione non si intende altro. E il fatto che anche i fondi del primo pilastro della PAC, quello degli aiuti diretti, verranno distribuiti secondo criteri sempre più discrezionali e meno automatici non fa che confermare questa tendenza costosa e perversa.

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Ogm: Coldiretti scrive, le regioni ci mettono la firma /2010/10/26/ogm-coldiretti-scrive-le-regioni-ci-mettono-la-firma/ /2010/10/26/ogm-coldiretti-scrive-le-regioni-ci-mettono-la-firma/#comments Tue, 26 Oct 2010 07:58:53 +0000 Giordano Masini /?p=7388 Alle scuole elementari la mia maestra diceva spesso che quando copiavamo dovevamo almeno riuscire a non farci beccare: “cambiate qualche parola qua e là”, diceva, “sennò si capisce…”. Non lo sapevano evidentemente gli assessori all’agricoltura della Conferenza delle Regioni il cui ultimo documento, quello in cui si chiede che l’Italia applichi un’inapplicabile (secondo il diritto comunitario) clausola di salvaguardia per le colture e la ricerca Ogm, sarebbe stato scritto direttamente da Coldiretti, il sindacato che ha fatto dell’avversione alle biotecnologie e del ritorno al protezionismo commerciale una ragione di vita: “La firma Coldiretti è verificabile con qualsiasi personal computer andando a leggere la proprietà del documento” rivela Italia Oggi.

Alessandro Palmacci è il dirigente che si occupa di agricoltura, trasporti e turismo nella segreteria della Conferenza delle Regioni. 

Proviamo a immaginare, per capirsi, che razza di (giusto) baccano si sarebbe sollevato se la disciplina sugli Ogm fosse stata scritta da Monsanto o quella sull’energia da Exxon. Si attendono spiegazioni da parte di Coldiretti e, soprattutto, da parte degli assessori regionali. La prossima volta fate un piccolo sforzo: ditelo almeno “con parole vostre”.

(Crossposted @Libertiamo.it)

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Ogm: in nome di una legge che non c’è /2010/10/19/ogm-in-nome-di-una-legge-che-non-ce/ /2010/10/19/ogm-in-nome-di-una-legge-che-non-ce/#comments Tue, 19 Oct 2010 08:56:36 +0000 Giordano Masini /?p=7327 La proposta della Commissione Europea di lasciare agli stati membri la libertà di decidere ognun per sé se ammettere o meno le coltivazioni Ogm sembra trovarsi di fronte a una strada sempre più in salita. Dopo i pareri negativi espressi un po’ da tutti in giro per l’Europa  ora arrivano le prime prese di posizione ufficiali: i ministri dell’ambiente dell’UE si sono riuniti la scorsa settimana a Bruxelles e hanno votato a larghissima maggioranza (solo l’Olanda era a favore) contro la proposta, Italia compresa. Particolarmente dura è stata la posizione di Francia e Germania.

Il lato buffo della vicenda è che la nostra Conferenza delle Regioni, con il documento approvato il 7 ottobre, si rifà paradossalmente a una legislazione che non c’è, e che forse non ci sarà mai, ignorando quella in vigore:

Vista la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni sullalibertà per gli Stati membri di decidere in merito alla coltivazione di colturegeneticamente modificate (COM (2010) 380 def.);
vista la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul loro territorio (COM (2010)375 def.);
(…)
preso atto che l’Unione Europea intende ammettere la possibilità per i Paesi membri di vietare la coltivazione di OGM e che una tale opzione sussiste per il nostro Paese;
(…)
La coltivazione di OGM va valutata, oggi, alla luce di un nuovo quadro di riferimento, costituito dalla Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni sulla libertà per gli Stati membri di decidere in merito alla coltivazione dicolture geneticamente modificate; dalla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto concerne lapossibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul loroterritorio;

Può essere utile ricordare che l’approvazione delle linee guida per la coesistenza tra colture Ogm, convenzionali e biologiche, che la Conferenza delle Regioni continua a trascurare, è un passaggio necessario anche per sbloccare i test in campo aperto sugli Ogm, senza i quali la nostra ricerca biotech, anni fa all’avanguardia, è costretta a stare alla finestra.

