CHICAGO BLOG » Andrea Giuricin http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Aeroporti tra caos-neve, nazionalizzazioni e pianificazioni /2010/12/23/aeroporti-tra-caos-neve-nazionalizzazioni-e-pianificazioni/ /2010/12/23/aeroporti-tra-caos-neve-nazionalizzazioni-e-pianificazioni/#comments Thu, 23 Dec 2010 11:09:36 +0000 Andrea Giuricin /?p=7895 Rinazionalizzare gli aeroporti? Questa è la proposta shock che circola in Gran Bretagna dopo il fallimento della gestione dell’emergenza neve a Heathrow. L’aeroporto londinese, il piú grande d’Europa, con oltre 66 milioni di passeggeri l’anno, è andato incontro i giorni scorsi ad uno dei blocchi più gravi che si ricordi nella storia dell’aviazione civile. Il maltempo ha colpito un po’ tutta Europa, ma il principale scalo di Londra ha registrato il maggior numero di cancellazioni. British Airways, la compagnia di bandiera britannica, ha annunciato perdite fino a 70 milioni di euro, una cifra quasi tre volte quella denunciata da AirFrance-KLM alle prese con il blocco di Parigi Charles De Gaulle.

London Heathrow è gestito dalla società BAA, controllata dagli spagnoli di Ferrovial. L’antitrust britannico obbligò la vendita di alcuni scali nell’area londinese e chiaramente Ferrovial decise di mantenere il controllo del principale scalo d’Europa.

La società spagnola guidata da Rafael Del Pino si trova al centro delle polemiche, con accuse anche infondate. Tra queste c’è il sottoinvestimento dei privati nell’aeroporto londinese. Questa è una critica strumentale, poiché il livello d’investimenti è circa 6 volte il livello di quello italiano e registra uno dei valori piú elevati al mondo.

Da dove arriva invece il fallimento della gestione dello scalo?

Il problema non deriva dal privato, ma dall’impossibilità dello scalo di continuare ad espandersi.

La costruzione del Terminal 5, dedicato a British Airways, è stato l’ultimo grande investimento effettuato da BAA, ed è stato utilissimo a decongestionare lo scalo.

Infatti London Heathtrow, fino allo scorso anno, aveva una capacità di circa 45 milioni di passeggeri, ma vedeva transitare oltre 60 milioni di passeggeri l’anno.

La conclusione dei lavori del Terminal 5 è stato dunque essenziale, ma un aeroporto non puó funzionare senza piste di atterraggio e decollo; e proprio qui sta la debolezza di Heathrow.

Lo scalo opera con due sole piste, come lo scalo di Milano Malpensa, che tuttavia vede transitare un quarto dei passeggeri di Londra. La costruzione della terza pista è ormai un tabù, poiché non si riesce a trovare un accordo su dove, come e quando costruirla.

Le cittadine intorno allo scalo di Heathrow si sono sempre opposte alla costruzione, che rimane essenziale per operare in condizioni di normalità.

Lo scalo va in sofferenza ogni volta che si crea un’emergenza; certo il numero di spazzaneve poteva essere molto superiore, ma non è un caso, che ogni volta che c’è un evento meteorologico particolare, Heathrow si ferma.

Si può pensare ad un piano nazionale che favorisca lo spostamento del traffico dallo scalo di Heathtrow agli altri aeroporti dell’area londinese? Per fortuna queste idee non sembrano arrivare alla mente del policy maker britannico.

Le compagnie aeree non si sposterebbero mai dallo scalo di Heathrow, dal quale riescono a connettere l’intero mondo. Le tre principali alleanze distruggerebbero il sistema di hub and spoke che a Londra Heathrow vede uno degli snodi principali al mondo.

In Italia si parla invece di piani aeroporti; l’ultimo, proposto dall’ex Ministro Alessandro Bianchi, non aveva senso, perché partiva dal presupposto che il politico o l’esperto sarebbero stati in grado di prevedere gli sviluppi del traffico aereo.

Oggi si riparla di Piano degli aeroporti: ce n’è davvero bisogno?

Quanti di questi avevano previsto che nel 2011 Bergamo Orio al Serio sarebbe diventato il terzo scalo italiano per numero di passeggeri, piú importante di Venezia, Catania e Milano Linate?

