CHICAGO BLOG » Guest http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Legalizzare l’uso di stupefacenti: quale impatto sui bilanci pubblici? – di Flavio Stanchi /2010/12/21/legalizzare-l%e2%80%99uso-di-stupefacenti-quale-impatto-sui-bilanci-pubblici-%e2%80%93-di-flavio-stanchi/ /2010/12/21/legalizzare-l%e2%80%99uso-di-stupefacenti-quale-impatto-sui-bilanci-pubblici-%e2%80%93-di-flavio-stanchi/#comments Tue, 21 Dec 2010 16:00:09 +0000 Guest /?p=7882 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Flavio Stanchi:

Lo stato della California, che deve rimediare ad un deficit di bilancio di 19,9 miliardi di dollari in vista dell’anno fiscale 2011, a inizio novembre ha votato per il “no” in un referendum popolare sulla legalizzazione della marijuana.

Se a prima vista le due cose possono apparire poco legate tra di loro, bisogna sapere che un recente studio (PDF) di due economisti americani, Jeffrey A. Miron e Katherine Waldock, edito dal Cato Institute, mostra come la stessa California avrebbe potuto generare dalla legalizzazione un risparmio per le casse dello stato di circa 960 milioni di dollari all’anno, senza considerare i possibili introiti derivanti dalla tassazione della droga in questione, stimabili intorno ai 352 milioni di dollari annui. In realtà il dato potrebbe anche essere maggiore, in quanto i due autori, per impostare il calcolo, hanno costruito uno scenario in cui si ipotizza la legalizzazione contemporanea degli stupefacenti da parte di tutti gli stati e del governo federale degli Stati Uniti d’America. Questo significa che, a causa della concorrenza tra stati, gli introiti di natura fiscale risultano minori per ciascuno stato rispetto al caso di una legalizzazione nella sola California.

Per calcolare i possibili ricavi derivanti dalla tassazione delle droghe legalizzate, gli autori hanno prima stimato l’ammontare della spesa in stupefacenti da parte dei consumatori sotto l’attuale condizione di divieto (basandosi sulle stime dell’Office of National Drug Control Policy, rivedute e corrette); in secondo luogo, hanno stimato l’ammontare della stessa spesa nel caso della legalizzazione; infine, guardando all’attuale situazione di alcool e tabacco, hanno formulato un’assunzione sulla tassazione che verrebbe applicata. Lo studio ipotizza che la curva di domanda rimanga invariata a seguito della legalizzazione, a causa del contrasto tra il maggior consumo casuale e la riduzione nel consumo dovuta a un effetto “frutto proibito”: la droga perderebbe il fascino dell’illegalità. Dal lato dell’offerta, prezzi e quantità prodotte dipenderebbero largamente dal tipo di droga in considerazione; se da alcune ricerche emerge che il prezzo della marijuana potrebbe subire una flessione inferiore o uguale al 50%, d’altra parte è lecito aspettarsi che i prezzi della cocaina e dell’eroina possano crollare rispettivamente fino al 20% e al 5% dei prezzi attuali. L’effetto sul consumo varierebbe a seconda dell’elasticità della domanda di stupefacenti, che alcuni studi mostrano essere anelastica; questo significa che una diminuzione del prezzo porterebbe a una riduzione della spesa totale in stupefacenti.

Partendo da queste ipotesi e allargando l’analisi a tutti gli stati e al governo federale, il risparmio per il paese dovuto alla legalizzazione della sola marijuana ammonterebbe a circa 8,7 milardi di dollari, derivanti dalla riduzione delle spese di polizia, delle spese giudiziarie e di quelle penitenziarie legate al traffico e al possesso della droga. Ipotizzando poi una tassazione simile a quella di alcool e tabacco, con un’accisa che pesa per il 33% del prezzo finale, e considerando anche le potenziali maggiori entrate delle imposte sul valore aggiunto e sui redditi, gli autori calcolano possibili introiti per altri 8,7 miliardi di dollari.

Generalizzando ulteriormente e guardando alle cifre relative alla legalizzazione (altamente improbabile) di tutti gli stupefacenti, il risparmio per le casse del paese salirebbe a 41,3 miliardi di dollari all’anno e le entrate della tassazione sarebbero pari a 46,7 miliardi di dollari all’anno, per un impatto totale sul bilancio di circa 88 miliardi di dollari annui. Per quanto sia improbabile che i risparmi possano davvero essere quelli prospettati, perché ciò implicherebbe licenziamenti tra le forze dell’ordine, i pubblici ministeri, ecc., è comunque plausibile ipotizzare un miglioramento economico dovuto al ricollocamento di questi a mansioni più produttive.

Il fatto che la legalizzazione possa generare dividendi fiscali non è, da sola, una ragione valida per considerarla una policy migliore della proibizione. Che si prenda l’una o l’altra parte, è tuttavia utile avere un’idea dell’ordine di grandezza dei possibili benefici economici che ne deriverebbero.

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Metamorfosi televisive /2010/12/14/metamorfosi-televisive/ /2010/12/14/metamorfosi-televisive/#comments Tue, 14 Dec 2010 14:07:24 +0000 Guest /?p=7843 Dal bruco alla farfalla

Riceviamo da Stefano Quintarelli e volentieri pubblichiamo. L’autore è un carissimo amico, oltre che uno dei maggiori esperti italiani di tlc e digitale, provare per credere il  suo Quinta’s weblog

Cos’è la televisione ? sembra una domanda banale perché tutti abbiamo in mente come riferimento cosa ERA la televisione: un servizio in cui un broadcaster emittente trasmette via etere i programmi televisivi (di cui ha acquisito i “diritti” per il suo paese) che, ricevuti da una antenna, vengono guardati su un televisore (un oggetto costituito da un sintonizzatore, uno schermo, degli altoparlanti).

Emittenti che, è bene ricordare, hanno degli obblighi di legge tra cui quelli riguardanti la par condicio, le fasce orarie di protezione dei minori, l’affollamento pubblicitario, la promozione di opere europee, le televendite, l’informazione sportiva, ecc.[1]

Oggi lo scenario tecnologico è un po’ meno netto, il televisore non è più quello di una volta: con l’home theatre l’audio è uscito dal televisore e con il satellite o con il digitale terrestre, il sintonizzatore (una volta interno al televisore) è diventato un decoder esterno. In compenso il video si sta arricchendo di prese di rete o wifi per collegarlo ad internet con la capacità di prelevare contenuti da un server o eseguire piccoli programmi chiamati widget.