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Che culo, c’è la recessione /2010/10/13/che-culo-ce-la-recessione/ /2010/10/13/che-culo-ce-la-recessione/#comments Wed, 13 Oct 2010 12:55:34 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7277 L’Italia è uno dei tre paesi dell’Ue15 – assieme ad Austria e Danimarca – che devono rimboccarsi le maniche per raggiungere l’obiettivo di riduzione delle loro emissioni. Per il resto, l’Unione europea brinda oggi alla luce del più recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente. Infatti, Kyoto è vicino, anzi,

large drop in emissions seen in 2008 and 2009 gives EU-15 a head start to reach and even overachieve its 8 % reduction target under the Kyoto Protocol.

Infatti, l’Ue ha potuto contare sul sostegno di un grande alleato: la recessione.

Questa ambiguità non è nuova a Bruxelles. A maggio, quando la commissaria per il clima, Connie Hedegaard, tentò di alzare l’asticella spostando l’obiettivo di riduzione per il 2020 al 30 per cento,le organizzazioni industriali del vecchio continente andarono su tutte le furie perché la bozza di comunicazione predisposta dalla Commissione di fatto accreditava l’idea che il calo osservato l’anno scorso, e dovuto al crollo della produzione industriale, fosse in qualche modo un vantaggio. Scrisse all’epoca la Confindustria tedesca, in un documento interno:

La minore crescita economica non dovrebbe essere celebrata come uno strumento per la protezione del clima.

(Qui un commento sull’episodio). Adesso lo stesso atteggiamento pauperista e anti-crescita ritorna, alla grande, per bocca dell’Agenzia europea dell’ambiente, la quale nota, non senza una certa soddisfazione, che l’obiettivo di Kyoto (-8 per cento nel 2012) è terribilmente vicino, “grazie” alla sostanziale riduzione osservata nel 2008-2009. Nel 2009, in particolare, l’Ue27 ha visto ridursi il suo Pil del 4,2 per cento, e le emissioni del 6,9 per cento. Il nesso tra queste due variazioni è talmente stretto, evidente e chiaro che neppure la stessa Eea riesce a tacerlo, anche se lo confina all’ultimo punto nei suoi key findings (ritenendolo forse meno importante dell’auto-incensamento per il grandioso risultato raggiunto). La quale addirittura si spinge a sottolineare che la recessione ha contato meno, nel determinare questa tendenza, rispetto all’effetto delle politiche di contenimento delle emissioni. Infatti,

Return to economic growth could temporarily level off or even reverse the decline in emissions, but the declining trend is expected to continue.

Non mi è chiaro in base a cosa si possa sostenere una simile tesi. Non c’è comunicato dell’Agenzia degli ultimi dieci anni che non abbia riconosciuto che le due variabili fondamentali dietro l’andamento delle emissioni sono il tempo (inverno freddo emissioni alte, e viceversa) e la performance economica (crescita sostenuta emissioni alte, e viceversa). In questo senso, trovo abbastanza sconcertante che, se da un lato si magnificano i risultati raggiunti, dall’altro non si esprima la più piccola preoccupazione per il modo in cui, in larga parte, sono stati ottenuti. Elogiare la recessione (o anche solo accettarla come un fatto) è un approccio due volte autolesionista. Anzitutto perché, se nell’immediato essa può effettivamente contribuire a ridurre le emissioni, nel lungo termine un impoverimento generalizzato riduce la capacità di investimento dei paesi europei sia in innovazione, sia nelle mitiche fonti rinnovabili (basta guardarsi in giro per vedere ovunque il tentativo di abbassare gli incentivi, e senza incentivi bye bye green economy). La recessione fa pure emergere il lato più distorsivo degli incentivi: schermando la remuneratività delle fonti verdi dagli alti e bassi del mercato (e questo è vero in particolare per le tariffe feed-in) essi tendono a scaricare il calo della domanda unicamente sulle produzioni convenzionali, spingendo così i prezzi effettivi per i consumatori e i costi di generazione per il sistema verso l’alto, in una spirale pro-ciclica di cui l’economia non ha certo bisogno.

Il sostanziale fallimento delle politiche climatiche è pure evidente dalla figura chiave, che si trova a p.32 del rapporto linkato sopra. La figura è la seguente (cliccare per ingrandire).