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Una corporazione assedia la Spagna /2010/12/05/una-corporazione-assedia-la-spagna/ /2010/12/05/una-corporazione-assedia-la-spagna/#comments Sun, 05 Dec 2010 11:12:13 +0000 Andrea Giuricin /?p=7777 La Spagna è sotto assedio da parte di una corporazione. Una corporazione molto forte, quella dei controllori di volo, che con uno sciopero selvaggio sono stati in grado di bloccare per oltre 24 ore completamente tutti gli aeroporti della Penisola Iberica. Un atto gravissimo, dopo mesi di scioperi bianchi che avevano provocato ritardi in tutto il trasporto aereo spagnolo. Questa crisi è scoppiata il 3 dicembre, il giorno in cui iniziava il Ponte della Costituzione (il 6 e l’8 dicembre sono giorni festivi in Spagna). Oltre 4000 voli sono stati cancellati e più di 600 mila persone sono rimaste a terra, creando una situazione di emergenza in tutti gli aeroporti. Quali sono le motivazioni che hanno portato a quest’azione? È stata proporzionata la risposta del Governo Zapatero? La risposta è sì. Ma sarebbe meglio privatizzare.

Lo scontro tra Governo e controllori di volo andava avanti ormai da mesi, perché l’Esecutivo Zapatero, con il Ministro dell’industria José Blanco, aveva deciso di tagliare gli stipendi ad una categoria che controlla il volo in tutta Spagna.

I controllori di volo sono una delle voci di spesa maggiore per AENA, la società che controlla tutti gli aeroporti pubblici e sono dei funzionari pubblici a tutti gli effetti. Il loro stipendio supera in molti casi i 300 mila euro annuali, con una produttività del 20-25 per cento inferiore rispetto a quella degli altri Paesi Europei.

A maggio, quando il Governo Zapatero aveva annunciato il taglio del 5 per cento degli stipendi statali aveva deciso anche di colpire duramente i lavoratori pubblici che avevano uno stipendio molto elevato e tra questi quello dei controllori. Una giusta misura di contenimento della spesa pubblica.

Era iniziata una trattativa tra le due parti in modo che si ridefinisse una griglia salariale meno onerosa per lo Stato spagnolo, che nel 2009 aveva visto un deficit dell’11,1 per cento.

Il taglio degli stipendi pubblici era inoltre una manovra necessaria per tranquillizzare i mercati dopo l’attacco speculativo sul debito sovrano delle Grecia.

Il Ministro Blanco voleva eliminare le ore di straordinari, che incidevano per circa il 50 per cento dello stipendio dei controllori di volo, tramite una migliore organizzazione del lavoro e una maggiore produttività.

L’accordo non è mai arrivato e venerdì 3 dicembre, all’inizio del turno delle 17, i controllori iniziavano ad avere un’ondata di malori.

Uno sciopero selvaggio vero e proprio dove la malattia diventava una scusa per non andare al lavoro. Il traffico aereo si collassava immediatamente in tutta Spagna e tutti gli aeroporti chiudevano senza preavviso.

Nella serata di venerdì la polizia entrava per prendere i nominativi nell’hotel dove i controllori “ammalati” erano riuniti.

La notte più lunga per l’esecutivo Zapatero cominciava, con l’idea di porre lo stato di emergenza, in modo da sostituire i controllori di volo civili con quelli militari. Un atto molto forte, che non avveniva dai tempi della dittatura di Franco.

Nella tarda mattinata di ieri, Alfredo Pérez Rubalcaba, vicepremier del Governo, annunciava che lo stato di emergenza era stato approvato. Sicuramente anche i vertici del Partito Popolare hanno avallato la decisione, perché difficilmente sarebbe passata una tale misura così forte.

Il Governo Zapatero si è rivelato molto deciso di fronte ad uno sciopero di una corporazione molto forte.

Il passo successivo dovrebbe essere quello di una completa liberalizzazione del settore, che farebbe venire meno il potere di questa categoria. In Gran Bretagna, il settore è stato privatizzato e risulta molto più efficiente di quello spagnolo.

La situazione tornerá molto lentamente alla normalitá, ma al termine dei 15 giorni di stato di emergenza, che coincide con l’inizio delle festivitá natalizie, senza un’apertura del settore, il problema potrebbe ripresentarsi.

