CHICAGO BLOG » Giordano Masini http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Mon, 31 Jan 2011 11:39:37 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.4 Stiamo lavorando per voi. Ministri uniti contro i rincari /2011/01/24/stiamo-lavorando-per-voi-ministri-uniti-contro-i-rincari/ /2011/01/24/stiamo-lavorando-per-voi-ministri-uniti-contro-i-rincari/#comments Mon, 24 Jan 2011 15:20:05 +0000 Giordano Masini /?p=8123 In genere gli incontri dei ministri dell’agricoltura non conquistano la ribalta o le prime pagine dei giornali, e questo non ha fatto eccezione. Ma la notizia che mi ha segnalato Giovanni Boggero un minimo di attenzione la merita.

Il Deutsche Welle racconta di un incontro nel quale si è affrontato il tema del rialzo dei prezzi delle commodities agricole, alla luce delle recenti rivolte del Nordafrica. In particolare i ministri francese (Bruno le Maire) e tedesco (Ilse Aigner) si sono detti convinti che non è accettabile vedere paesi come l’Algeria e la Tunisia subire rincari così repentini dei beni alimentari, e che quindi è necessario agire contro la volatilità dei prezzi e contro la speculazione.

Lascia un tantino interdetti (oltre al bersaglio da colpire, il solito spaventapasseri della speculazione) la soluzione che viene ventilata, quella di incentivare (non si specifica come) la produzione. Non è un mistero che l’Europa ha incentivato le produzioni agricole per decenni, garantendo l’acquisto delle eccedenze, che poi venivano (vengono) smaltite proprio sui mercati emergenti grazie a lauti incentivi all’esportazione. Un sistema che ha portato, alla fine degli anni ottanta, l’Europa a spendere circa l’80% del suo budget per rincorrere questa spirale innescata nel dopoguerra. Un sistema che si è dovuto (per forza)  abbandonare in fretta e furia all’inizio degli anni ’90 cominciando a incentivare non più la produzione ma la sussistenza.

Fino agli anni ’80 abbiamo incentivato la produzione agricola. Dopo la riforma Mc Sharry abbiamo cominciato a disincentivarla (aiuti diretti) incentivando però al tempo stesso gli investimenti delle aziende agricole (aiuti allo sviluppo). Oggi, mentre il dibattito sulla riforma della PAC prossima ventura sembra essere sempre più orientato verso il sostegno alla produzione dei cosiddetti “valori pubblici” (ne avevamo parlato qui), si ricomincia ancora una volta a parlare di incentivi alla produzione.

Ma se è lo stesso aumento della domanda globale di cibo a costituire un potente incentivo alla produzione, allora nasce il sospetto che dietro l’idea di sostenere l’offerta (sostenendo i prezzi all’origine con contributi pubblici, altri sistemi non mi vengono in mente) più che il desiderio di agire contro la volatilità dei prezzi per il bene dei paesi più poveri ci sia solo il vecchio caro protezionismo. I ministri europei non hanno a cuore la stabilità e la pace sociale dei paesi in via di sviluppo, altrimenti non darebbero ad intendere di voler riproporre uno schema che per decenni ha strozzato proprio le economie di quei paesi, che si vedevano bloccare le nostre frontiere per i loro prodotti e i loro mercati interni devastati dai nostri surplus. Ciò che (più che comprensibilmente) interessa loro è quello di mantenere in vita un sistema produttivo reso tanto inefficiente da mezzo secolo di pesantissimo intervento pubblico da non essere in grado di approfittare del più massiccio aumento della domanda di generi alimentari dai tempi della green revolution.

James Bovard, riferendosi ai sussidi all’agricoltura americana (ma il discorso è altrettanto valido per quella europea, se non di più), scrisse:

L’effetto principale dei programmi agricoli federali è quello di costringere gli agricoltori a fare in maniera inefficiente ciò che farebbero in maniera più che efficiente senza sovvenzioni, di costringere gli Americani a pagare di più per il cibo, di far salire i prezzi dei terreni agricoli (decimando quindi la competitività degli agricoltori americani) e di sperperare inutilmente alcune decine di miliardi di dollari l’anno.

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Pane e brioches: quando i poveri devono pagare il pranzo dei ricchi /2011/01/05/pane-e-brioches-quando-i-poveri-devono-pagare-il-pranzo-dei-ricchi/ /2011/01/05/pane-e-brioches-quando-i-poveri-devono-pagare-il-pranzo-dei-ricchi/#comments Wed, 05 Jan 2011 20:03:07 +0000 Giordano Masini /?p=7968 A giudicare dalle solite statistiche post natalizie (qui e qui un paio di esempi), anche quest’anno gli italiani (fatta salva un po’ di cautela, dati i tempi) non hanno rinunciato a mangiar bene e, dove possibile, avrebbero orientato le loro scelte verso prodotti alimentari tipici e biologici. I prodotti tipici, soprattutto quando derivano da agricoltura biologica, sono prodotti di nicchia, tendenzialmente orientati a consumatori abbienti e (forse) consapevoli. Per questa ragione non stupisce affatto che in molti abbiano pensato bene di portare in tavola tipico e bio per cenoni e pranzi di Natale e San Silvestro, quando ci si concede il lusso di spendere qualcosa in più rispetto al resto dell’anno.

I prodotti da agricoltura biologica sono, in sostanza, roba da ricchi. Non potrebbe essere altrimenti, dato che l’agricoltura biologica è molto, ma molto meno produttiva di quella convenzionale, e quindi la mancata produzione dell’agricoltore viene compensata da un prezzo decisamente più alto. D’altronde la filosofia del biologico è sempre la stessa: se io produco mele col baco, qualcuno deve pur essere disposto a pagarmele per buone.

Allora come mai negli ultimi anni i prezzi all’origine dei prodotti agricoli convenzionali e biologici si sono così avvicinati? Oggi la differenza tra un quintale di grano tenero biologico e uno di grano tenero convenzionale è di pochi spicci, mentre quindici anni fa il primo veniva pagato quasi il doppio del secondo. Semplicemente, è successo che non è più il consumatore (che sceglie liberamente cosa acquistare) a pagare il mancato raccolto dell’agricoltore biologico, ma il contribuente, attraverso le sue tasse che si trasformano in sussidi per l’agricoltura biologica e i prodotti tipici, oltre che per i consorzi di tutela e gli enti certificatori, ovvero tutto quel parastato che pretende di sapere meglio di noi ciò che ci piace e ciò che non ci piace bere o mangiare.