Il grafico di sinistra mostra lo scenario base; quello di destra illustra invece lo scenario di riferimento nel caso tutte le speranze (aka “scenario libro dei sogni” o “promessa elettorale”). In entrambi i casi, due aspetti sono evidenti: 1) sotto una ragionevole ipotesi di crescita economica, buona parte della riduzione delle emissioni nel 2009 è destinata a essere riassorbita (al contrario di quanto scritto nel comunicato stampa); 2) la maggior parte delle presunte riduzioni sono attese nei settori “non Ets”, cioè quelli che non sono soggetti al mercato dei fumi. Un aspetto interessante: nei settori Ets lo shock della crisi verrà riassorbito solo in minima parte, segno che l’effetto della recessione sulle produzioni ad alta intensità di energia rischia di essere permanente. In questo, le politiche europee possono effettivamente giocare un ruolo: rendendo strutturale un impatto che, almeno in parte, era solo congiunturale. In altre parole, la crisi è stata una sorta di trigger, spingendo le imprese a delocalizzare sia per fronteggiare il calo della domanda, sia per prevenire il potenziale ulteriore aumento dei costi energetici o della confusione amministrativa, o di entrambi, dovuta alle nuove politiche europee, tanto più che lo scenario internazionale lascia intuire un acuirsi dell’asimmetria tra l’Ue, virtuosa e fessa, e il resto del mondo. In breve, la bontà della recessione non viene solo riconosciuta nelle parole dei funzionari europei: la recessione viene consapevolmente (e colpevolmente) integrata tra le politiche climatiche del Vecchio Continente.

Qualche elemento di curiosità desta, poi, il club dei cattivi: di cui fa parte, come sempre, l’Italia (le cui virtù un giorno emergeranno ché, almeno per l’elettrico, abbiamo il parco di generazione più pulito d’Europa), ma anche, a sorpresa, due paesi simbolo delle politiche verdi: Austria e Danimarca. Che è successo? In Austria, molto semplicemente, la sensibilità ambientale si è tradotta più nella meticolosa cura del territorio, che nella lotta alla crescita economica. Anzi: una crescita rapida e sostenuta ha allontanato il paese dagli obiettivi di Kyoto, costringendolo ad acquistare una montagna di crediti sul mercato europeo (e, dal punto di vista degli austriaci, grazie a Dio che costavano poco). Dell’Italia sappiamo tutto: il punto più importante è che ci siamo trovati in una situazione simile a quella austriaca (seppure senza essere particolarmente corti di permessi) ma per ragioni molto diverse; cioè, non per la crescita alta e prolungata (che non c’è stata) ma perché siamo stati penalizzati dalla scelta del 1990 come anno di riferimento. L’Italia è un paese, sotto il profilo delle emissioni, che era virtuoso prima di Kyoto e che dunque è svantaggiato dal modo in cui i meccanismi sono stati implementati. E la Danimarca? Il paese dei green jobs e del wind power? Probabilmente, Copenhagen ha fallito perché aveva assunto un obiettivo irrealistico (-21 per cento, mentre attualmente si trova a -9,2 per cento). Questo suggerisce che ad impossibilia nemo tenetur dovrebbe essere un principio scolpito nella roccia. Tra l’altro, la Danimarca sta già pagando un pesante tributo alla sua fama di paese verde, come abbiamo spiegato qui e come viene più nel dettaglio approfondito qui.

In conclusione, ancora una volta l’Europa dimostra, nel modo in cui affronta le sue politiche ambientali, tutto il suo strabismo. Fissare obiettivi costosi e sostanzialmente privi di benefici ambientali, intonare il mantra dei loro presunti benefici economici pur sapendo che essi sono inesistenti, e usare tutto ciò come un surrogato della ricerca identitaria è il modo peggiore di affrontare un problema che di per sé può essere serio. Ma arrivare al punto da considerare la recessione una benedizione divina è la prova provata che a Bruxelles si è completamente perso interesse per qualunque considerazione di efficacia ed efficienza.

(Il post gemello si trova qui).