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Zapatero: Eppur si muove… /2010/12/02/zapatero-eppur-si-muove%e2%80%a6/ /2010/12/02/zapatero-eppur-si-muove%e2%80%a6/#comments Thu, 02 Dec 2010 09:37:14 +0000 Andrea Giuricin /?p=7743 La crisi del debito ha avuto un effetto immediato in Spagna. Il Governo Zapatero ha annunciato ieri una serie di azioni che vanno in direzione della liberalizzazione e della privatizzazione in diversi settori. La Spagna aveva raggiunto due giorni fa, un differenziale record rispetto ai Bund tedeschi di quasi di 300 punti, il più alto di sempre dal momento dell’entrata dell’euro. Dopo Grecia ed Irlanda, la sfiducia dei mercati sembrava andare dritta verso la Penisola Iberica. Il Governo Zapatero ha deciso di non aspettare ed ha deciso di operare misure nella giusta direzione. L’Italia, invece, chiude il parlamento per evitare Vietnam politici, titolano oggi i giornali: c’è di che riflettere, sulle risposte diverse agli spread in salita.

Non che non permangono dei gravi errori nella politica economica del governo guidato dal leader del Partito Socialista, dato che le riforme delle Casse di Risparmio e del mercato del lavoro sono state troppo timide, ma il passo effettuato ieri non è da sottovalutare.

Possiamo distinguere tre categorie di decisioni:

-         Semplificazione e abbassamento delle imposte

-         Liberalizzazioni

-         Privatizzazioni.

Il primo punto è coraggioso, perché si decide di abbassare in parte l’imposta sulle società al 25 per cento per quelle piccole-medie imprese che fatturano meno di 10 milioni di euro annuali (precedentemente era pari a 8 milioni di euro) e la base imponibile per l’applicazione di questo livello di tassazione sale da 120 a 300 mila euro.

Tutte le aziende avranno la libertà di scegliere l’ammortamento dell’imposta sulle società nel periodo compreso fino al 2015, in modo da diminuire in tempo di crisi la pressione fiscale.

Abbassare la tassazione d’impresa è importante per aumentare la competitività. Inoltre, come segnalato anche dalla World Bank nel rapporto Paying Taxes, la riduzione di questa imposta non diminuisce le entrate.

Si elimina inoltre l’iscrizione obbligatoria alla Camera di Commercio, che diventa solamente volontaria. Questo permetterà un risparmio di 250 milioni di euro annuali per le imprese. Si favorirà inoltre la creazione dell’impresa in 24 ore.

Il secondo punto è relativo ad un aumento della liberalizzazione del mercato del lavoro. Si permette un’entrata più libera delle agenzie di lavoro private, in un mercato del lavoro profondamente rigido che vede una disoccupazione al 20,7 per cento e una disoccupazione giovanile superiore al 43 per cento.

Sul mercato del lavoro non viene tuttavia meno una certa “vena socialista”; infatti si rafforza il piano “PRODI” di protezione e inserimento sul mercato del lavoro con circa 1500 impiegati pubblici in più per favorire l’inserimento professionale.

Il terzo punto è forse il più controverso. Il Governo Zapatero vuole compiere privatizzazioni per circa 14 miliardi di euro, che arriverebbero dalla vendita del 30 per cento delle “Lotterie di Stato” e il 49 per cento degli aeroporti (AENA).

Controverso perché il Governo vende senza perdere il controllo, volendo mantenere una politica aeroportuale nazionale e pubblica. E la gestione aeroportuale pubblica non è stata certo delle più brillanti, dato che nel 2009 AENA ha perso circa 340 milioni di euro.

Un punto aggiuntivo, ma non meno importante è il taglio della spesa che arriva dall’eliminazione del sussidio di disoccupazione di lungo periodo (dopo 2 anni di sussidi a circa l’80 per cento dell’ultimo stipendio) di 426 euro mensili.

Il passo di Zapatero è stato certamente coraggioso, ma quasi obbligatorio, viste le condizioni tempestose nelle quali la nave Spagna stava navigando nel mercato delle aste pubbliche. Bisogna ricordare che lo stesso primo ministro aveva portato il deficit all’11,1 per cento sul PIL nel 2009.

Queste decisioni sono importanti, ma le prossime settimane non saranno facili per la Spagna che si ritrova un sistema di “cajas” davvero deboli e che potrebbero “saltare” da un momento all’altro.

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Fiat: Mirafiori come Pomigliano? /2010/11/30/fiat-mirafiori-come-pomigliano/ /2010/11/30/fiat-mirafiori-come-pomigliano/#comments Tue, 30 Nov 2010 08:49:24 +0000 Andrea Giuricin /?p=7728 Mirafiori come Pomigliano? Questa è l’idea di Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, almeno da un punto di vista dell’organizzazione del lavoro e non certo delle relazioni sindacali con la FIOM.  Sarebbe un altro passo in avanti ed una grande occasione per l’Italia. Flessibilità e produttività diventano quindi due parole sempre più importanti per gli stabilimenti italiani della casa automobilistica.