In questo modo siamo ritornati, nella vecchissima Europa del ventunesimo secolo, al paradosso per cui le tasse dei poveri servono (ricordate la storiella di Maria Antonietta?) a pagare il pranzo dei ricchi, o almeno a garantire un considerevole sconto sui loro prodotti preferiti.

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Agricoltura, trasporti e biodiversità: la nuova frontiera del protezionismo commerciale /2010/11/26/agricoltura-trasporti-e-biodiversita-la-nuova-frontiera-del-protezionismo-commerciale/ /2010/11/26/agricoltura-trasporti-e-biodiversita-la-nuova-frontiera-del-protezionismo-commerciale/#comments Fri, 26 Nov 2010 13:24:47 +0000 Giordano Masini /?p=7706 Alcuni commenti al mio ultimo post su Chicago Blog mi inducono a tornare su un argomento, quello dell’agricoltura di prossimità e della sovranità alimentare, intorno al quale mi sembra che circolino molti luoghi comuni e ben radicati. In particolare un lettore scriveva che è giusto sostenere l’agricoltura locale, o nazionale, per alcune ragioni:

  1. perchè è buona e salutare e va tutelata per la salute di tutti (anche la vostra)
  2. perchè si aiuta la produzione italiana, e tutti i paesi proteggono la propria produzione (anche la Germania che va tanto di moda solo perchè spende un po meno degli altri)
  3. perchè l’ortofrutta non è un prodotto normale, portarla in giro per il mondo ne sminuisce la qualità
  4. la biodiversità è un patrimonio inestimabile della umanità, purtroppo certe cose non hanno prezzo ed il mercato non funziona per loro

Mi sembra evidente che i primi due punti tendano ad annullarsi a vicenda: la nostra produzione è migliore (non solo più buona, addirittura più salutare!) di quella proveniente da altri paesi, ed è giusto tutelarla, ma se lo fanno, per la stessa ragione, anche altri paesi (il lettore cita la Germania, non avendo chiaro che la politica agricola è europea), è chiaro che qualcuno la sta sparando grossa: o noi, o i tedeschi, o più probabilmente tutti e due. Come se un attore in tournée, presentandosi sul palcoscenico di Parma, esordisse dicendo: “siete un pubblico fantastico, il più bel pubblico che abbia mai incontrato, come dicevo proprio ieri a Reggio Emilia…”

La realtà è, ovviamente, diversa. Nessuna regione può vantarsi di avere una produzione migliore, fatta solo di eccellenze. Avrà ottimi prodotti di un tipo, e pessimi prodotti di un altro tipo, e questo grazie alle caratteristiche del terreno e del clima. Se una regione pretende di soddisfare il proprio fabbisogno alimentare esclusivamente con prodotti provenienti dal suo territorio non tutela affatto la salute dei propri cittadini. Tutela soltanto (è più chiaro al punto 2 citato dal nostro lettore) i produttori locali. Anzi, è più corretto dire che “tenta” di tutelarli, ma in realtà sono proprio loro a venire danneggiati nel medio e lungo periodo, in quanto si impone loro di lavorare esclusivamente per un mercato ristretto, mentre potrebbero fare affari migliori puntando sui prodotti “vocati” del proprio territorio e aprendosi a mercati più ampi.

Tentare di produrrre i prodotti sbagliati vicino casa rende meno e costa di più: ci vorranno più fertilizzanti, più acqua, più fitofarmaci, e soprattutto più terra: Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu citavano, in un loro recente articolo, il caso delle fragole: un ettaro in California ne produce 50 tonnellate, mentre la stessa superficie in Ontario non ne rende più di 10. Quindi se in Ontario volessero produrre una quantità “californiana” di fragole, dovrebbero procurarsi, probabilmente strappandola ad ecosistemi come le praterie o le foreste, una superficie agricola cinque volte superiore a quella di cui oggi dispongono.

E questa considerazione ci porta direttamente agli altri due punti citati dal nostro lettore, quello della qualità dei prodotti che vengono da lontano, e, più in generale, ai problemi legati al trasporto su lunghe distanze, e quello della biodiversità, espressione alla quale, prima di attribuire un valore (“patrimonio inestimabile dell’umanità”), bisognerebbe cercare di attribuire un significato.

Oggi le merci non vengono più trasportate da una parte all’altra del mondo con i clippers a vela, anche se già i trasporti via clipper permettevano ai molini inglesi di panificare con il grano australiano. Se è vero che i prodotti ortofrutticoli tendono a perdere qualità se non vengono consumati freschi, è altrettanto vero che la qualità di un prodotto ortofrutticolo fuori stagione è minore di quella di un prodotto di stagione: quindi importare, nel periodo invernale, frutta proveniente dall’emisfero australe, e mandare laggiù la nostra frutta nella bella stagione, significa che i consumatori (di tutto il mondo) si troveranno nel piatto i prodotti migliori al prezzo migliore.

La biodiversità è un concetto che va molto di moda negli ultimi tempi, ma presumo che non tutti coloro che ne parlano con tanta facilità non sarebbero in grado di chiarirne il significato. Innanzitutto, dato che parliamo di agricoltura, sarebbe opportuno specificare se ci si riferisce alla biodiversità o alla biodiversità agricola: sono due cose diverse, spesso la salvaguardia di una contribuisce all’impoverimento dell’altra, ma nessuna delle due viene danneggiata dall’intensificazione agricola e dall’efficienza produttiva.

Per biodiversità si intende la varietà di specie, animali o vegetali, che abitano un dato ecosistema. Chiaramente lo sviluppo dell’agricoltura tende a impoverirla, dato che sostituisce ecosistemi complessi con superfici su cui cresce solo una varietà vegetale. Ma, come spiegato prima, consumare solo prodotti provenienti da territori vicini significa doversi procurare più terra coltivabile: l’agricoltura intensiva è meno dannosa per la biodiversità rispetto all’agricoltura di prossimità, tanto in voga tra gli ambientalisti.