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Inquinamento: la diagnosi è sbagliata e la terapia non funziona /2010/10/01/inquinamento-la-diagnosi-e-sbagliata-e-la-terapia-non-funziona/ /2010/10/01/inquinamento-la-diagnosi-e-sbagliata-e-la-terapia-non-funziona/#comments Fri, 01 Oct 2010 12:04:37 +0000 Francesco Ramella /?p=7183 L’inquinamento atmosferico? È in aumento. Ne è convinta la stragrande maggioranza dei cittadini europei. Non potrebbe essere altrimenti. Siamo in grado di dire per esperienza diretta se fa caldo o freddo, ma non possiamo valutare autonomamente come si evolve la qualità dell’aria. “Sappiamo” ciò che apprendiamo dai mezzi di informazione. E questi, tranne rare eccezioni, ci ripetono da anni che la situazione volge al peggio.
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Ogm: la Conferenza delle Regioni e la dittatura della maggioranza /2010/09/30/ogm-la-conferenza-delle-regioni-e-la-dittatura-della-maggioranza/ /2010/09/30/ogm-la-conferenza-delle-regioni-e-la-dittatura-della-maggioranza/#comments Thu, 30 Sep 2010 17:19:16 +0000 Giordano Masini /?p=7177 Mentre è già arrivata (ieri pomeriggio) la trebbia mandata dal Gip di Pordenone a raccogliere il mais del campo di Fanna di proprietà di Giorgio Fidenato (il racconto di Giorgio è sul sito del Movimento Libertario), mais che è stato essiccato e verrà custodito in un magazzino in attesa che si concluda l’iter giudiziario, oggi si sono riuniti gli assessori all’agricoltura della Conferenza delle Regioni e hanno ribadito che loro di linee guida per la coesistenza tra colture Ogm, biologiche e convenzionali non vogliono proprio sentir parlare, nonostante l’approvazione di queste linee guida sia necessaria per adempiere alle direttive comunitarie.

In realtà nei mesi scorsi una bozza di regolamento era stata presentata: le associazioni di categoria (tra le quali figurava, non si sa bene per quale ragione, anche Legambiente) l’hanno ricevuta il 16 di luglio perché presentassero le loro osservazioni in merito entro il 20 dello stesso mese (!). Il documento era abbastanza surreale, dato che si parlava solo di Ogm (nonostante dovesse tracciare le linee guida per la coesistenza di tre tipi di pratica agricola tutte egualmente legittime) e perché in realtà si preoccupava di vietare, in modo più o meno surrettizio, più che di disciplinare.

Distanze di sicurezza per il mais calcolate in chilometri (in Europa si arriva attorno ai 150 metri, in Spagna zero), corsi e patentini da conseguire, piani e registri aziendali da compilare, tasse regionali da pagare, e questo solo per la parte burocratica. Poi, andando avanti, (e ne tralascio molte) sarebbe previsto l’obbligo di usare macchinari e magazzini appositi dedicati esclusivamente agli Ogm e di rispettare un periodo di conversione di tre anni per chi volesse tornare dagli Ogm al convenzionale (anche semplicemente per normali cicli di rotazione colturale) nei quali il prodotto dovrebbe essere sottoposto ad analisi prima della commercializzazione, sarebbe considerato convenzionale ma dovrebbe rispettare le prescrizioni per gli Ogm.

E non è finita: le sanzioni per chi omettesse di seguire anche solo una di queste regole sarebbero calcolate nell’ordine delle decine di migliaia di euro, e, chicca finale, gli agricoltori che fossero tanto impavidi da cercare di seguire un regolamento del genere apparirebbero in un registro pubblico consultabile online, in modo da poter essere meglio individuati dagli amici di Zaia e di Greenpeace.

Il giochino del documento presentato all’ultimo momento non deve essere riuscito, qualcuno le sue osservazioni critiche deve essere riuscito a mandarle in tempo, quindi la Conferenza delle Regioni, nonostante la fretta iniziale, è andata avanti di rinvio in rinvio sperando che la cosiddetta direttiva Barroso, quella che consentirebbe ad ogni paese membro dell’UE di decidere in autonomia se ammettere o vietare gli Ogm, arrivasse in tempo per togliere le castagne dal fuoco. Ma la direttiva ancora non arriva, anzi aumentano su di essa le perplessità di quasi tutte le parti in causa a livello europeo, dato che in ballo c’è il rischio di dar vita ad un’Europa agricola a due velocità, e quindi oggi la Conferenza delle Regioni qualcosa doveva pur dire.

Abbiamo votato un ordine del giorno attraverso il quale chiediamo al ministro delle Politiche agricole di esercitare la clausola di salvaguardia ai sensi dell’articolo 23 della direttiva europea 18 del 2001.

La clausola di salvaguardia è ammessa solo in caso di evidenze scientifiche che dimostrerebbero la nocività di un prodotto per la salute umana o per l’ambiente, sembra dimenticare Dario Stefano, assessore all’Agricoltura della Puglia e coordinatore della Commissione agricoltura della Conferenza delle regioni, che continua

Allo stesso tempo abbiamo richiamato il ministro e quindi il governo a rispettare la posizione delle Regioni italiane, che hanno la delega all’Agricoltura, che è unanimemente contraria alla produzione di Ogm.