A ben vedere l’oggetto “televisore” assomiglia sempre più ad un computer e sempre meno ad un “televisore”, sia con possibilità native di collegamento ad internet, sia mediante dei ricevitori esterni: i “set-top-box”.

Appaiono così servizi online che erogano contenuti audiovisivi mettendoli a disposizione sia come flusso di contenuti (come tradizionali programmi televisivi) sia, e sempre di più, ottenibili su richiesta dell’utente.

L’erogazione di flussi viene chiamata “TV lineare”, la messa a disposizione di contenuti viene chiamata “TV non lineare”. In Italia la TV lineare via internet (IPTV) conta circa 600.000 abbonati ripartiti tra 4 operatori (Telecom, Fastweb, Wind, TiscalI); i servizi TV non lineari sono offerti da un vasto numero di soggetti, anche dall’estero, tra cui la svizzera Acetrax e la statunitense Apple.

La trasmigrazione e mutazione dall’etere al cavo mette a dura prova le certezze su cui si è costruita la TV di ieri, basti pensare alle potenziali conseguenze di quanto descritto sopra: l’annichilamento del palinsesto a favore della selezione dell’utente (eventualmente con raccomandazioni del suo network sociale anziché della scelta dell’editore), la delocalizzazione geografica e globalizzazione delle sorgenti di contenuti, la frammentazione degli operatori non più limitati in numero dalla limitata costrizione delle frequenze “televisive”, e via dicendo.

In questa metamorfosi della televisione si innestano grandi questioni. Se prima era sufficiente mettere un recinto per limitare il bruco, come fare ora con la farfalla ? quali norme applicabili ? quelle svizzere ? quelle italiane ? quelle USA ? come si rispettano le fasce orarie di protezione dei minori con fonti che possono stare agli antipodi ? se è l’utente a scegliere cosa guardare come assicurare la par condicio ? cosa significa “affollamento pubblicitario” ? Youtube è una televisione ? e la Rai online ?

E’ bene che mettiamo da parte gli schemi di riferimento precedenti: lo sviluppo della tecnologia dissolve le strutture cui siamo abituati.

Il nuovo ordine europeo

Nel 1989 la Commissione Europea, ritenendo che una reale integrazione dell’Unione non potesse avvenire senza regole televisive, ha introdotto la direttiva “TV senza frontiere”, successivamente modificata nel 1997,  per armonizzare le normative presenti in Europa. Sono stati così fissati alcuni dei vincoli richiamati sopra: la tutela dei minori, la promozione della produzione audiovisiva europea, l’affollamento pubblicitario.

Anticipando i cambiamenti che stiamo affrontando oggi, nel 2003 la Commissione Europea, ha avviato una consultazione pubblica circa la regolamentazione della futura TV; sono stati fatti dei focus group con esperti e nel 2005 è stata realizzata una nuova consultazione. Nel dicembre 2007 è stata emanata la Direttiva 2007/65/CE che modificava il testo precedentemente in vigore e nel marzo 2010 è stata emanata la versione codificata. La direttiva “Audiovisual Media Services” ha così sostituito la precedente direttiva “TV senza frontiere”.

La direttiva si basa su una nuova definizione dei servizi media audiovisivi, svincolata dalle tecniche di trasmissione; definisce il concetto di “servizi media audiovisivi” compiendo una distinzione tra servizi lineari, che designano i servizi di televisione tradizionale che i telespettatori ricevono passivamente; e servizi non lineari, cioè i servizi di televisione a richiesta che i telespettatori scelgono di vedere (servizi di video on demand, ad esempio).

Si stabilisce anche il principio del paese d’origine e gli operatori saranno pertanto tenuti a rispettare esclusivamente le disposizioni giuridiche in vigore nel loro paese di stabilimento. In caso di differente severità delle norme tra vari stati europei è comunque prevista una facoltà di intervento dello stato di destinazione in caso sia necessario tutelare ordine pubblico, consumatori, investitori, ecc.

La direttiva stabilisce limiti di affollamento pubblicitari e include nuove forme di pubblicità, come la pubblicità a schermo diviso (split screen), la pubblicità virtuale, la pubblicità interattiva oltre a regolamentare l’uso esplicito di prodotti di una determinata marca nell’ambito di un programma (“product placement”).

Molti degli interrogativi iniziali, determinati dallo sviluppo tecnologico, trovano risposta nei paragrafi precedenti. Resta un tema importante: la convergenza (o forse sarebbe meglio dire collisione) tra la TV di ieri e Internet: Youtube è una Tv e quindi soggetta alle regole televisive ? e un videoblog ? e la webcam sulla piazza del duomo ? e la Rai online ?

Intanto osserviamo che non ha senso chiedersi se siano una “televisione” bensì se siano un “servizio media”. La “televisione” è solo una sottocategoria, limitata alla particolare fattispecie dei servizi di media audiovisivi forniti per la visione simultanea di programmi sulla base di un palinsesto.

La direttiva definisce “fornitore di servizi media” chi assume la responsabilità editoriale della scelta del contenuto audiovisivo e ne determina le modalità di organizzazione, sia esso erogato linearmente o messo a disposizione a catalogo (non linearmente). La “responsabilità editoriale” è l’esercizio di un controllo effettivo sia sulla selezione dei programmi sia sulla loro organizzazione in un palinsesto (lineare) o in un catalogo (non lineare). Viene invece effettuato un esplicito richiamo alla direttiva “eCommerce” che esenta da ogni obbligo quegli  intermediari che non esercitano responsabilità editoriale (ad esempio gli operatori di rete o di hosting).

Nella direttiva si specifica che la definizione di servizi di media audiovisivi dovrebbe comprendere solo i servizi che sono mezzi di comunicazione di massa. Il suo ambito di applicazione non dovrebbe comprendere le attività “precipuamente non economiche” e che “non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva”, quali i siti Internet privati e i servizi di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interessi.

Viene altresì esclusa ogni forma di corrispondenza privata (inviata a un numero limitato di destinatari) e tutti i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale come siti Internet che contengono elementi audiovisivi a titolo puramente accessorio, quali elementi grafici animati, brevi spot pubblicitari o informazioni relative a un prodotto o a un servizio non audiovisivo.