La biodiversità agricola invece è la varietà di specie, animali e vegetali, che coltiviamo o alleviamo per soddisfare il nostro fabbisogno di cibo, e qui il discorso si fa più complesso. Tutte le varietà che coltiviamo sono il frutto di una selezione genetica operata dall’uomo nel corso di millenni. Per questo la biodiversità agricola è in costante evoluzione, adattandosi in ogni epoca ai bisogni dell’umanità. Ma questo non significa che oggi sia meno ricca che in passato: se a Pachino oggi si può coltivare il celebre pomodorino a grappolo non lo si deve alla faticosa opera di recupero di antiche varietà da parte degli agricoltori locali, ma al lavoro di una multinazionale biotech israeliana che ha “inventato” quel tipo di pianta, individuando poi nel territorio della Sicilia sudorientale il territorio ideale per la sua coltivazione. Altrimenti anche lì, come ovunque, coltiverebbero ancora pomodori insalatari a buccia spessa.

Il caso di Pachino dimostra proprio come la ricerca dell’efficienza (la varietà giusta coltivata nella zona giusta) possa arricchire sia la biodiversità agricola che le tasche degli agricoltori, venendo incontro ai bisogni del mercato prima che a quelli dei eurocrati agricoli.

C’è un’altro aspetto che viene spesso citato in difesa dell’agricoltura di prossimità: i trasporti su lunga distanza, si dice, sarebbero all’origine dell’emissione di grandi quantità di CO2 che potremmo risparmiare consumando cibo prodotto più vicino a noi. Questa considerazione è però completamente sbagliata, perché prescinde dal fatto che l’energia impiegata nel trasporto su lunghe distanze è venti volte inferiore a quella impiegata per le fasi della produzione. Quindi si risparmia molta più energia, e di conseguenza si produce meno CO2, producendo fragole in California, per usare l’esempio precedente, e trasportandole in Ontario, piuttosto che pretendendo di fare tutto vicino casa. Se si volesse discutere seriamente dell’abbattimento delle emissioni legate alla produzione di cibo, il primo passo dovrebbe essere la rimozione di qualsiasi tipo di barriera commerciale.

Per approfondire questo tema consiglio vivamente il paper dal titolo “Yes We Have No Bananas: A Critique of the ‘Food Miles’ Perspective” di Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu, per Mercatus Center at George Mason University.

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Nuova PAC: a capofitto verso il 2013 /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/ /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/#comments Sun, 21 Nov 2010 11:46:52 +0000 Giordano Masini /?p=7647 Prendo spunto da un post pubblicato su Agricoltura24 che riprende a sua volta un articolo di Terra e Vita e che mi sembra dare, fino a questo momento, il quadro più completo degli indirizzi proposti per la nuova Politica Agricola Comune post 2013. Ho sempre pensato che la PAC sia uno strumento perverso e tendenzialmente criminogeno, per le gravi distorsioni che induce nel mercato agroalimentare. Ma dalle proposte che circolano oggi, a mio avviso la PAC sta prendendo una strada del tutto insensata, iniqua e controproducente anche rispetto alle stesse intenzioni dichiarate dai suoi sostenitori, e rischia di essere la pietra tombale per l’agricoltura europea. In questo post (forse un po’ lungo) proverò a spiegare perché.

Dai primi orientamenti si comprende che alcune scelte della nuova Pac sono inevitabili, come la soppressione dei pagamenti storici. In tutti i documenti emergono due nuovi temi: la remunerazione dei beni pubblici e gli strumenti per contrastare l’instabilità dei mercati.

Non tutti possono aver chiaro, ovviamente, cosa significhi “remunerazione dei beni pubblici”. Con questa denominazione, inserita nella PAC all’inizio del nuovo millennio, si pretende che gli agricoltori, oltre a mettere sul mercato prodotti agroalimentari e trarre profitto da questa attività, producano anche beni che avrebbero valore per la collettività, ma che non sarebbero remunerati adeguatamente sul mercato: paesaggio agrario, presidio territoriale, biodiversità, lotta al cambiamento climatico, conservazione dell’ambiente, sviluppo rurale, salubrità degli alimenti, benessere degli animali.

Sulla base di questo principio (la cui arbitrarietà e scarsa fondatezza è evidente anche a un bambino) la PAC è stata, ormai quasi un decennio fa, suddivisa in due pilastri: da una parte gli aiuti diretti, destinati a sostenere il reddito dell’agricoltore, dall’altra i cosiddetti aiuti allo sviluppo, focalizzati da una parte a sostenere lo sviluppo delle aziende e dall’altra a premiare quei comportamenti e quelle pratiche agricole in grado di produrre “beni pubblici”. Per esempio, se in Europa le autorità pubbliche possono finanziare le aziende agricole biologiche ma non le compagnie aeree lo si deve proprio al fatto che, secondo i tecnocrati di Bruxelles, Almaverde Bio produce beni pubblici ed Alitalia no.

Ora, il primo pilastro della PAC sembra avere un problema: il sistema in base al quale è stato calcolato il premio che ogni azienda riceve, e sul quale non mi dilungo, ha prodotto delle differenze inaccettabili tra paese e paese e deve essere superato: attualmente l’Italia percepisce mediamente 300 euro/ha, mentre la Grecia percepisce 600 euro/ha e la Romania soltanto 40 euro/ha.

Il dibattito su questo tema è molto acceso e, per trovare un equilibrio tra le varie posizioni, è probabile che i pagamenti diretti potrebbero essere rimodulati in più componenti:

  • una parte (ridotta rispetto ai livelli attuali, ad esempio 100-200 euro/ettaro) erogata a tutti gli agricoltori;
  • una parte riservata alle zone con svantaggi naturali, ad esempio la montagna e le zone svantaggiate; a tal proposito, c’è la proposta di portare le indennità compensative dal 2° al 1° pilastro;
  • una parte, selettiva, in funzione del fabbisogno di lavoro o del valore aggiunto o di specifici comportamenti orientati alla fornitura di beni pubblici ambientali.