Evidenziando quindi come le dilazioni e i tatticismi dei mesi scorsi servivano solo ad uno scopo, riuscire a vietare anche in presenza di un diritto comunitario che non consentirebbe di vietare, ma solo di disciplinare. In tutto ciò le parole di buon senso di Galan, ribadite anche oggi nel question time a Montecitorio, sembrano essere destinate a rimbalzare su un muro di gomma: il principio secondo il quale una maggioranza sarebbe legittimata a mortificare le libertà fondamentali degli individui, arrivando a stabilire ciò che è legittimo e ciò che non è legittimo produrre (basandosi esclusivamente su valutazioni di carattere economico, e come tali assolutamente arbitrarie) sembra essere ormai sufficientemente consolidato.

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Le infrastrutture in Italia: quale ruolo per i privati. Live blogging /2010/09/21/le-infrastrutture-in-italia-quale-ruolo-per-i-privati-live-blogging/ /2010/09/21/le-infrastrutture-in-italia-quale-ruolo-per-i-privati-live-blogging/#comments Tue, 21 Sep 2010 09:23:00 +0000 Alberto Mingardi /?p=7107 A Roma oggi viene presentato il nostro primo “Rapporto sulle infrastrutture”. E’ un lavoro ampio e credo molto interessante, con un forte impianto comparato. Il fuoco è il sistema autostradale in Italia. Il convegno è coordinato con la consueta abilità dal direttore di questo blog ed è stato aperto da un intervento di Carlo Stagnaro, che ha riassunto la sua introduzione al rapporto e i suoi risultati più significativi, già presentati qui. Riassumo qui alcune delle cose che stanno dicendo i diversi partecipanti. Va da sé, la scelta dei temi più rilevanti toccati è assolutamente discrezionale.

Castellucci (AD, Autostrade) traccia un bilancio: il piano d’investimenti di Autostrade copre 1100 km, quest’anno investiremo 1 miliardo e mezzo. I privati investono il quadruplo della società Autostrade quand’era pubblica. Quando la società venne privatizzata, non aveva neanche la capacità finanziaria per la quarta corsia sulla Milano-Bergamo. C’è una grande concentrazione dell’investimento laddove c’è traffico: questo porta ad un “riequilibrio territoriale” (per anni gli italiani del Nord hanno pagato le autostrade del Sud). Fluidità migliorata, grazie agli investimenti e ad una oculata gestione di cantieri. Importanti risultati in termini di sicurezza (asfalto drenante e tutor). Autostrade ha il minor debito di tutto il settore: i ritorni per gli azionisti sarebbero stati molto più alti, se si fosse fatto più leverage. Il cash-flow è stato utilizzato per gli investimenti più che per gli investimenti. La preoccupazione degli investitori internazionali è che prima o poi si debba di nuovo, discrezionalmente, modificare il contratto di Autostrade: “l’incertezza costa per tutti” (domanda, mia, un po’ scontata: ancora una volta, un problema di credibilità del nostro amato Paese?). Gli investitori sono disponibili a prendere il “rischio traffico” e il “rischio investimento”, non il “rischio regolatorio”.

Castelli (Vice Ministro, Trasporti): c’è un problema di credibilità del Paese. Al di là delle buone enunciazioni di principio nelle tavole rotonde, investitori internazionali ne vengono poco. Non bisogna riscrivere i contratti, per non minare la credibilità della controparte pubblica. Poi però il Vice Ministro cambia rotta: se arriva una grande tempesta finanziaria, un evento davvero eccezionale, qualche correzione si può fare (?). Castelli difende le tariffe: sono un’equazione. Castelli prende coraggiosamente le distanze da Alemanno (per questa polemica). Non è possibile che nel nostro Paese non si capisca che i cittadini debbono pagare per i servizi di cui usufruiscono. Serve un “contributo ai privati sempre più massiccio”, in linea con un trend mondiale, ed è imprescindibile a causa dei vincoli di finanza pubblica. E’ giusto il momento di far costare meno le opere. Basta alle opere compensative. E’ giunto il momento di porre mano alla legge obiettivo perché non è possibile avere progetti definitivi che costano tre volte i preliminari. E’ giunto il momento di snellire oneri amministrativi. L’intervento dei privati è indispensabile sotto ogni punto di vista, per incentivarlo serve più certezza del diritto.