Il piano per lo stabilimento torinese è stato presentato settimana scorsa e prevede la produzione di modelli di alto di gamma, cosi come auspicato da molti analisti. L’Italia difficilmente (ma non è impossibile) può competere su modelli a basso valore aggiunto, viste tutti i lacci che limitano gli investimenti nel nostro Paese.

In particolare dovrebbe essere prodotto un SUV, anche con il marchio Alfa Romeo, in joint venture con Jeep. Questo è un grande passo in avanti per il marchio del “Biscione” perché per la prima volta entra in un segmento nel quale Fiat, nella globalità dei suoi marchi, non era presente.

Dalla piattaforma della Giulietta nasceranno a Mirafiori tutte le automobili del segmento D ed E, oltre ai SUV, vale a dire quelle a più elevato valore aggiunto.

Quest’annuncio non è solo importante per l’Italia, ma è un passo essenziale nella fusione tra Chrysler e Fiat.

Questi nuovi modelli porteranno oltre un miliardo d’investimenti nello stabilimento di Mirafiori e dunque è previsto un rilancio in grande stile.

Ma cosa chiede Marchionne per puntare sull’Italia? Le stesse cose richieste per Pomigliano d’Arco.

Mirafiori certamente ha una produttività superiore alla fabbrica campana con un minor tasso di assenteismo, ma al fine di aumentare la produttività vi è la necessità di rivedere l’organizzazione del lavoro. Il contratto in discussione con le parti sociali può prevedere anche quattro turni settimanali di 10 ore ognuno. L’aumento delle ore lavorate porterebbe ai dipendenti anche fino a 5 mila euro annuali in più.

La piattaforma unica produrrà in Italia anche per esportare negli Stati Uniti, al contrario di quanto diceva una parte del sindacato, che Fiat è ormai la parte italiana di Chrysler.

Certo, l’integrazione con la casa automobilistica americana porterà ad avere una struttura aziendale e un management che si divide tra Detroit e Torino, ma questo è necessario per cercare di non fallire nel merger. Fiat affronta dunque una sfida per la sopravvivenza e continua a scontare la debolezza di non essere in pratica presente nel mercato del futuro, l’Asia.

I prossimi anni saranno decisivi per Fiat. Se non raggiungerà gli obiettivi del piano industriale che prevedono un raddoppio del fatturato da qui al 2014, la casa automobilistica italiana resterà al di fuori dei grandi produttori globali.

In questo contesto di competizione globale, l’Italia pone molti punti interrogativi: la FIOM salirá nuovamente sui tetti? Costruirà barricate contro questo accordo?

La radicalità del sindacato della CGIL non ha pagato a Pomigliano, essendosi di fatto isolato completamente. La lezione passata potrebbe avere insegnato qualcosa, ma il principale elemento di differenza risiede nel fatto che la lotta per la successione alla guida della CGIL è terminata, con l’elezione di Susanna Camusso.

Probabilmente vi saranno resistenze a quest’accordo proposto da Sergio Marchionne, ma la FIOM troverà il coraggio di chiudersi nella sua torre d’avorio un’altra volta?

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L’auto europea drogata e Fiat /2010/11/17/l%e2%80%99auto-europea-drogata-e-fiat/ /2010/11/17/l%e2%80%99auto-europea-drogata-e-fiat/#comments Wed, 17 Nov 2010 00:51:09 +0000 Andrea Giuricin /?p=7623 Sono arrivati i dati dell’andamento del mercato auto in Europa e sono tragici. I sussidi dei vari Governi europei dati nel 2009 hanno drogato il mercato, con la sola conseguenza di anticipare la domanda e di provocare una caduta nel 2010. Le vendite nel mese di ottobre sono scese a poco più di un milione di vetture in tutta l’Unione Europea, con una contrazione di oltre il 16 per cento rispetto allo stesso mese del 2009. Il livello è più basso anche di quello registrato nel 2008, mese di crisi globale, dopo la caduta di Lehman Brothers. Sussidiare il mercato dell’auto con gli incentivi si è rivelata non solo una politica inefficace, ma soprattutto dannosa. Nel settore auto motive servono interventi strutturali, non le solite politiche di breve termine. La dimostrazione arriva non solo dall’Italia, dove la caduta nel mese di ottobre è stata del 28,8 per cento, con una forte crisi di Fiat, ma soprattutto dalla Germania guidata dalla Cancelliera Angela Merkel.