Per la direttiva, quindi, video blog, siti aziendali con contenuti video, webcam su piazza del duomo, non sono  servizi media mentre lo è la Rai online.

Per Youtube la cosa è più complicata. Non fa parte delle eccezioni esplicitamente previste: è certamente di massa, è una attività economica, non è una comunità di interesse, non è a diffusione limitata, contiene video in modo non accessorio, contiene video non generato da utenti privati.

Il nocciolo della questione è quindi se Youtube eserciti un controllo effettivo sulla selezione dei contenuti o sulla loro organizzazione nel catalogo. Certamente Youtube non lo fa per il suo uso più frequente, ovvero i video caricati dagli utenti  ma lo fa invece per alcuni contenuti classificati in categorie particolari quali i film (youtube.com/movies ) e gli show televisivi (youtube.com/shows). Youtube opera in Europa dall’Irlanda e pertanto vale il principio del paese di origine, ovvero è applicabile la direttiva per come è stata recepita in Irlanda.

La legge recepita in italia

Il recepimento in Italia il 29/3/2010 della direttiva, noto come “legge Romani”, ha generato notevoli discussioni, come era ovvio dato che tocca il core business del Presidente del Consiglio.

Non entro nel merito del recepimento della direttiva per quanto attiene i servizi media lineari (TV tradizionale) che va oltre gli obiettivi di questo articolo. Mi limito ad esaminare il recepimento per quanto attiene le nuove forme di servizi media.

La direttiva esclude che vengano imposti nuovi obblighi di licenze o autorizzazioni per l’erogazione di servizi; il recepimento italiano prevede una dichiarazione di inizio attività da presentarsi all’ AGCOM (l’Autorità delle comunicazioni) che produrre un regolamento che individui tra l’altro i criteri dei soggetti da ritenersi fornitori di servizi media. Non è certo una licenza, come vietato dalla direttiva, ma si introduce un registro non previsto dalla direttiva.

La direttiva, come detto, fa esplicitamente riferimento all’esclusione di responsabilità degli intermediari che non hanno responsabilità editoriali (direttiva 2000/31/CE). Questa esenzione di responsabilità è assente nel testo italiano, lasciando un residuo di rischio in capo ai semplici intermediari tecnici che si limitano ad erogare contenuti la cui responsabilità editoriale incombe a terzi.

Anzi, la cosa si aggrava se si considera la previsione, non presente nella direttiva ma inclusa nella legge italiana, che concede all’AGCOM di disporre l’interruzione della ricezione in Italia di contenuti o cataloghi che violino le norme sul diritto d’autore, ordinandolo anche all’operatore di rete attraverso il quale detti contenuti sono ricevuti, con una sanzione per lo stesso fino a 150.000 euro. Altro che esenzione di responsabilità.[2]

La memoria non può non correre a Youtube, soggetta al recepimento irlandese, ma che ospita come noto molto materiale che viola norme sul diritto d’autore, materiale ricevibile in Italia…

Il regolamento dell’AGCOM

Non è finita. Siamo arrivati al regolamento dell’AGCOM chiamato a definire, questi aspetti molto delicati: i criteri per cui un soggetto diventa fornitore di servizi media e le norme attuative per interrompere la ricezione in italia di programmi o cataloghi che violino norme sul diritto d’autore.

La cosa è, in tutta evidenza, molto delicata. Il Commissario AGCOM Nicola D’Angelo si è dimesso da relatore del provvedimento, l’approvazione da parte del consiglio dell’AGCOM è slittata a seguito del clamore sviluppatosi attorno alle bozze che sono trapelate.

Il Presidente dell’AGCOM, Calabrò ha dichiarato “Applicheremo la legge Romani semplificandola al massimo, sburocratizzandola. E’ profondamente sbagliato regolamentare questo fenomeno con mentalità ottocentesca. Certo bisogna reprimere la pirateria e tutelare il diritto d’autore con mezzi moderni”.

Le prime indiscrezioni riportavano che, per essere “in concorrenza con la radiodiffusione televisiva” (come previsto dalla normativa) fosse sufficiente una soglia ridicolamente bassa, ovvero un giro di affari annuo di 100.000 euro in presenza di un catalogo di video fruibili on demand e/o di 24 ore settimanali di erogazione lineare.

Le indiscrezioni raccontavano anche di sanzioni per gli utenti sospetti violatori di copyright che portino ad una “cessazione immediata delle violazioni, senza lungaggini” in assenza di un giudice terzo ed imparziale; misure nei confronti di siti sospetti con verifiche “eventualmente” necessarie, interruzione di comunicazioni con determinati protocolli a prescindere dal loro contenuto, obbligo per gli operatori di oscuramento per siti che fanno riferimento a indici di contenuti protetti da copyright (Google, per definizione è un indice di contenuti protetti da copyright!, secondo la definizione di tali siti, in Italia sarebbero centinaia di migliaia), ecc.

Non stupisce che l’approvazione del provvedimento AGCOM sia slittata e che nulla trapeli delle nuove bozze.

Sotto l’albero di Natale, con la testa impegnata tra cenoni e regali, speriamo di non trovarci una sorpresa amara.


[1] Il Corecom Puglia elenca nella normativa di riferimento 59 diverse norme: http://is.gd/iBhrS

[2] Il recepimento italiano stabilisce che chi fa scelte editoriali, sia un fornitore di servizi media e conseguentemente abbia responsabilità, tra cui quelle indicate. Dice anche che se un soggetto non fa scelte editoriali, non è un fornitore di servizi media, ma non afferma, come invece fa la direttiva, che chi non fa scelte editoriali non abbia responsabilità.

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I segreti di South Stream. Di Stefano Agnoli /2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/ /2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/#comments Fri, 10 Dec 2010 18:01:30 +0000 Guest /?p=7823 Volentieri ripubblichiamo questo articolo di Stefano Agnoli, comparso per la prima volta sul Corriere della sera di oggi.