Sembra, quindi, che la produzione di questi fantomatici beni pubblici debba diventare un criterio per indirizzare, oltre agli aiuti allo sviluppo, anche i fondi che dovrebbero servire al sostegno del reddito, quello uguale per tutti. Ma se una quantità così rilevante di soldi dei contribuenti europei dovrà essere spesa in questa direzione, sarebbe giusto chiedersi se e come, al di là dei luoghi comuni, questi beni pubblici portino qualche vantaggio alla salute e all’ambiente (anche se basterebbe il fatto che nessuno sembra disposto a pagare di tasca sua per essi, ma si sa, c’è sempre chi è in grado di scegliere per noi meglio di noi)

Se parliamo di agricoltura biologica, non esiste un solo studio scientifico serio (e si sono dati da fare per cercarlo) in grado di dimostrare che nutrirsi di alimenti biologici rechi qualche beneficio per la salute, mentre per quanto riguarda l’ambiente, è di un’evidenza lapalissiana che fornire all’umanità il fabbisogno di cibo con tecniche scarsamente produttive come quella biologica comporterebbe l’impiego di una quantità enorme di superficie agricola, oggi occupata da praterie e foreste.

Anche dal punto di vista del contenimento delle emissioni, è l’agricoltura intensiva che produce i migliori risultati, come ho avuto già modo di argomentare citando un autorevole studio di PNAS, e per quanto riguarda il presidio territoriale e la tutela del paesaggio agrario (anche questi sono concetti strani da capire: per quale ragione il paesaggio rurale attuale dovrebbe essere migliore di quello passato e di quello futuro?) è solo un’azienda agricola competitiva e orientata al profitto ad avere interesse a continuare a lavorare la terra, invece che abbandonarla e sostenersi solo con i sussidi (non è un’ipotesi, è quanto sta accadendo).

Quindi, una PAC seria dovrebbe, avendo a cuore l’ambiente, premiare l’agricoltura intensiva, l’uso delle biotecnologie, la ricerca del profitto. E’ ovvio che per premiare questi comportamenti la maniera migliore sarebbe quella di eliminare completamente i sussidi, incentivando i produttori a perseguire l’efficienza. Premiare e sostenere comportamenti opposti è completamente demenziale, oltre ad essere uno spreco intollerabile di denaro pubblico.

Per quanto riguarda invece la “stabilizzazione dei mercati”, questi sono gli orientamenti che emergono dal summenzionato articolo:

In molte proposte emerge una nuova richiesta per la Pac: il contrasto all’instabilità dei mercati e il miglioramento della posizione degli agricoltori nella filiera agroalimentare. Gli strumenti della vecchia politica di garanzia (prezzi garantiti, dazi, sussidi all’esportazione, ammasso pubblico, quote, set aside, ecc.) hanno mostrato tutti i loro limiti e non sono più applicabili nella prospettiva futura. Tuttavia l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi e dei mercati rimane ancora attuale. Anziché la vecchia politica di garanzia, si richiede di favorire gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori agricoli, attraverso la concentrazione dell’offerta, il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti tramite la cooperazione, l’associazionismo, l’interprofessione.

Il fatto che si ribadisca l’inutilità di quegli strumenti perversi utilizzati fin ora per stabilizzare (forse sarebbe più corretto dire “distorcere”) i mercati è senz’altro positivo. Preoccupa però il fatto che si continui a ritenere l’apertura dei mercati come un pericolo da cui proteggersi, e sono inquietanti gli strumenti di cui l’UE vorrebbe dotarsi per perseguire tale risultato.

Ci sono fin troppe evidenze che dimostrano come i prezzi di quei prodotti che vengono scambiati sui grandi mercati internazionali siano molto più stabili di quelli che da questi mercati vengono esclusi, quindi l’idea che l’agricoltura di prossimità e “il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti” possa portare qualche beneficio è completamente sballata. Sarebbe meglio che ci si concentrasse sulle opportunità per le aziende agricole di affacciarsi con i loro prodotti sui mercati emergenti e lontani, piuttosto che forzarle a rimanere ancorate ad un desolante status quo.

Se è vero come è vero che il prezzo di un prodotto tiene conto di tutti i costi di produzione, la tendenza a localizzare tutte le produzioni rinunciando all’efficienza di produrre su terreni e a climi vocati e vendere ovunque ci sia domanda rappresenta un violento colpo di zappa sui piedi della nostra agricoltura, soprattutto nel momento in cui le produzioni agricole di altri grandi paesi, come Cina, India e Brasile, cominciano a volare, e non, come recita la vulgata, a causa del basso costo del lavoro (altrimenti dovevano volare anche negli scorsi decenni) ma proprio grazie alle biotecnologie, all’intensificazione e all’apertura al mercato globale. Un esempio per tutti: negli ultimi 10 anni il Brasile ha triplicato il proprio export agroalimentare, la sua produzione agricola è cresciuta del 79% con un incremento della superficie utilizzata limitato al 28%.

Per quanto riguarda poi gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori (leggi: i consorzi potranno intervenire sui mercati regolando l’offerta, al fine di indurre un aumento dei prezzi) basterebbe la triste esperienza del vino italiano (e francese), che con metodi del genere si sta progressivamente autoescludendo dal mercato mondiale a far desistere da simili proponimenti. Perché si tende a dimenticare che qualsiasi consumatore, sia esso un consumatore finale o un trasformatore, reagisce a questi meccanismi orientando altrove le sue scelte, e in tempi di mercati globalizzati le alternative non mancano. Se il protezionismo è un errore lo è sempre, ed è inutile e controproducente farlo uscire in pompa magna dalla porta per farlo rientrare, in silenzio e sotto mentite spoglie, dalla finestra.