Paolo Costa (ex Ministro dei Trasporti, economista del ramo, ora all’autorità portuale di Venezia): la privatizzazione “vista da dentro” è stata effettivamente un successo. Il tema vero è quello della stabilità della regolazione: il rapporto IBL insiste su di essa come il cuore del problema. L’impianto concettuale è legato all’idea che vi sia una gara iniziale, e poi pacta sunt servanda. In Italia sfortunatamente “gare iniziali” non se ne fanno. A parte la privatizzazione di Autostrade (pure atipica), le altre concessioni in Italia sono “quasi-imposte”. C’è un problema di storia e di prassi. Siamo di fronte a concessioni date quando ancora la concessione era considerata un istituto pubblico. L’assenza di gare in senso proprio apre la strada alla imprevedibilità e alla discrezionalità dell’attore pubblico. Il regolatore è “catturato” dai concessionari, quasi di norma in questo Paese. Ci vogliono gare effettive, trasparenti, sulla base delle quali venga aggiudicata la costruzione di una singola opera, non di un “pacchetto” di opere. Ogni tanto i patti non sono stati adempiuti per influenza del privato, non “contro” di esso!

Nicola Rossi (economista e senatore PD): quello che è stato fatto nella seconda metà degli anni Novanta (privatizzazione Autostrade), non poteva non essere fatto ed è stato un bene per il Paese farlo. E’ stato un processo non completato, però. Processi non completati di apertura del mercato possono essere pericolosi, creando un effetto boomerang. Lo sforzo deve essere completato: abbiamo ancora tratte significative gestite da un operatore pubblico, e bisognerebbe lavorare perché questo non sia più il caso; resta debole l’impianto della regolazione a causa dei conflitti d’interessi (lo Stato concedente è anche concessionario ed è anche regolatore); il finanziamento delle nuove opere dovrebbe essere lasciato al mercato. Tre problemi da porre all’ordine del giorno: (a) semplificazione delle procedure, anche se sono quindici anni che ci si prova invano. Problemi legati alla tendenza connaturata della PA ad evitare che vi sia un centro di responsabilità riconosciuto come tale; (b) stabilità delle norme è fondamentale, non si cambiano le regole del gioco a partita iniziata, i contratti non possono essere “formati progressivamente” o “modificati in corsa”. Ma come meravigliarsi, in un Paese in cui da destra e sinistra si prendono provvedimenti fiscali “retroattivi”, cosa che ovunque farebbe scendere la gente in piazza? (c) C’è anche un problema di qualità della legislazione: la norma sul pedaggiamento del raccordo anulare era “scritta con i piedi”, la legge elettorale gioca un ruolo, ma c’è il guaio che in provvedimenti “blindati” da governi di destra o sinistra non si può correggere neppure l’ortografia.  Il risultato sono norme inapplicabili o folli, che il Paese nella sua infinita saggezza consapevolmente ignora.