L’agenzia del turismo del Cantone di Zug raccomanda soprattutto il tramonto sul lago, «un’esperienza da non mancare». Oppure la vista dei giochi di luce sulla facciata della stazione ferroviaria, opera del californiano James Turrell. Difficile però che qualche centinaio di grandi «corporation» di tutto il mondo e di ricchi contribuenti siano confluiti verso la campagna, i laghi e i monti della Svizzera centrale solo per le attrazioni locali. Diciamola subito: a Zug si va perché si pagano poche tasse, e le aliquote fiscali per le aziende sono tra le più basse della Svizzera, e quindi d’Europa. Tra il 9 e il 15%.

Ma non solo: il «tax ruling» locale dà alle società che decidono di installarsi nel Cantone la possibilità (teorica ovviamente) di confezionare bilanci che sarebbe un eufemismo definire incompleti e poco trasparenti. Qualche esempio di illustri «clienti fiscali»? A Zug, e nei suoi dintorni, hanno deciso di spostare la propria sede mondiale o europea grandi multinazionali americane. Così nel giro di pochi chilometri quadrati si ritrovano Foster Wheeler, Noble, Amgen. Il colosso del trading Glencore. Persino la Transocean, la società petrolifera responsabile del disastro del Golfo del Messico nell’estate scorsa, ha sede a Zug. Le grandi corporation sfruttano le agevolazioni cantonali, e così anche i loro manager.

I gasdotti
L’attrazione esercitata dalla Svizzera e da Zug non ha effetto solo sulle aziende occidentali. Gli oligarchi russi spuntati dopo la dissoluzione della vecchia Urss hanno ampiamente sfruttato le «opportunità» concesse dalle leggi e dal tax system elvetico. Le società intermediarie al 50% tra Gazprom e l’Ucraina nel corso del conflitto del gas dell’inverno 2005-06 (come la Centragas Holding) avevano sede in Svizzera, e ora sono da tempo liquidate. Per il colosso moscovita del gas, tuttavia, l’abitudine di servirsi dello Stato alpino per i propri affari è diventata un’usanza consolidata. Come nel caso del progetto South Stream, oggetto dei preoccupati «cable» delle ambasciate americane rivelati da Wikileaks. Il memorandum tra l’Eni di Paolo Scaroni e i russi viene siglato il 23 giugno 2007. Il 18 gennaio 2008 viene costituita la South Stream Ag, posseduta al 50% ciascuno da Gazprom e da Eni International Bv. Dove? A Zug naturalmente. Nello stesso luogo dove, dal dicembre 2005, si trova anche il veicolo societario per il gasdotto «Nord Stream», il fratello gemello sul fondale del mar Baltico che dovrà bypassare la Polonia, e che vede tra i soci la tedesca E.On e come presidente l’ex cancelliere Gerhard Schröder. Ancora: quando all’incirca un anno fa i russi chiudono il negoziato con la Serbia per il transito del South Stream si comportano nello stesso modo. Creano al 50% con Srbijagas la South Stream Serbia Ag, infilano in consiglio il capo di Gazpromexport Alexander Medvedev (solo omonimo del presidente Dmitri), quello di Srbijagas Dusan Bajatovic, e dove la piazzano? A Zug naturalmente. Curioso: in Serbia l’aliquota sui profitti «corporate» è già al 10%, e di meno in Europa non si trova, se si fa eccezione per il Montenegro (9%). Per i russi, evidentemente, in queste scelte giocano altri fattori, primo fra tutti la riservatezza, se si vuole utilizzare anche in questo caso un eufemismo. In Svizzera, dettaglio non da poco, le società non quotate in Borsa non hanno alcuno obbligo di deposito del loro bilancio, che rimane a disposizione esclusivamente dell’amministrazione finanziaria.

Costi a forfait
Focus su Zug, dunque. Dove ci si può immaginare che su mandato di Gazprom e Eni un esperto professionista locale abbia costituito la joint-venture in tre-quattro giorni e con una spesa di 7-8 mila franchi. «Diciamo che le autorità cantonali – commenta Tommaso di Tanno, docente di diritto tributario a Siena – hanno una “capacità dialettica” assai elevata nel negoziato con aziende e contribuenti facoltosi». Con vantaggi fiscali di tutto rilievo: una tassa federale dell’8,5% sugli utili alla quale se ne aggiunge una cantonale del 6,5%, che tuttavia le holding non pagano, visto che a Zug possono godere di regimi «privilegiati». Il tutto grazie alla «concorrenza fiscale» interna alla Svizzera, che fa sì che tra i quaranta luoghi migliori in Europa per non pagare le tasse una ventina siano cantoni elvetici. Ma, soprattutto, a far premio c’è la «flessibilità» sulla redazione dei bilanci, che per quanto riguarda attivi e profitti devono semplicemente soddisfare dei «principi di ordinata presentazione». Senza l’obbligo, quindi, di uniformarsi a standard internazionali riconosciuti, come quelli Ias o quelli americani Gaap. E in particolare – nel caso di aziende che operano «estero su estero» come è e sarà il caso di South Stream – è possibile trattare direttamente con l’amministrazione fiscale un forfait sui costi da riconoscere in bilancio. Una quota percentuale prefissata sui ricavi, detratta la quale resta l’imponibile su cui pagare le tasse. Un sistema che come si può facilmente immaginare lascerebbe un’autostrada davanti a chi volesse mettere in atto pratiche poco trasparenti o addirittura al di là della legge, come consulenze facili, o addirittura la costituzione di fondi. Questione delicata, e all’Eni comunque percepita, visto che nei bilanci la quota del 50% in South Stream Ag (che non è consolidata) compare con una sintetica noterella a margine: la società, si precisa, come altre partecipate svizzere del gruppo risulta ricadere nella «black list» stilata dal ministro Giulio Tremonti nel 2001. Tuttavia essa dichiara che «non si avvale di regimi fiscali privilegiati». Corretto, ma se alla fine South Stream Ag pagherà sugli utili l’aliquota svizzera «senza privilegi» (15%), o quella italiana, pare tutto sommato una questione secondaria rispetto alle domande che pone l’adozione di un sistema, diciamo così, «flessibile» di redazione dei bilanci.

