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Detassazione utili reinvestiti – Quando perserverare è diabolico

28 giugno 2009

E tre. Se non erro è la terza volta che il nostro ministro dell’Economia ci propina la superba idea della detassazione degli utili reinvestiti. La prima fu nel 1984, la seconda nel 2001 (ma accetto volentieri correzioni a riguardo).
E giù un coro di applausi. Non ho letto molto i giornali in questi giorni ma non mi sembra di aver trovato grosse critiche a questo provvedimento. Anzi.
Ma che bravo il nostro ministro che ancora una volta viene in soccorso delle boccheggianti aziende nostrane.
In effetti detassare gli utili, come ci hanno ricordato anche gli Industriali, sembra davvero un’idea nobile, difficile da sottoporre a vagli severi. Tutti d’accordo sul fatto che le aziende hanno difficoltà a reperire finanziamenti, soprattutto di natura bancaria. Ne consegue che questa tolleranza nel ticket fiscale delle imprese giunge come una boccata d’ossigeno nel mefitico cielo che ci circonda.
Peccato che ancora una volta, sulle orme del beneamato Bastiat, occorra ricordare che le conseguenze delle scelte politiche sulla vita aziendale andrebbero esaminate nel breve e nel lungo periodo, vicino al naso ma anche oltre il naso.
La detassazione degli utili in tal senso è un caso da manuale.
Chi si intende anche un pò di finanza aziendale sa benissimo che esiste una “gerarchia delle fonti di finanziamento” che gli imprenditori sempre seguono nella copertura dei loro investimenti. Si tratta di una bella teoria – formalizzata da Stewart Myers nel 1977 ma in realtà risalente agli anni ‘60 e agli studi Gordon Donaldson – secondo la quale, quando si tratta di effettuare nuovi investimenti, gli imprenditori coprono tale fabbisogno secondo la seguente ‘classifica’:
1) innanzututto, utilizzano il denaro in cassa (autofinanziamento);
2) se ciò non basta, bussano alla porta delle banche (capitale di debito);
3) se il denaro complessivamente raccolto ancora non è sufficiente, mettono mano al proprio portafoglio oppure aprono il capitale a nuovi soci (aumento di capitale).
Naturalmente, tra i vari passaggi, si lasciano sempre aperta la porta dell’abbandono dell’investimento.
La detassazione degli utili equivale di fatto a favorire l’autofinanziamento delle aziende. Cioè a dire che si incentiva qualcosa che non ha bisogno di essere incentivato, in quanto già si classifica primo nel “cuore” degli imprenditori.
Morale della favola: ‘drogare’ l’autofinanziamento vuol dire spingere spesso le aziende a fare investimenti che altrimenti non farebbero, pur di sfruttare il beneficio fiscale. Ancora si ricordano i capannoni sfitti du cui pullulava il Nordo Italia nell’84.
La finanza non deve agevolare gli investimenti, deve disciplinare il comportamento delle aziende. E’ uno scudiscio, non un cuscino.
Intendere invece la finanza in senso buonistico vuol dire spingere le aziende a sovrainvestire e ad effettuare investimenti spesso non strettamente necessari.
Cosa possiamo attenderci nel giro di pochi anni? Una presumibile diminuzione della redditività delle imprese (per intenderci i vari indici ROI, ROCE, ROA, e così via). Ricordiamo al nostro ministro e ai tecnici del suo ministero, che da tempo il problema delle nostre aziende è la loro insufficiente redditività media. E che incentivarle ad aumentare il capitale investito diminuisce ulteriormente la redditività (se i nuovi investimenti non generano sufficiente reddito).
Corriamo insomma il rischio che imprese già appesantite e in debito d’ossigeno diventino definitivamente obese.
Errare (due volte) è (forse) umano, perservare è diabolico.

Antonio Salvi Senza categoria

Insider trading – Qualche recente evidenza che ci riguarda

11 maggio 2009

Insieme ad alcuni colleghi dell’Universita’ Bocconi (Maurizio Dallocchio, Stefano Bonini e Marco Garro) abbiamo appena concluso una ricerca sugli annunci di takeover. Piu’ in dettaglio, si e’ trattato di analizzare 156 takeover realizzati nel nostro Paese dal 2001 al 2007.

I risultati sono abbastanza sorprendenti, anche se non del tutto inattesi. L’evidenza mostra infatti che in media 7/8 giorni (lavorativi) prima dell’annuncio il prezzo del titolo della societa’ target del takeover ha cominciato a muoversi prepotentemente verso l’alto. Ora, che il prezzo di una societa’ oggetto di attenzioni ostili aumenti e’ cosa ampiamente nota e scontata nella letteratura e nella prassi. Che l’incremento avvenga prima dell’annuncio lo e’ molto meno.

Vogliamo leggerla in un altro modo? Probabilmente, l’operazione di imminente annuncio esce dalla stanza del CdA - per approdare in quella dei trader – prima del tempo dovuto. Abbiamo certezze al riguardo? No. Qualche sospetto? Tanti, vista la regolarita’ con cui abbiamo potuto osservare tale fenomeno.

Extra rendimenti cumulati societa target pre e post annuncio

Extra rendimenti cumulati societa' target pre e post annuncio

Il grafico allegato fornisce evidenza visiva di tutto cio’. Come infatti si puo’ agevolmente osservare, gli extra-rendimenti del titolo nei 4/5 mesi prima dell’annuncio viaggiano in un corridoio piuttosto deludente. Una settimana (circa) prima dell’annuncio invece le cose cambiano drasticamente e gli extrarendimenti cominciano misteriosamente a crescere verso il prezzo dell’annuncio.

Questa evidenza abbastanza sconcertante e’ pero’ controbilanciata da una buona notizia: al momento dell’annuncio il contenuto innovativo ”residuo” viene correttamente scontato dal mercato,  come testimonia l’andamento quasi piatto del grafico nei giorni successivi all’annuncio.

Personalmente, nel solco tracciato dal grande Pascal Salin in “Liberalismo”, non sono un grande fan delle leggi sull’insider trading. Pero’,  se le leggi esistono occorrerebbe farle rispettare, credo.

Antonio Salvi liberismo, mercato