Marco Ponti (economista dei trasporti): sono uno dei responsabili dell’incertezza regolatoria, ma mettere mano al contratto è stato necessario, perché era troppo vago (il price cap era mal definito). Il settore ha una struttura duale: alcune strade hanno determinate regole, altre strade vivono sotto un quadro normativo diverso. La domanda di trasporto ormai è quasi tutta nelle aree metropolitane: questo cambia il quadro in cui ci troviamo.
Ci sono davvero grandi economie di scala nel settore? Occorre dimostrarlo. C’è un “paradosso delle dimensioni”: l’aumento tariffario è distribuito su una platea tanto vasta che consente più facilmente la costruzione di opere inutili.
Non è possibile estendere il business dei concessionari? Le reti locali “fanno schifo” e sono meno sicure, perché non estendere anche lì l’attività dei concessionari? “Privatizzare di più” la gestione delle reti stradali.
La regolazione in Italia è mal fatta, manca un regolatore indipendente. La regolazione deve “mimare” il mercato: come mai in Italia non c’è un concessionario che perda dei soldi? “Se non possono fallire, non sono imprese”.
Pietro Ciucci (Presidente dell’Anas): com’è giusto, Ciucci vuole dare delle risposte ai punti critici sollevati dal nostro Rapporto sull’Anas (“giudizi netti, franchi, alcuni di questo non condivisibili”). Replica a Costa: le gare per fare nuove concessioni si fanno, l’Europa ce le impone, e le concessioni cominciano a scadere (la Venezia-Padova è scaduta, altre, come la Brennero, scadono prossimamente) e c’è un articolo di legge che ha invitato l’Anas ad anticipare i tempi per fare le gare. Non è vero che le tariffe non scendono: le tariffe vengono riviste a termine concessione, e vengono riviste secondo le complesse formule tariffarie. Il principio per cui chi usa un’autostrada paga per quel servizio è scritto in una direttiva europea e recepito dal Parlamento. Il soggetto regolatore non è l’Anas: le leggi non le fa l’Anas. Anas è un concessionario dello Stato che “subconcede” alcuni tratti a pedaggio. La sua vigilanza si limita a queste subconcessioni. Dove sta il conflitto d’interessi? La garanzia del ruolo del privato in Italia è una realtà: se si va oltre le enunciazioni di principio, si vede che in Italia il quadro normativo è stato relativamente stabile. Ruolo del pubblico è complesso: anche abbassare il costo del capitale. Per questo bisogna immaginare una soluzione mista, pubblico-privata.
Replica di Castellucci: due dati interessanti della discussione: (1) nessuno di chi ha partecipato alla privatizzazione di Autostrade mette in dubbio il successo della privatizzazione, (2) tutti sottolineano il valore della certezza del diritto. “Contratto di concessione” è un ossimoro: o è un contratto, o è una concessione. L’UE ci porta a considerare i contratti come contratti, in cui pubblico e privato hanno pari dignità.
Sull’allocazione del rischio: gli investitori sono disposti ad accettare fallimento e rischio.-traffico, sono disposti ad accettarre rischi che conoscono e gestiscono. Non sono disposti ad accettare rischi che non conoscono e non gestiscono: come il rischio di modifica delle regole del gioco. I contratti devono essere “adattabili”, ma non “modificabili” e non a formazione progressiva. Se si rispettano alcuni “requisiti minimi di certezza”, è ancora possibile trovare risorse sui mercati internazionali.

Enrico Morando (senatore PD): i governi cambiano ma i problemi restano. I governi italiani alla domanda: perché non si fanno infrastrutture? hanno risposto, destra e sinistra: perché mancano i soldi. Il rapporto dell’IBL dimostra che così non è: in un’economia globale non mancano capitali, il problema è come attrarli, nel settore della costruzione delle infrastrutture, al fine di aumentare la capacità competitiva del Paese. Noi non riusciamo ad attrarre capitali privati non per assenza di capacità pubblica, ma per problemi che riguardano il funzionamento del sistema-Italia nel suo complesso. Ci sono questioni che travalicano il settore: giustizia e relazioni sindacali “impattano” l’attrazione di capitali per il settore autostradale, molto più della regolazione di settore. Una punzecchiatura a Ciucci: apprendo con stupore che non vi sarebbe un conflitto d’interessi in capo all’Anas.

(Subentra cs perché am ha il pollice dolente)

Morando si chiera a favore del coinvolgimento delle regioni nella regolazione e vigilanza sulle autostrade, purché restino ben distinti questi compiti dall’ingresso in campo come concessionari. Di fatto approva il “modello lombardo” che vede un coinvolgimento dell’Anas assieme alla regione per incentivare la realizzazione di infrastrutture utili.