Arriva Gazprombank
Sul versante Nord delle Alpi, però, negli ultimi tempi la partita Gazprom non si è giocata solo sulle joint-venture per i gasdotti. Da un anno e mezzo a questa parte, infatti, in Svizzera ha fatto la sua comparsa anche il braccio finanziario del monopolista di Mosca: Gazprombank, terzo istituto di credito della Russia, dove la casa madre energetica conta per il 41% del capitale e controlla sostanzialmente il board, presieduto da Andrey Akimov. Nel giro di pochi mesi Gazprombank ha messo a segno un paio di manovre che si intersecano con i vecchi scenari noti anche in Italia (caso Mentasti) e lasciano il sospetto che, forse per volontà del Cremlino, si siano ormai regolati diversi affari del passato. A metà 2009 Gazprombank ha acquistato da Vtb, la seconda banca russa, il controllo della Russian Commercial Bank, uno storico crocevia degli interessi russi in Europa occidentale. Ma meglio sarebbe dire che Gazprombank ha provveduto a un vero e proprio salvataggio della Rcb, visto che in pochi mesi ha dovuto sborsare tra garanzie e fondi supplementari 160 milioni di dollari. Rcb, dal 2006, era la controllante del fondo del Liechtenstein Idf, a sua volta controllante della Centrex austriaca ai tempi dello sfumato affare Mentasti. L’uno-due di Gazprombank, che sostiene di aver approfittato dell’occasione per accaparrarsi una banca che ha piena licenza operativa in Europa, ha di fatto azzerato anche i conti sospesi degli anni precedenti. Tra i fondi dei clienti della Rcb si è assistito nel corso del 2009 a una migrazione particolare: 600 milioni di dollari che risultavano attivi su Cipro, dove opera una Russian Commercial Bank Cyprus, sono improvvisamente rientrati verso Mosca. E in questi movimenti non sembrano essere coinvolti interessi esclusivamente russi.

di Stefano Agnoli

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Viva la Rai /2010/11/30/viva-la-rai/ /2010/11/30/viva-la-rai/#comments Tue, 30 Nov 2010 09:17:43 +0000 Guest /?p=7732 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Antonio Sileo:

Con l’approssimarsi della fine dell’anno arrivano puntuali, tra le altre, le pubblicità che ricordano di pagare il canone per la gloriosa Radiotelevisione italiana. Con queste, regolarmente, divampano commenti pro e contro e non mancano le proposte per risolvere la non poca “evasione”.

Il neoministro Paolo Romani – di telecomunicazioni grande esperto – ha ripreso un’idea che a dire balzana non si scherza.  «A tutti i titolari di un contratto di fornitura di elettricità, siano essi famiglie, pubblici esercizi o professionisti, verrà chiesto di pagare il canone, perché, ragionevolmente, se uno ha l’elettricità, ha anche l’apparecchio tv. Chi non ha la televisione dovrà dimostrarlo e, solo in quel caso, non pagherà» ha dichiarato al Corriere della Sera il ministro.
Certo, si dirà che alcune ultime proposte di Romani non abbiano incontrato un così gran successo (ci riferiamo ai cinque nomi suggeriti per il collegio dell’Autorità per l’energia). Tuttavia, l’iniziativa è seria, tanto che rientrerebbe nella riforma del canone Rai che dovrebbe essere presentata col decreto milleproroghe o, comunque, entro l’anno. Il fine è meritorio: azzerare la grande evasione (circa il 30%) e, allo stesso tempo, pagare meno; pagare tutti, proprio tutti, ma meno.
Ora, è evidente che il ministro non è mai stato alle presentazioni della relazione annuale dell’Autorità per l’energia. Sono noti, infatti, gli appelli di Alessandro Ortis e Tullio Fanelli per spostare una parte degli oneri per l’incentivazione delle rinnovabili dalla bolletta alla fiscalità generale, ma trasformare chi fattura energia elettrica in esattore elettronico sostituto pare proprio un po’ troppo, anche perché, a stare attenti, sarebbe solo l’inizio. È in grande aumento, infatti, l’utilizzo di schermi che permettono di vedere la televisione in auto, sono il trastullo di tanti autisti in città e di molti ragazzi in periferia. Dobbiamo quindi aspettarci una nuova componete RaiTV tra le accise di diesel e benzina?

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Ciapa là! Lezione dalla Svizzera sui referendum e il fisco. Di Sergio Morisoli /2010/11/29/ciapa-la-lezione-dalla-svizzera-sui-referendum-e-il-fisco-di-sergio-morisoli/ /2010/11/29/ciapa-la-lezione-dalla-svizzera-sui-referendum-e-il-fisco-di-sergio-morisoli/#comments Mon, 29 Nov 2010 12:45:51 +0000 Guest /?p=7721 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Sergio Morisoli:

Ancora una volta, domenica 28 novembre, la democrazia diretta elvetica ha dimostrato tutta la sua efficienza ed efficacia. Sia il banchiere zurighese di Paradeplatz, sia l’ultimo contadino di montagna sperduto in una remota valle alpina (la partecipazione alle urne ha superato il 50%), hanno potuto esprimersi direttamente e senza intermediazioni né partitiche né di rappresentanti politici su due temi importantissimi: il federalismo fiscale e l’espulsione degli stranieri che commettono crimini sul territorio della Confederazione.

I temi in votazione federale necessitano sempre di una doppia maggioranza: quella del popolo e quella dei 26 Cantoni. I cittadini svizzeri hanno rifiutato con un sonoro 58.5% l’iniziativa dei socialisti che intendeva armonizzare i sistemi fiscali dei 26 cantoni introducendo aliquote minime per i cosiddetti ricchi. Questo passo avrebbe minato in un colpo solo: (1) il federalismo fiscale svizzero fatto del 30% di imposte che vanno alla Confederazione e del 70% che rimane ai Cantoni e ai Comuni; (2) la sana concorrenza al ribasso tra le 26 leggi tributarie cantonali; (3) l’attrattività di insediamento in Svizzera per aziende e benestanti; e non da ultimo (4) avrebbe a medio termine esposto l’intera Svizzera a pressioni fiscali armonizzatrici da parte dell’UE, producendo crepe nella sovranità in materia di finanza pubblica. Il cittadino svizzero ha invece nuovamente ribadito che vuole decidere lui sia le spese pubbliche sia la loro copertura. Vuole decidere lui il grado di ridistribuzione che il fisco deve giocare. E vuole decidere lui cosa è fiscalmente equo e ciò che non lo è, senza rigidi e duraturi vincoli di legge. Domenica il cittadino svizzero ha fatto suo il principio che chi paga comanda e chi comanda paga.