Per finire, ed è il dato forse che preoccupa di più, nella nuova PAC post 2013 aumenteranno a dismisura quelle voci di spesa in cui è indispensabile il ruolo attivo degli intermediatori pubblici e parapubblici (checché se ne dica sono loro i veri beneficiari della PAC, e che siano loro stessi a disegnarne gli indirizzi forse aiuta a capire ciò che sta succedendo), come le associazioni professionali. Quando si parla di cooperazione, associazionismo, e interprofessione non si intende altro. E il fatto che anche i fondi del primo pilastro della PAC, quello degli aiuti diretti, verranno distribuiti secondo criteri sempre più discrezionali e meno automatici non fa che confermare questa tendenza costosa e perversa.

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Ogm: Coldiretti scrive, le regioni ci mettono la firma /2010/10/26/ogm-coldiretti-scrive-le-regioni-ci-mettono-la-firma/ /2010/10/26/ogm-coldiretti-scrive-le-regioni-ci-mettono-la-firma/#comments Tue, 26 Oct 2010 07:58:53 +0000 Giordano Masini /?p=7388 Alle scuole elementari la mia maestra diceva spesso che quando copiavamo dovevamo almeno riuscire a non farci beccare: “cambiate qualche parola qua e là”, diceva, “sennò si capisce…”. Non lo sapevano evidentemente gli assessori all’agricoltura della Conferenza delle Regioni il cui ultimo documento, quello in cui si chiede che l’Italia applichi un’inapplicabile (secondo il diritto comunitario) clausola di salvaguardia per le colture e la ricerca Ogm, sarebbe stato scritto direttamente da Coldiretti, il sindacato che ha fatto dell’avversione alle biotecnologie e del ritorno al protezionismo commerciale una ragione di vita: “La firma Coldiretti è verificabile con qualsiasi personal computer andando a leggere la proprietà del documento” rivela Italia Oggi.

Alessandro Palmacci è il dirigente che si occupa di agricoltura, trasporti e turismo nella segreteria della Conferenza delle Regioni. 

Proviamo a immaginare, per capirsi, che razza di (giusto) baccano si sarebbe sollevato se la disciplina sugli Ogm fosse stata scritta da Monsanto o quella sull’energia da Exxon. Si attendono spiegazioni da parte di Coldiretti e, soprattutto, da parte degli assessori regionali. La prossima volta fate un piccolo sforzo: ditelo almeno “con parole vostre”.

(Crossposted @Libertiamo.it)

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Ogm: in nome di una legge che non c’è /2010/10/19/ogm-in-nome-di-una-legge-che-non-ce/ /2010/10/19/ogm-in-nome-di-una-legge-che-non-ce/#comments Tue, 19 Oct 2010 08:56:36 +0000 Giordano Masini /?p=7327 La proposta della Commissione Europea di lasciare agli stati membri la libertà di decidere ognun per sé se ammettere o meno le coltivazioni Ogm sembra trovarsi di fronte a una strada sempre più in salita. Dopo i pareri negativi espressi un po’ da tutti in giro per l’Europa  ora arrivano le prime prese di posizione ufficiali: i ministri dell’ambiente dell’UE si sono riuniti la scorsa settimana a Bruxelles e hanno votato a larghissima maggioranza (solo l’Olanda era a favore) contro la proposta, Italia compresa. Particolarmente dura è stata la posizione di Francia e Germania.

Il lato buffo della vicenda è che la nostra Conferenza delle Regioni, con il documento approvato il 7 ottobre, si rifà paradossalmente a una legislazione che non c’è, e che forse non ci sarà mai, ignorando quella in vigore:

Vista la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni sullalibertà per gli Stati membri di decidere in merito alla coltivazione di colturegeneticamente modificate (COM (2010) 380 def.);
vista la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul loro territorio (COM (2010)375 def.);
(…)
preso atto che l’Unione Europea intende ammettere la possibilità per i Paesi membri di vietare la coltivazione di OGM e che una tale opzione sussiste per il nostro Paese;
(…)
La coltivazione di OGM va valutata, oggi, alla luce di un nuovo quadro di riferimento, costituito dalla Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni sulla libertà per gli Stati membri di decidere in merito alla coltivazione dicolture geneticamente modificate; dalla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto concerne lapossibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul loroterritorio;

Può essere utile ricordare che l’approvazione delle linee guida per la coesistenza tra colture Ogm, convenzionali e biologiche, che la Conferenza delle Regioni continua a trascurare, è un passaggio necessario anche per sbloccare i test in campo aperto sugli Ogm, senza i quali la nostra ricerca biotech, anni fa all’avanguardia, è costretta a stare alla finestra.

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Ogm: la Conferenza delle Regioni e la dittatura della maggioranza /2010/09/30/ogm-la-conferenza-delle-regioni-e-la-dittatura-della-maggioranza/ /2010/09/30/ogm-la-conferenza-delle-regioni-e-la-dittatura-della-maggioranza/#comments Thu, 30 Sep 2010 17:19:16 +0000 Giordano Masini /?p=7177 Mentre è già arrivata (ieri pomeriggio) la trebbia mandata dal Gip di Pordenone a raccogliere il mais del campo di Fanna di proprietà di Giorgio Fidenato (il racconto di Giorgio è sul sito del Movimento Libertario), mais che è stato essiccato e verrà custodito in un magazzino in attesa che si concluda l’iter giudiziario, oggi si sono riuniti gli assessori all’agricoltura della Conferenza delle Regioni e hanno ribadito che loro di linee guida per la coesistenza tra colture Ogm, biologiche e convenzionali non vogliono proprio sentir parlare, nonostante l’approvazione di queste linee guida sia necessaria per adempiere alle direttive comunitarie.

In realtà nei mesi scorsi una bozza di regolamento era stata presentata: le associazioni di categoria (tra le quali figurava, non si sa bene per quale ragione, anche Legambiente) l’hanno ricevuta il 16 di luglio perché presentassero le loro osservazioni in merito entro il 20 dello stesso mese (!). Il documento era abbastanza surreale, dato che si parlava solo di Ogm (nonostante dovesse tracciare le linee guida per la coesistenza di tre tipi di pratica agricola tutte egualmente legittime) e perché in realtà si preoccupava di vietare, in modo più o meno surrettizio, più che di disciplinare.