Nel corso del 2009, anno nel quale si sono svolte le elezioni (27 di settembre), la Germania ha attuato una politica d’incentivi all’acquisto molto aggressiva. I sussidi sono terminati appena concluse le elezioni e la conseguenza è stata quella di una caduta del mercato. Dall’inizio del 2010 le vendite sono calate del 26,8 per cento.

La crisi post-incentivi o da “mercato drogato” colpisce maggiormente quelle aziende che avevano beneficiato dei sussidi.

Le case automobilistiche concentrate sul segmento delle “piccole-medie” erano state quelle che più avevano incrementato le vendite perché proprio su questo segmento erano andati i maggiori incentivi. Fiat era una di queste.

L’azienda torinese, infatti, ha perso il 33 per cento a livello europeo nel mese di ottobre e la caduta delle immatricolazioni è stata di quasi il 17 per cento da inizio anno, a fronte della caduta del 5,5 per cento del mercato.

Se la Germania va male nel settore vendite, lo stesso non accade a livello produttivo, dove continua a correre la produzione. Come è possibile?

Nel paese teutonico sono state prodotte quasi il doppio delle auto che sono state vendute lo scorso anno. Il vantaggio tedesco non deriva certo da un costo del lavoro basso, quanto dalla specializzazione e da un sistema che invoglia gli investimenti.

Un tasso di burocrazia molto meno elevato rispetto all’Italia, una flessibilità nei contratti di lavoro che permette maggiore efficienza e una tassazione effettiva per le imprese meno bassa (Dati World Bank 2010) aiutano lo sviluppo di impianti di produzione in Germania.

Un altro fattore chiave è il mercato. Le aziende producono molto spesso laddove vi è un mercato importante.

Perché le aziende tedesche sono andate a produrre in Cina? Per abbassare il costo del lavoro? La motivazione principale della produzione di Volkswagen in Cina è dipendente dall’importanza del mercato cinese. La casa automobilistica tedesca vende ormai in Cina il 75 per cento del numero di veicoli venduti in tutta Europa e quasi il doppio di quando ne venda in Germania.

Cosa puó imparare l’Italia e la sua classe governante?

In primo luogo che gli incentivi drogano un mercato, ma non servono a nulla nel medio-lungo periodo. Anzi aggravano la crisi.

In secondo luogo che i Governi, invece di puntare sulla solita politica dei sussidi, dovrebbe concentrarsi sui problemi reali dell’Italia.

Nessun governante non ha mai visto che l’unico produttore in Italia si chiama Fiat e che nessuna casa automobilistica estera viene nel nostro Paese?

Affrontare i problemi di un costo del lavoro elevato a causa di una tassazione esagerata, di un’eccessiva burocratizzazione, di contratti troppo poco flessibili farebbero cambiare l’Italia.

Sergio Marchionne sta combattendo sull’ultimo punto contro la Fiom, ma sugli altri punti solo il Governo può agire.

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Le difficoltá di Fiat e il populismo della delocalizzazione /2010/11/02/le-difficolta-di-fiat-e-il-populismo-della-delocalizzazione/ /2010/11/02/le-difficolta-di-fiat-e-il-populismo-della-delocalizzazione/#comments Tue, 02 Nov 2010 19:04:36 +0000 Andrea Giuricin /?p=7453

La situazione di Fiat in Italia si fa sempre piú complicata. Non vi sono solo evidenti problemi nella produzione, con una mancanza di competitività cronica del nostro Paese, ma anche da un punto di vista delle vendite i dati sono sempre piú difficili per l’azienda guidata da Sergio Marchionne. L’Unrae ha pubblicato oggi i dati relativi al mese di ottobre. Il mercato è in “profondo rosso”, avendo registrato una caduta del 28,8 per cento lo scorso mese, mentre da gennaio ad ottobre 2010 le automobili vendute sono diminuite del 7 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Fiat si comporta peggio del mercato con una riduzione delle vendite del 39,9 per cento nel mese di ottobre e del 15,1 per cento nei primi 10 mesi dell’anno. Si possono trarre due conclusioni da questi dati alquanto preoccupanti.

Il doping di Stato del febbraio 2009 sta rivelando tutti i suoi difetti. Incentivare e sussidiare artificialmente il mercato è possibile farlo per un periodo limitato. Il consumatore anticiperà il proprio acquisto, creando di fatto una crisi peggiore nel medio periodo.