Il secondo tema in votazione era l’iniziativa dell’Unione Democratica di Centro, un partito di destra, che voleva l’espulsione diretta dei residenti stranieri che commettono crimini in Svizzera. Va notato che la Svizzera, non lo si ricorda mai, detiene il record europeo quanto a popolazione straniera residente (quasi 1 cittadino su 4). Anche qui il cittadino si è pronunciato con una maggioranza del 53% non per una politica xenofoba, bensì di protezione, ribadendo che il Paese è certamente aperto all’immigrazione, a patto che chi entri in casa si comporti adeguatamente, rispetti la cultura e i valori locali, e contribuisca a costruire il proprio benessere personale e il bene comune. Si noti che il Governo federale aveva proposto un controprogetto di legge che mirava allo stesso scopo, ma sfumando le casistiche di crimine. I cittadini lo hanno semplicemente ignorato, scegliendo la versione originale per la quale erano state raccolte le firme popolari. Il voto popolare dovrà certamente venire corretto tecnicamente dal punto di vista giuridico, ma la politica non potrà non riconoscere il chiaro messaggio uscito dall’urna in materia di residenza e delinquenza.

Il vecchio metodo svizzero di far esprimere su tutto il popolo ha di nuovo smentito chi pensava di scrivere a tavolino le regole di come appropriarsi di mezzi privati; e ha pure smentito chi pensava che le porte da tempo tradizionalmente aperte agli stranieri dovevano rimanere tali sempre e a prescindere dal fatto se chi entra abbia buone o cattive intenzioni.

Sergio Morisoli è economista

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È necessaria una tragedia greca per ottenere le liberalizzazioni anche in Italia? /2010/11/24/e-necessaria-una-tragedia-greca-per-ottenere-le-liberalizzazioni-anche-in-italia/ /2010/11/24/e-necessaria-una-tragedia-greca-per-ottenere-le-liberalizzazioni-anche-in-italia/#comments Wed, 24 Nov 2010 13:44:15 +0000 Guest /?p=7686 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Luigi Ferrata:

Vittorio da Rold su il Sole 24 Ore del 23 novembre analizza le ricette adottate dal Governo greco per fronteggiare la crisi.  Si tratta di una serie di liberalizzazioni e riforme strutturali che incidono in profondità nel tessuto sociale e burocratico del Paese. Da Rold sottolinea anche come Papandreu sia consapevole dell’impopolarità delle proprie scelte, ma che sia determinato a proseguire anche a costo di essere sconfitto alle elezioni.

Fa un certo effetto scorrere la lista e vedere come il Primo Ministro stia procedendo verso una maggiore liberalizzazione delle professioni di avvocato, ingegnere, farmacista e medico per ottener l’aumento di un punto di PIL. E ancora per risparmiare e snellire i costi burocratici il Governo greco è anche riuscito a far passare una riforma dell’organizzazione statale grazie alla quale sono state eliminate le 57 province per sostituirle con 13 macroregioni ed addirittura il Governo ha ottenuto che molti comuni venissero accorpati garantendo risparmi nell’ordine di un miliardo e mezzo all’anno.
Tra le altre misure adottate una seria lotta all’evasione fiscale, basata anche sull’utilizzo della tecnologia fornita da Google Maps per individuare gli evasori.

In sostanza le misure adottate in Grecia sono considerate le ricette necessarie per uscire dalla crisi: in altre parole per salvarsi la Grecia ha compreso l’importanza e l’urgenza di liberalizzare il mercato ed il Governo è disposto a sopportarne il costo politico nell’interesse del paese, confortato dal fatto di poter guadagnare in termini di crescita del Pil.

Rileggendo il paragrafo e sostituendo le parole Grecia e a Papandreu con Italia e Berlusconi si ottiene una fattispecie che dovrebbe essere perfettamente adattabile anche al nostro Paese ma che purtroppo non viene implementata.

A mio avviso è paradossale che nella situazione di crisi, anche l’Italia, che sicuramente in termini di crescita non gode di ottima salute, non si arrenda all’evidenza e non decida di imboccare la strada delle liberalizzazioni, tanto più che le scelte effettuate dalla Grecia sono di buon senso, condivisibili e addirittura oggetto dei programmi elettorali dei partiti di maggioranza.

La Grecia per crescere ha scelto, l’Italia vuole crescere, sa cosa deve fare, ma non lo fa.

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Confessione di un evasore /2010/11/22/confessione-di-un-evasore/ /2010/11/22/confessione-di-un-evasore/#comments Mon, 22 Nov 2010 17:57:23 +0000 Guest /?p=7661 Abbiamo ricevuto il seguente post, regolarissimamente firmato da nome e cognome. La volontà dell’autore era anche di firmarlo senza problemi, gliel’abbiamo esplicitamente chiesto dopo averlo ricevuto e letto. Ma io personalmente, appurato che l’autore esiste davvero ed è un cittadino che è anche pronto a esporsi, non essendo su questo sito a differenza che su un giornale corresponsabile delle conseguenze alle quali andrebbe incontro vi dico che il nome lo casso. Faccia riflettere tutti, questa confessione di un evasore, perché i guai di cui parla ci riguardano tutti, schiavi come siamo ridotti se non reagiamo.                    Oscar Giannino 

Mi presento: sono un evasore ed ho 27 anni.

Per la verità non mi sento tale, ma so che chiunque potrebbe additarmi cosi: dalle ingenuità sulle tasse della mia start-up d’impresa, che adesso inzia ad ingranare, mi trovo a due anni di distanza a chiedermi come riuscire ad iniziare a pagarle, le tasse.

Importo prodotti provenienti da paesti Extra-UE, UE ed alcuni vengono invece realizzati qui.L’ho fatto per abbattere una politica di oligopolio che stava nascendo nel particolare settore dove opero.

Lo dico da subito: ho procastinato, rimandato il problema delle tasse fino ad oggi, facendolo divenire ora il mio incubo.

Aggiungo anche che sono un “college drop-out” (Scienze Politiche e Comunicazione) che a 20 anni ha mollato l’università (e se ne sta pentendo) per inseguire dei sogni che riteneva possibili. “Fare impresa come in USA”, mi dicevo.

Creare un’idea seria, che cambiasse le regole in Italia. O almeno iniziasse a cambiare qualcosa.