Distanze di sicurezza per il mais calcolate in chilometri (in Europa si arriva attorno ai 150 metri, in Spagna zero), corsi e patentini da conseguire, piani e registri aziendali da compilare, tasse regionali da pagare, e questo solo per la parte burocratica. Poi, andando avanti, (e ne tralascio molte) sarebbe previsto l’obbligo di usare macchinari e magazzini appositi dedicati esclusivamente agli Ogm e di rispettare un periodo di conversione di tre anni per chi volesse tornare dagli Ogm al convenzionale (anche semplicemente per normali cicli di rotazione colturale) nei quali il prodotto dovrebbe essere sottoposto ad analisi prima della commercializzazione, sarebbe considerato convenzionale ma dovrebbe rispettare le prescrizioni per gli Ogm.

E non è finita: le sanzioni per chi omettesse di seguire anche solo una di queste regole sarebbero calcolate nell’ordine delle decine di migliaia di euro, e, chicca finale, gli agricoltori che fossero tanto impavidi da cercare di seguire un regolamento del genere apparirebbero in un registro pubblico consultabile online, in modo da poter essere meglio individuati dagli amici di Zaia e di Greenpeace.

Il giochino del documento presentato all’ultimo momento non deve essere riuscito, qualcuno le sue osservazioni critiche deve essere riuscito a mandarle in tempo, quindi la Conferenza delle Regioni, nonostante la fretta iniziale, è andata avanti di rinvio in rinvio sperando che la cosiddetta direttiva Barroso, quella che consentirebbe ad ogni paese membro dell’UE di decidere in autonomia se ammettere o vietare gli Ogm, arrivasse in tempo per togliere le castagne dal fuoco. Ma la direttiva ancora non arriva, anzi aumentano su di essa le perplessità di quasi tutte le parti in causa a livello europeo, dato che in ballo c’è il rischio di dar vita ad un’Europa agricola a due velocità, e quindi oggi la Conferenza delle Regioni qualcosa doveva pur dire.

Abbiamo votato un ordine del giorno attraverso il quale chiediamo al ministro delle Politiche agricole di esercitare la clausola di salvaguardia ai sensi dell’articolo 23 della direttiva europea 18 del 2001.

La clausola di salvaguardia è ammessa solo in caso di evidenze scientifiche che dimostrerebbero la nocività di un prodotto per la salute umana o per l’ambiente, sembra dimenticare Dario Stefano, assessore all’Agricoltura della Puglia e coordinatore della Commissione agricoltura della Conferenza delle regioni, che continua

Allo stesso tempo abbiamo richiamato il ministro e quindi il governo a rispettare la posizione delle Regioni italiane, che hanno la delega all’Agricoltura, che è unanimemente contraria alla produzione di Ogm.

Evidenziando quindi come le dilazioni e i tatticismi dei mesi scorsi servivano solo ad uno scopo, riuscire a vietare anche in presenza di un diritto comunitario che non consentirebbe di vietare, ma solo di disciplinare. In tutto ciò le parole di buon senso di Galan, ribadite anche oggi nel question time a Montecitorio, sembrano essere destinate a rimbalzare su un muro di gomma: il principio secondo il quale una maggioranza sarebbe legittimata a mortificare le libertà fondamentali degli individui, arrivando a stabilire ciò che è legittimo e ciò che non è legittimo produrre (basandosi esclusivamente su valutazioni di carattere economico, e come tali assolutamente arbitrarie) sembra essere ormai sufficientemente consolidato.

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Un drappello di disorientati /2010/09/21/un-drappello-di-disorientati/ /2010/09/21/un-drappello-di-disorientati/#comments Tue, 21 Sep 2010 07:53:22 +0000 Giordano Masini /?p=7096 Agea è l’ente che si occupa delle erogazioni in agricoltura, ovvero è attraverso di esso che passano i contributi e i sussidi che gli agricoltori ricevono, ed è esso che deve vigilare sull’applicazione delle regole comunitarie. Secondo il suo presidente, Dario Fruscio, il governo e la politica dovrebbero intervenire per tirare fuori dai guai quei pochi allevatori che si ostinano a non aderire al piano di rateizzazione delle multe per gli sforamenti delle quote latte. D’altronde, si commuove Fruscio, la stragrande maggioranza ha già pagato (ci manca poco che non li definisca dei fessi), solo loro insistono a non volerlo fare, ma sono in pochi (“residuali dal mero punto di vista numerico” dichiara testualmente), al governo cosa costa? Suvvia, mettiamoci una mano sul cuore e l’altra al portafogli dei contribuenti, questa è gente che ha famiglia… Ma il più bello viene dopo (grassetti nostri):

Mi risulta che già soltanto con l’annuncio dell’emendamento poi tradottasi nell’art. 40 bis della L. n. 122/2010, si è innescato un forte e progressivo rallentamento nelle adesioni alla L. 33/2009. Voglio dire che l’iniziativa per il rinvio della scadenza di giugno ha prodotto, fin dall’inizio, una sorta di stop agli effetti della legge 33. E a questo punto, a meno di interventi legislativi dell’ultimo momento, su questo drappello di disorientati calerà una pioggia di notifiche di nuove intimazioni di pagamento, con anche l’avvio delle procedure per la revoca delle quote latte assegnate. Evidentemente, ancora una volta come dispone la L. 33/2009, quanti non riusciranno a far fronte alle richieste di pagamento di Equitalia, si troveranno in piena procedura esecutiva, con rischio di perdita d’ogni cosa: in primis della fiducia in chi li ha distolti dalla loro linearità contadina e dalla loro cultura e abitudine al rispetto delle leggi; poi rischieranno la perdita anche dei loro beni.