La seconda considerazione riguarda la casa automobilistica di Torino: Fiat non solo produce solo 600 mila veicoli in Italia, sui circa 4 milioni di veicoli che produrrá all’anno con Chrysler, ma anche le vendite nel nostro Paese sono scese a livelli molto bassi. Se l’Italia incide per circa il 15 per cento dal lato produttivo sull’intera Fiat, anche la quota di mercato dell’Italia sulle vendite globali della casa automobilistica torinese è scesa al 15 per cento.

Un’azienda quando decide di produrre in un determinato paese, non guarda solo ai costi produttivi, ma soprattutto alle possibilità di sviluppo del mercato. È stato questo il caso di Volkswagen, che mentre in Cina in tre trimestri ha venduto quasi 1,5 milioni di automobili in crescita di circa il 39 per cento, in Germania, dove il mercato è depresso dopo un anno pieno di sussidi pubblici dati dal Governo Merkel, il 2009, venderà meno di un milione di autoveicoli. L’intero gruppo di Wolfsburg ha venduto nei primi tre trimestri in tutta Europa circa 2,1 milioni di veicoli, in contrazione di circa il 4 per cento. Se tale andamento dovesse continuare, nel 2012 il primo mercato per il gruppo Volkswagen sará quello cinese. La casa automobilistica tedesca non è andata in Cina a produrre perché i costi di produzione sono evidentemente piú bassi, ma è andata nella Repubblica Popolare per prendere le opportunità che arrivavano da quel mercato.

Volkswagen può insegnare una cosa alla Fiat e una ai sindacati e alla classe dirigente italiana. Alla Fiat indica quale è la direzione da prendere per il futuro. Lo sviluppo del mercato non arriverá piú da Europa e Stati Uniti, dove comunque è importante avere una forte presenza, ma è necessario andare verso l’Asia.

I sindacati e la politica, invece, non devono pensare alla delocalizzazione come una “fuga” dall’Italia. In Germania si producono quasi 10 volte il numero di veicoli prodotti in Italia, nonostante la Cina sia ormai essenziale per la principale casa automobilistica tedesca. Bisogna pensare ad adottare una contrattazione a livello aziendale, come proposto da Sergio Marchionne a Pomigliano d’Arco e Melfi, senza pregiudizi. Non è un caso che il 40 per cento dei contratti in Germania siano di livello aziendale e non legati ad un contratto nazionale.

Quando Marchionne chiede maggiore flessibilità negli impianti produttivi e salario legato alla produttività, non significa voler scappare dall’Italia.

Certo una parte del sindacato, la Fiom, si sta impegnando per abbassare il livello di investimento presente in Italia.

Non è anche colpa del sindacato e di una contrattazione antiquata se nessuna impresa automobilistica estera produce in Italia?

Fare affermazioni populistiche contro la delocalizzazione in Serbia non serve a nulla. Meglio flessibilizzare i contratti come chiede Marchionne.

Parlare meno ed agire di piú dovrebbe essere il motto per l’Italia.

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La Francia di Sarkozy tra proteste (tante) e riforme (poche) /2010/10/28/la-francia-di-sarkozy-tra-proteste-tante-e-riforme-poche/ /2010/10/28/la-francia-di-sarkozy-tra-proteste-tante-e-riforme-poche/#comments Thu, 28 Oct 2010 06:03:07 +0000 Andrea Giuricin /?p=7421 La protesta francese è alle corde, dopo che per settimane il Paese è stato sull’orlo del blocco totale. Oggi è in programma l’ennesimo sciopero generale, ma Sarkozy sembra aver riportato una vittoria, dopo che la legge della riforma delle pensioni è passata al Senato e ieri all’Assemblea.

Gli studenti, alle prese con le vacanze d’autunno, hanno deciso di riposare, mentre i sindacati hanno allentato la morsa.

Non è la prima volta che sindacati e studenti si alleano per cercare di evitare dei cambiamenti necessari in tema di riforme.

La Francia è il paese degli scioperi. Vi possono quelli “leggeri”; un’esempio è quello attuato dai controllori di volo, che sono in sciopero ormai da mesi e continuano a provocare ritardi per molti voli che transitano sopra il territorio d’Oltralpe. Spesso, invece, il blocco riguarda quasi qualunque attività. Nelle ultime settimane anche le raffinerie sono state “occupate”, impedendo ai cittadini di fare rifornimento di carburante.

Il tema del lavoro e delle pensioni è molto caldo in Francia, distorto molte volte da “leggende” economiche. Una di questa, forse la più importante, è quella che disegna il mercato del lavoro come un’enorme torta.