Dicevo, non so come e perchè pagare le tasse. Per due ragioni:

La prima, è che le situazioni accumulate in 2 anni a quanto pare non sono risolvibili dai commercialisti a cui mi sono rivolto, uno all’anno. Non solo, i commercialisti stessi “spaventati” dal mio modello di business fatto di Importazione e canali di distribuzioni alternative quali l’e-commerce, non vogliono nemmeno suggerirmi qualche aiuto per pagare un po’ meno di quel che dovrei (scusate la franchezza con cui lo dico). A loro volta rimandano la situazione del 2009 mentre anche quella del 2010 diventa sempre più oscura, perchè non vengo istruito su che fare.

A tutto ciò si accumula una tragica assenza di formazione, o meglio presenza di confusione. L’ottimo sito dell’agenzia delle entrate dà informazioni tramite manuali all’uso del fisco che poi non trovano riscontro con quello che i commercialisti dicono (a proposito: avete notato che oltre al manuale esiste anche il glossario dei termini del fisco? Manco si trattasse di un’altra lingua!).

La seconda, è più di concetto e forse meno giustificabile: cosa ha fatto il Sistema Italia (di cui lo Stato è solo una parte) per me? Da quando sono al mondo ho vissuto solo disagi e tradimenti: il Liceo che frequentavo è stato chiuso e tutti gli studenti sono stati trasferiti in blocco presso un altro istituto, solo per volontà politiche. Non ho mai trovato modo di esprimere le mie idee, né in università, né ai mezzi di informazione, ma ho avuto modo di osservare ogni giorno di più il decadimento. A partire dagli impietosi paragoni con le altre realtà europee (per esperienza posso dirvi che anche l’Irlanda è socialmente più sana e MORALE di noi), alla libertà di creare delle persone, alla libertà di vivere e di inventare dei giovani.

In Italia, un sistema bancario gerontocratico penalizza chiunque voglia fare impresa e non voglia giocarsi le garanzie della famiglia – tristemente l’unico incubatore aziendale presente nel “bel” paese – per avviare una qualsivoglia idea. In Italia vengo trattato male agli sportelli dello stato. In Italia per proporre innovazioni puoi solo avere santi in paradiso, altrimenti queste idee ti vengono rubate (su questo aneddoto, sarò ben disposto a spiegare con prove ad ogni interlocutore). In Italia, l’università non è un campus di idee. E’ un ambiente diviso in tre componenti: ragazzi che studiano per lavorare da impiegati o nell’impresa del papà, ragazzi che stanno in università come se fosse un grande asilo infantile pagato dai genitori, professori che non hanno meriti ma hanno cattedre e – peggio -  assistenti che assomigliano a clientes. In Italia “Svluppo Italia” è una società farlocca dove i telefoni suonano a vuoto. In Italia i fondi SME Europei NON ESISTONO ed il fantomatico ufficio a Roma non ha un recapito. In Italia, i miei coetanei che la vedono come me non si espongono perchè hanno troppo da perdere e sanno che lo perderanno se agiscono.

Non voglio fare di tutta l’erba un fascio: ho incontrato esempi positivi in università e fuori. Ed il sistema italia ha comunque il pregio di avermi fatto diventare cittadino europeo. Non ho barriere all’interno dell’Europa, la mia ragazza è di quel paese industrializzato che sta più a nord del nostro, viaggio molto e grazie all’Inglese (con una punta di orgoglio posso definirmi anche molto fluente in americano) l’Europa ha aperto i miei occhi su tutto ciò che è decadimento in Italia.

Però non è grazie a questo sistema, non è grazie alle sue tasse, non è grazie a questo Stato se il mio Americano è fluente, se ho avviato un’impresa con un seed capital minimo raccolto grazie ad un’illuminata associazione di imprenditori che valuta SOLO per merito, visto che non ci sono “i santi”.

Non è grazie a questo sistema se ho più competenze in due campi consulenziali diversi di quanto qualasiasi universitario mio coetaneo possa avere una volta laureato. Non è grazie a questo Paese se ho un introito personale che non mi qualifica dentro la “generazione mille” (di cui comunque ho fatto parte per due anni, vivendo il Disagio).

Per questo sistema, io sono un evasore. Mi sento un evasore e mi faccio male da solo. Se evado prima o poi la pagherò. Se non evado la pago comunque, perchè una start-up di due anni non sopravvive se si ravvede. Amo comunque il mio Paese, ma sempre più spesso lo vivo disincantato.

Sono l’ennesimo atto di j’accuse in cerca di risposte. E sono qualcosa di peggio di un evasore: sono un ingenuo.

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Che cento Srl sboccino – di Francesco Benetti /2010/11/19/che-cento-srl-sboccino-%e2%80%93-di-francesco-benetti/ /2010/11/19/che-cento-srl-sboccino-%e2%80%93-di-francesco-benetti/#comments Fri, 19 Nov 2010 17:08:19 +0000 Guest /?p=7638 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Francesco Benetti:

Negli ultimi anni, media e politica insistono sulla necessità di favorire la ricerca, l’innovazione e l’aiuto ai giovani imprenditori per fornire opportunità e far emergere quei talenti che rappresentano il carburante di una vera ripresa economica. Nonostante le dichiarazioni di intenti però, le proposte sono sostanzialmente ancora poche e spesso non sufficientemente efficaci.

SrlFacile.org è un’iniziativa nata da un’idea semplice, ed un primo passo concreto nella giusta direzione: rendere meno burocratica e più accessibile la costituzione di una società a responsabilità limitata. Un’idea che, prendendo spunto da quanto già accade nel resto d’Europa, può essere messa in pratica senza grosse ripercussioni.

L’SrL è la forma societaria più adatta per l’imprenditoria giovanile e per chi vuole fare innovazione, ma gli alti costi di costituzione, comprese le migliaia di euro necessarie per versare il capitale sociale minimo, rappresentano una barriera spesso insormontabile e repressiva dell’iniziativa imprenditoriale.0

La società a responsabilità limitata si presta ad essere usata come un organismo finanziariamente dinamico, in grado di accettare investitori e capitali esterni, seed capital e venture funding, fondamentali in alcuni campi in cui la fase di ricerca & sviluppo iniziale richiede del tempo prima di produrre risultati tangibili.