Ovvero, la deroga imposta in finanziaria dalla Lega Nord al termine di giugno per l’adesione alle rateizzazioni (che già comporterà per l’Italia una procedura d’infrazione che pagheremo noi) ha rallentato l’adesione alle rateizzazioni stesse. Ma va? Chi l’avrebbe mai detto? Ma dato che alla fine dell’anno saremo di nuovo daccapo, se non facciamo qualcosa c’è rischio che questi poveri “disorientati” smettano di dar retta a chi continua ad alimentare le loro speranze (e non sarebbe ora?). Il finale è degno di un romanzo d’appendice:

Io continuo, anzi voglio continuare a sperare che chi ne ha facoltà possa lavorare fattivamente nella prospettiva di risolvere il caso. In sostanza che la politica voglia trovare per questo drappello di brava e laboriosa gente una via d’uscita. Diversamente sarà il dramma. Dietro questi produttori ci sono migliaia di famiglie, le quali si traducono in chissà quant’altre decine di migliaia di portatori di speranze e di angosce. Chi più può, chi ha più sensibilità, amore e rispetto per la proprietà contadina e per il mondo rurale, più fortemente dovrà sentirsi impegnato a togliere da tale possibile baratro una parte così significativa del mondo rurale. E’ uno sforzo riparatorio di generosità che la politica deve alla “gente della terra”, indipendentemente da posizioni e divisioni politiche e da più o meno responsabilità di ciascuna parte rispetto alla gravità della questione.

Fruscio (che è alla guida di un agenzia tecnica, che dovrebbe astenersi quindi da dare indicazioni politiche – ma questo è un aspetto marginale, secondo me ognuno può dire la sua e va contestato nel merito) sembra dimenticare che qualsiasi intervento legislativo nella direzione da lui auspicata, qualsiasi “sforzo riparatorio” comporterebbe all’Italia ulteriori procedure di infrazione, così come sembra ignorare che in vent’anni queste procedure di infrazione sono costate ai cittadini del nostro paese circa 4 miliardi di euro (a fronte di circa 300 milioni effettivamente recuperati).

Nel frattempo, qualcuno potrebbe chiedergli su chi dovrebbero riporre la loro fiducia le decine di migliaia di allevatori (la stragrande maggioranza) che in questi anni si sono dovuti adeguare ad un sistema iniquo in sé, quello delle quote latte, ma che finché è in vigore non può ovviamente fare figli e figliastri, e hanno pagato le loro sanzioni. Ma probabilmente loro non “tengono famiglia”…

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Tagli lineari e preferenza ‘L’ /2010/09/14/tagli-lineari-e-preferenza-l/ /2010/09/14/tagli-lineari-e-preferenza-l/#comments Tue, 14 Sep 2010 13:23:12 +0000 Giordano Masini /?p=7036 Ho ripreso i contatti con una mia vecchia amica, L., con la quale è in corso un’interessante scambio di mail nelle quali ci stiamo raccontando ciò che ci è successo nei lunghi anni in cui non siamo stati in contatto e, dato che, ognuno a modo suo, non riusciamo a tenere fuori le valutazioni generali dalle vicende personali, la discussione finisce spesso “in politica”, ambito nel quale abbiamo visioni radicalmente divergenti. Per fortuna siamo entrambe persone curiose, tolleranti e reciprocamente convinte della buona fede dell’interlocutore, quindi ne è venuta fuori una discussione stimolante della quale voglio riportare qualche spunto.

Qualche giorno fa, mentre si parlava di mercato del lavoro, ho menzionato le cosiddette “categorie protette”, e la sua reazione, come mi aspettavo, è stata piuttosto risentita. Mi scrive che se mi riferisco al pubblico impiego, settore di cui L. fa parte, non le sembra che se la stiano passando troppo bene, e mi porta a conferma qualche dato personale a riprova dell’assunto.

Dunque, L. fa l’assistente sociale in un municipio (non ricordo quale) di Roma. Il lavoro che fa L. (nel modo in cui lo fa L) è un lavoro utile e necessario. Perché i servizi sociali fanno parte di ciò che la pubblica amministrazione deve garantire. E’ anche un lavoro produttivo, nel senso che ciò che L. offre alla comunità ha grande valore, e perché il lavoro che fa L. non lo può fare chiunque. Bisogna studiare, e parecchio, avere spalle larghe e stomaco di ferro, oltre a un’innata e non comune dose di sensibilità. A naso mi verrebbe da dire che il lavoro che fa L. dovrebbe essere pagato a peso d’oro, e che probabilmente molti si dovrebbero contendere la sua professionalità.

Eppure L. guadagna quattro lire, le sue possibilità di fare carriera sono pressocché nulle, e con 46 anni e una discreta anzianità di servizio ancora non riesce a permettersi una casa nella città in cui vive. Mi scrive:

E io sono una fortunata: ho una madre che ha a sua volta una casa di proprietà e che mi vuole abbastanza bene per sacrificarsi a 75 anni per amor mio a cambiare casa ancora una volta. In questo sono nello stesso vergognoso, umiliante sistema che mi addolora vedere nei miei utenti: siamo un mondo che dipende dalle generazioni precedenti; siamo una generazione che sembra non riesca mai a raggiungere l’autonomia, l’autosufficienza; siamo una generazione senza dignità. E non si può proprio dire che sia una scelta.

Il problema è che nello stesso edificio in cui lavora L. (e in altre centinaia di edifici del genere sparsi per Roma e per l’Italia) ci sono tante altre persone (non oso azzardare una cifra) che per lo stesso stipendio di L. svolgono mansioni assai meno utili e produttive. Tanto per fare un esempio, se il lavoro di L. valesse 10, e quello delle quattro signore che siedono stancamente al protocollo valesse 5, e guadagnano tutte 6, sarebbe evidente che L. paga 1/6 dello stipendio delle quattro del protocollo, mentre loro le sottraggono quasi metà dello stipendio.

Viene tolto (ope legis, vedi CCNL) valore al lavoro di L. in modo che il danaro che le spetterebbe possa fare acquisire valore alle mansioni di altri. Passano gli anni, e la situazione, invece di migliorare, peggiora. La competenza di L. viene sempre più svilita, il suo carico di lavoro diviene sempre più pesante e ci sono sempre meno fondi a disposizione per le cose di cui si occupa. Neanche le condizioni di vita dei colleghi degli altri uffici migliora, ma il problema è comunque alla radice, perché quella dignità che L. lamenta di non avere ancora raggiunto in realtà ce l’ha, eccome, è roba sua, conquistata con la sua competenza, professionalità e con l’alta produttività delle mansioni che svolge. Ma le viene regolarmente rubata.