Giannino si aggancia a quest’ultimo punto per passare la parola a Enrico Musso, senatore del Pdl ed economista dei trasporti che precisa di parlare più da economista che da politico. Musso sottolinea le parole di Morando sulla non pertinenza dei problemi di finanza pubblica: oggi il privato non è più un “esecutore efficiente”, ma può giocare in prima persona, sia per virtù sia per necessità. Il privato, cioè, non è più un mero amministratore (o realizzatore) di redditività, ma un investitore che si assume dei rischi. Quindi, la platea dei privati interessati deve essere necessariamente aperta allo scenario globale: se vogliamo buone infrastrutture, dobbiamo essere in grado di attrarre investimenti. Quali condizioni vanno rispettate? Anzitutto, prosegue Musso, creare vera contendibilità attraverso gare vere e concessioni di durata rapportata all’entità degli investimenti. Un secondo elemento è la flessibilizzazione degli elementi tariffari: il trend è sempre più quello di far pagare la viabilità specie in relazione alla congestione. Dunque il pagamento non è solo corrispettivo della costruzione e gestione, ma riflette anche il valore d’uso, quindi si potrebbero immaginare pedaggi variabili in funzione della domanda. Conclude Musso: la redditività, specie nel trasporto merci, si colloca su un ciclo che spesso è intermodale, non sta sul singolo segmento. Dunque il ruolo del privato può essere valorizzato su interi archi intermodali come i grandi corridoi europei? Infine, ribadisce che le opere devono essere “utili”, e anche allo scopo di discriminare quelle utili da quelle inutili è essenziale che le regole e le norme siano certe. In Italia abbiamo un paradosso per cui il regolatore pubblico è rigido nell’adeguarsi ai cambiamenti ma estremamente volubili all’opinione pubblica e questo contribuisce a creare confusione dannosa. “Il rischio di cattura del regolatore non c’è perché il regolatore non esiste: l’Anas dovrebbe essere abolita e superata da un’autorità indipendente e dalla riassegnazione delle concessioni a soggetti privati”.

Interviene Luigi Grillo, presidente della commissione trasporti del Senato. Grillo ripercorre le principali tappe degli anni recenti: svalutazione della lira nel 92, legge Merloni nel 93 che ha l’effetto – secondo lui – di paralizzare gli investimenti in opere pubbliche fino al 2001. La ragione è che le procedure sono talmente macchinose da impedire la realizzazione delle opere. Le cose cambiano con la nomina di Lunardi a ministro. Quindi legge obiettivo, legge delega e legge 166 che modifica la Merloni. Grazie alla riforma del 2002 che ha sbloccato il project financing gli investimenti sono ripartiti. Cita statistiche sulle gare e l’investimento di capitali privati per dimostrare che effettivamente una modifica ha potuto liberare forze importanti, stoppate dall’intervento a gamba tesa di Di Pietro che cancella il diritto di prelazione. I project riprendono quando, nel 2008, il centrodestra re-introduce il diritto di prelazione. Dunque, dice Grillo, se fai norme appropriate ottieni i risultati: “abbiamo poche risorse pubbliche, molte risorse private e il sistema bancario più forte d’Europa”. Grillo critica il veto Tremonti sul project di terza generazione, che avrebbe consentito una serie di investimenti senza onere per il pubblico. Il PF di terza generazione consente ai privati di prendere l’iniziativa per un investimento, senza che la decisione debba nascere in prima battuta dagli enti pubblici. In sostanza si tratta di una evoluzione della normativa esistente per esaltare il ruolo dei privati, che sarebbe molto efficiente specie al nord dove la PA funziona. Grillo propone la tariffazione delle superstrade (circa 6.600 km) per consentire investimenti necessari in capacità e sicurezza. Tutto questo, secondo Grillo, funziona o può funzionare: cosa non funziona? Certo, la macchinosità delle procedure. Ma l’anno scorso una norma ha sbloccato 11 concessioni autostradali. Pochi mesi dopo si è ritenuto che queste concessioni già sbloccate dovessero essere riportate al Cipe, che le ha riapprovate nelle condizioni precedenti alla norma: siamo al punto di partenza e sono ancora bloccate, con ingenti investimenti in attesa. Altro grande problema è responsabilizzare il ruolo dei magistrati per curare le patologie della giustizia. Sull’Anas, Grillo ritiene che il controllo andrebbe assegnato ad altri soggetti, separandolo dal ruolo di concedente e concessionario. A differenza di Musso, però, Grillo ritiene che il controllo non dovrebbe essere assegnato a un’authority ma al ministero.

Giannino lascia la parola a Francesco Ramella per le conclusioni.Ramella parte con due buone notizie: (1) non ci sono più i soldi perché abbiamo capito che né il debito né le tasse sono utili. (2) I soldi pubblici non servono. Quali opere servono? Servono opere dove c’è congestione, cioè sulle tratte più redditizie. Il sistema, se lasciato a se stesso, si auto-equlibra. Il problema è che continuiamo a fare opere che non servono, o perché non ci sono abbastanza persone che la usano, o perché non sono disposte a pagare abbastanza.  Poiché gran parte del traffico è locale, prosegue Ramella, finanziamo le opere pubbliche a livello locale: è un modo per discriminare tra opere utili e no. Conclusione: lo stato più che fare dovrebbe lasciar fare e smettere di fare le cose sbagliate.

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