Se l’azienda è appena stata costituita, la struttura della società consente allo stesso tempo di proteggere i singoli soci e di garantire continuità all’azienda, nel caso in cui la composizione societaria dovesse mutare, come spesso accade nei primi momenti di vita di un’azienda.

L’iniziativa ha preso corpo sotto forma di petizione, con un profilo assolutamente bipartisan, in quanto il concetto di innovazione come motore dell’economia non ha colore politico. È possibile contribuire, partecipando sul sito srlfacile.org o firmando la petizione a questo link.

In Inghilterra costituire una Ltd, l’equivalente di una SrL, costa qualche centinaio di euro. In Francia il capitale sociale necessario ad aprire una società è stato ridotto simbolicamente ad 1 euro, in Germania le UG permettono di versarlo contestualmente agli utili dell’azienda, e non in anticipo. Negli Stati Uniti si può far nascere una società con poco più di 50 dollari, e spesso è possibile fare tutto via web. Non potrebbe essere così anche in Italia?

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Chi ha troppi soldi, noi o lo stato? – di Antonio Martino /2010/11/19/chi-ha-troppi-soldi-noi-o-lo-stato-%e2%80%93-di-antonio-martino/ /2010/11/19/chi-ha-troppi-soldi-noi-o-lo-stato-%e2%80%93-di-antonio-martino/#comments Fri, 19 Nov 2010 10:04:07 +0000 Guest /?p=7642 Quando, il 23 novembre 1986, mi rivolsi ai 35.000 partecipanti alla marcia dei contribuenti di Torino, debuttai dicendo pressappoco: “Siamo qui da neanche un’ora e lo Stato italiano ha speso (?) mila miliardi, ne ha incassati (?) mila e ha contratto nuovi debiti per (?) mila.” Le cifre esatte, ovviamente, a distanza di tanti anni non le ricordo più, ma ricordo l’obiettivo di questa mia premessa. Volevo illustrare la tesi che, come sostenuto da Oscar Wilde, “il tempo è spreco di denaro”.

L’iniziativa dell’IBL si muove nella stessa direzione e, anche se i problemi di misurazione dello stock di debito sono notevoli, merita il nostro plauso. La ragione è molto semplice: le persone normali vivono in una dimensione monetaria che non conosce i milioni o i miliardi di euro. Quando si parla, quindi, di quei numeri, la convinzione di chi ascolta è che la cosa non riguardi lui, che di quelle somme non sa alcunché, ma altri. Se ci si limita a indicare valori pro-capite il discorso, anche se indubbiamente più comprensibile, non è tanto efficace quanto vedere le lancette di un orologio che scandiscono la corsa verso la bancarotta.

Quel maledetto orologio non si guasta mai, neanche fosse di produzione elvetica! Continua a marciare imperterrito nonostante gli eroici sforzi dei nostri governanti che, sprezzanti del pericolo, continuano a tartassarci nell’implicita convinzione che noi abbiamo troppi soldi e lo Stato, invece, troppo pochi. Come una fanfaluca di tale fatta possa essere ancora propalata senza arrossire è un mistero che supera l’umana comprensione.

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Il sadismo del debito pubblico — di Ernesto Felli /2010/11/17/il-sadismo-del-debito-pubblico-%e2%80%94-di-ernesto-felli/ /2010/11/17/il-sadismo-del-debito-pubblico-%e2%80%94-di-ernesto-felli/#comments Wed, 17 Nov 2010 09:25:16 +0000 Guest /?p=7627 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Ernesto Felli:

Ci mancava solo il conta-debito-pubblico di IBL e Chicagoboys. Quelli di IBL e Chicago-blog non solo sono mercatisti, antistatalisti e teapartisti. Sono pure sadici, perfidi e un pochettino diabolici. Spiattellarci in tempo reale le tredici cifre, in continua espansione, del debito pubblico italiano è appunto una manifestazione di cattiveria e mancanza di pietas.

Gli economisti di professione come me, e tutti gli addetti ai lavori, conoscono la dimensione del debito pubblico italiano, ma preferiscono esprimerla in percentuale del pil, o, se proprio sono costretti ai valori assoluti, si aiutano con le aggregazioni. In questo caso con i trilioni, che è un termine che esiste nella lingua italiana ma che nessuno è abituato ad usare. Il debito pubblico italiano è pari a (circa) 1,8 trilioni di euro. Detto così fa meno impressione, sono solo due cifre. E, senza il contatore di IBL, si fa persino fatica a concettualizzare un trilione – di certo appare meno minaccioso di mille miliardi. 1,8 trilioni.

Vuoi mettere con le tredici cifre spiattellate sul blog, che uno non riesce nemmeno a compitare. Ti metti paura, cominci a sudare freddo, ti prende il panico. Ce n’era proprio bisogno? Non viviamo già a sufficienza nell’incertezza? Però, ogni buona pedagogia è intrisa di un po’ di sadismo. E perciò, dopo la paura, il sudore e il panico, comincia inevitabilmente la riflessione. E riflettere su questo spaventoso fardello è necessario. Forse anche utile. A patto che non ci si faccia prendere dallo scoraggiamento. Perché una possibile risposta all’oppressione che si impadronisce di noi di fronte ad un fardello simile, è il rigetto. Nel caso specifico, il ripudio. Il ripudio del debito pubblico. Che, come si sa, è uno dei possibili modi per risolvere la faccenda.

Che c’entriamo noi con questo debito? Non potremmo semplicemente sbarazzarcene e ricominciare da capo, stando più attenti questa volta? Eh già, ma come la mettiamo con i creditori? Alcuni dei quali (molti) stanno tra di noi, sono i risparmiatori italiani. Né loro, né tutti gli altri stranieri che hanno sottoscritto fiduciosi i titoli del debito pubblico italiano, la prenderebbero bene, ovviamente. Non la prenderebbero bene nemmeno i famosi mercati. E l’Italia, che già non se la passa bene a causa di questo fardello, sarebbe duramente punita.

Dunque, ripudiare il debito non si può.

E allora? Cosa facciamo?

Tutte le possibili soluzioni hanno in comune un elemento. La riduzione della dimensione dello stato. Questa è la medicina. E non è indolore. Ma è l’unica, e si dà il caso che sia anche giusta. Perché è anche il modo attraverso il quale l’economia italiana potrebbe tornare a crescere.

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