Solo quando una fetta di questa torta, i pensionati, lasciano il loro posto, vi è la possibilità per i giovani di entrare. È la ragione principale per la quale il movimento studentesco si è unito alla protesta sindacale. I giovani, che vedono un tasso di disoccupazione del 24,4 per cento, molto superiore alla media nazionale del 10,1 per cento, vedono in questa riforma il male di tutti i mali. Invece il mercato del lavoro è una torta che si può allargare, togliendo i freni che limitano l’occupazione.

Il mercato del lavoro francese avrebbe bisogno di altre riforme oltre a quella delle pensioni, sulla quale è in corso lo scontro. Il salario minimo elevato, un’eccessiva burocratizzazione del sistema sono due delle cause che lo rendono poco flessibile.

Il mantenimento dello status quo è certamente uno dei punti di debolezza del Paese Transalpino. Alzare l’età minima pensionabile dai 60 ai 62 anni è necessario in un sistema che vede la spesa pensionistica in aumento. L’etá media di vita si allunga ed i sindacati francesi alleati al Partito Socialista non vogliono tenere conto di questa fattualitá tragica per un Paese che ha un debito ormai superiore all’80 per cento del Prodotto Interno Lordo.

Questa riforma non tocca nemmeno tutte le categorie sociali; in Francia rimangono delle nicchie per le quali non valgono le regole di tutti. In molte aziende pubbliche l’età pensionabile si abbassa a 55 anni e in un Paese dove le grandi imprese di Stato hanno ancora un peso rilevante, questa differenza provoca uno scontento popolare.

Il “Paese dell’égalité” in realtà è più uguale solo per alcuni”fortunati”. E questi fortunati hanno un peso politico rilevante. Un caso per tutti è quello degli “cheminots”, vale a dire i ferrovieri. Sono oltre 200 mila e quando decidono di bloccare la Francia e Parigi, nella cui area urbana risiede il 20 per cento della popolazione francese, hanno la capacitá di creare enormi disagi.

Sarkozy con questa riforma, nella quale s’innalzano anche gli anni di contribuzione minima, fa un passo in avanti, ma in realtà non va completamente alla radice del problema francese. Non elimina la posizione di forza di cui ancora gode il sindacato.

Per questa ragione chi la pensa come i sindacati e il partito socialista mantiene una profonda avversione alle politiche del Presidente della Repubblica, ma chi aveva visto in Sarkozy l’uomo del cambiamento, in realtà ne è rimasto profondamente deluso.

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Fiat: Marchionne, Fini e l’auto di Stato /2010/10/25/fiat-marchionne-fini-e-l%e2%80%99auto-di-stato/ /2010/10/25/fiat-marchionne-fini-e-l%e2%80%99auto-di-stato/#comments Mon, 25 Oct 2010 14:42:18 +0000 Andrea Giuricin /?p=7367 Le parole del Presidente della Camera Gianfranco Fini verso Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat sono molto forti: “si è dimostrato più canadese che italiano”. Senza dubbio è solo un vantaggio. Ci voleva il canadese Marchionne per cambiare le relazioni sindacali in Italia. Vogliamo davvero che si continui ad avere una Fiat che sopravvive grazie ai soldi dei contribuenti? Né Fini né Marchionne lo desiderano. In realtà le affermazioni del presidente della Camera devono essere prese più come uno slogan elettorale e meno come un attacco a Fiat e al suo amministratore delegato; meglio dunque discutere del modello produttivo italiano, del suo fallimento e degli esempi da seguire o non seguire. E su questo ultimo punto vi è un’analisi di Massimo Mucchetti, che nel suo editoriale del Corriere della Sera sostiene che l’America non ha più nulla da insegnarci nel settore auto motive.

Ma è davvero cosi? Esiste una sola America dell’auto, vale a dire quella salvata da Barack Obama grazie ai miliardi di sussidi pubblici e simile all’Italia anni ‘90?

L’America di cui parla Mucchetti nel suo intervento non è un esempio da seguire. Questo è certo. Salvare l’industria dell’auto di Detroit è stato uno dei maggiori errori dell’Amministrazione Democratica americana e l’unico perdente è stato il contribuente americano.

Sergio Marchionne è stato capace di entrare nel capitale di Chrysler senza sborsare un euro. Fiat possiede giá il 20 per cento delle azioni dell’ex gigante di Detroit e potrá salire al 51 per cento per “soli” pochi miliardi di dollari. Un’operazione politica, perché di questo stiamo parlando, perfetta.