Le cose potrebbero migliorare (ce lo siamo ripetuti fino alla nausea) se si decidesse di affrontare la cosa una volta per tutte: questo non significa necessariamente licenziare una valanga di dipendenti pubblici (cosa che in qualche caso potrebbe anche servire – ne parlava giorni fa Giulio Zanella su nFA), ma più semplicemente la pubblica amministrazione dovrebbe gestire meglio le risorse umane e rivedere le sue priorità: ci sono cose che la pubblica amministrazione deve fare, e bene, altre che sono meno necessarie, altre ancora che non lo sono affatto. Finché ci saranno casi di mansioni create appositamente per impiegare del personale (scavate le buche, poi riempite le buche…) e nessuno dovrà prendersi la responsabilità di impiegarlo in maniera produttiva, le risorse per coprire i costi di queste mansioni le fornirà L., come una tassa nascosta e vigliacca.

Tutto ciò mi porta a due conclusioni: primo, quando si parla di “categorie protette” sarebbe bene ricordare che il costo di questa protezione non lo pagano solo coloro che stanno fuori da queste categorie, ma che all’interno di uno stesso settore c’è chi paga per gli altri. Secondo, e diretta conseguenza del primo: quando, come di questi tempi, si fanno i cosiddetti “tagli lineari” o “tagli orizzontali”, chiamateli come volete, non si risolve un fico secco, anzi, il costo di questi tagli verrà pagato sempre e comunque dalle persone sbagliate, almeno fino a che non si deciderà di prendere il toro per le corna pagandone anche, se è il caso, lo scotto elettorale nel breve periodo.

Se si continua a ritenere che la soluzione ai problemi della pubblica amministrazione sia quello di agire semplicemente e semplicisticamente sul rubinetto, senza mai porsi il problema della direzione del getto, non si uscirà mai dal meccanismo che ci conduce inesorabilmente verso quella preferenza ‘L’ (dove ‘L’ non è più l’iniziale della mia amica, ma la preferenza low, contrapposta ad high) di cui parlava efficacemente Oscar Giannino nel suo post l’altroieri. Perché tagliando la spesa “ad minchiam” continueremo a caricare sulle spalle di L. il costo delle mansioni delle signore del protocollo, la cui reale produttività nessuno si prenderà mai la briga di controllare, e che continueranno a sedere proprio sotto il getto del rubinetto, lasciando agli altri solo gli schizzi. Il lavoro di L. sarà sempre meno gratificante, avrà sempre meno risorse a disposizione, sarà fatto inesorabilmente sempre peggio in un meccanismo che compensa con nuovi costi (che derivano da servizi necessari fatti male) l’eventuale risparmio per le casse dello Stato. Risparmio che il prossimo Visco di turno potrà comunque vanificare agendo di nuovo, semplicemente, sul rubinetto.

E scoraggeremo sempre di più ragazzi e ragazze dal ricercare nello studio e nelle professioni la preferenza ‘H’ che L. inseguiva quando studiava con passione e si lanciava nel mondo del lavoro con l’entusiasmo e la dedizione che le ricordo. A conti fatti, anche se so che L. non sarà d’accordo, non ne valeva la pena.

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Ogm: l’Unità batte un colpo. E il PD? /2010/08/24/ogm-lunita-batte-un-colpo-e-il-pd/ /2010/08/24/ogm-lunita-batte-un-colpo-e-il-pd/#comments Tue, 24 Aug 2010 09:01:17 +0000 Giordano Masini /?p=6839 Ieri l’Unità ha ospitato un bell’intervento sugli Ogm di Sergio Bartolommei, docente all’Università di Pisa e membro del consiglio direttivo della Consulta di Bioetica, che spicca per chiarezza e concretezza già a cominciare dal titolo, “Quel luddismo che cresce nei campi“. Bartolommei afferma:

La distruzione di un campo di pannocchie in Friuli è stata sostenuta da un argomento che è diventato un po’ il cavallo di battaglia degli avversari del transgenico: gli Ogm minacciano «l’identità agroalimentare italiana», «la nostra agricoltura non si tocca», «l’identità dei prodotti tipici non è in svendita». L’argomento legittima una sorta di neo-autarchia agricola evocatrice di altri e discutibili appelli a italici “primati” e autosufficienze. Gli resta forse un fascino retorico, ma è razionalmente insostenibile. Il concetto di “identità agricola nazionale” è vago o vuoto.

Effettivamente, da quando il dibattito sugli Ogm e le biotecnologie si è spostato dal piano della sicurezza ambientale e alimentare a quello della sostenibilità economica di diversi “modelli” di agricoltura (ormai sono rimasti in pochi a sostenere che un Ogm possa far male a qualcuno o a qualcosa), è sempre più chiaro che la contreversia non è più scientifica, ma tra scienza e ideologia, ed è un indiscutibile merito di Bartolommei quello di chiamare quell’ideologia, proprio sull’Unità, con il suo nome di battesimo: luddismo.

Sono sempre di più quelli che nel PD si dimostrano insofferenti per la riproposizione ossessiva di concetti suggestivi, ma vaghi e privi di significato. Proprio oggi Sergio Chiamparino, in un’intervista al sole24ore, si chiede “perché mai una persona di sinistra deve essere a favore della ricerca sulle staminali, ma non a quella sugli Ogm“, per non parlare di Umberto Veronesi, che si è dichiarato senza tanti giri di parole “un grande sostenitore dell’utilizzo delle conoscenze genetiche per tutte le attività umane, comprese quelle agricole“.

Cosa dicono il Partito Democratico e i suoi dirigenti sull’argomento? Ne avevamo parlato qualche tempo fa, in occasione della presentazione di un documento del Forum Agricoltura del partito in cui si ribadiva la posizione contraria del PD all’introduzione degli Ogm in Italia, e proprio per le ragioni che paiono tanto ridicole a Chiamparino, Bartolommei e Veronesi. Il fatto però che ci sia un dibattito aperto è cosa buona e giusta. Sui tempi di soluzione della questione, siamo abituati a rispettare i bioritmi del PD, e a pazientare.

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