Ha dunque ragione l’editorialista del Corriere della Sera?

L’America, per fortuna, non si ferma a Detroit. Esiste un’altra America, più dinamica, che ha capito da che parte girava il vento dell’auto.

Sono gli Stati del Sud, che sempre hanno avuto uno sviluppo economico inferiore rispetto al Nord e agli Stati della Costa Atlantica. Sorprenderà, ma i grandi Stati produttori di veicoli oggi si chiamano Ohio, Kentucky, Alabama. Qui vi è stata ormai da circa due decenni una rivoluzione silenziosa, che ha saputo riformare il settore dell’auto statunitense. Quattro milioni di veicoli prodotti nel momento di picco, grazie all’arrivo di investitori stranieri e non ai soldi dei contribuenti pubblici. Una sana concorrenza tra gli Stati, che il Governo Obama ha pensato di falsare grazie al salvataggio pubblico di due delle “big three”.

Nel vecchio polo automobilistico di Detroit, le posizioni sindacali e l’incapacità di cambiare di un intero “distretto” hanno portato al fallimento di GM e di Chrysler.

La soluzione adottata da Barack Obama è stata quella di iniettare decine di miliardi di dollari per tenere in piedi un sistema ormai vecchio. Questi miliardi hanno portato ad avere una Chrysler che ancora adesso, è a maggioranza azionaria dei sindacati (gli stessi che hanno portato al fallimento) e il Governo Americano.

Il costo del lavoro negli Stati del Sud degli USA nel settore auto, che producono ormai quasi il 40 per cento delle auto americane, grazie agli investimenti diretti esteri delle case automobilistiche europee, giapponesi e coreane, è inferiore di oltre il 40 per cento rispetto al distretto di Detroit.

Si parla di un settore che genera oltre 81 mila posti di lavoro diretti e oltre mezzo milione di posti di lavoro indiretti.

La concorrenza nel sapere attrarre gli investimenti è essenziale e questo l’Italia non l’ha capito, nonostante gli avvertimenti di Marchionne.

Avere una parte del sindacato che vuole bloccare Fiat, perché l’azienda porta un investimento di centinaia di milioni di euro in Italia (caso Pomigliano d’Arco) in cambio di maggiore produttività, mostra come l’Italia sia destinata a fare ulteriori passi indietro nelle classifiche di competitività citate ieri da Sergio Marchionne nella trasmissione televisiva condotta da Fabio Fazio.

L’America ha ancora tante cose da insegnare all’Italia nel settore dell’auto. L’esempio però arriva da quegli Stati del Sud degli USA che hanno saputo attrarre investimenti esteri e non arriva certo dal modello di “fabbrica di Stato” che è stato alla base della politica di Obama negli ultimi due anni.

“L’auto di Stato” non è il modello americano, è il modello Obama. L’unica certezza è che l’Italia, che per troppi anni ha sussidiato Fiat, con Marchionne ha l’opportunità di voltare pagina.

Saranno capaci i politici e i sindacati a comprendere la svolta?

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Fiat: i dieci minuti della rivoluzione /2010/10/24/fiat-i-dieci-minuti-della-rivoluzione/ /2010/10/24/fiat-i-dieci-minuti-della-rivoluzione/#comments Sun, 24 Oct 2010 15:55:36 +0000 Andrea Giuricin /?p=7359

Dieci minuti fanno la rivoluzione? Questo è l’interrogativo che l’Italia si pone in questi ultimi giorni. Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, ha un’altra volta spostato il limite del rapporto tra sindacati e mondo imprenditoriale. L’azienda torinese ha infatti deciso di cambiare le pause di lavoro anche nell’azienda di Melfi, dopo averlo proposto a Pomigliano d’Arco. In particolare, i nuovi ritmi di lavoro, prevedono un aumento del numero delle pause di lavoro del 50 per cento, da due a tre, ma un dimezzamento del tempo medio di ogni pausa, da 20 minuti a 10 minuti. Nel complesso il tempo lavorato aumenta di 10 minuti, con un contemporaneo incremento anche delle retribuzioni. Dieci minuti sono quelli che separano la Fiat dai sindacati, viste le reazioni non certo rassicuranti non solo della FIOM, ma anche della UILM e della FIM Queste reazioni non stupiscono; quel che stupisce è la forza con la quale Marchionne ha deciso unilateralmente le nuove condizioni contrattuali che entreranno in vigore dal 31 gennaio del 2011. L’azienda di Melfi è uno dei cinque stabilimenti italiani che producono le poco più 600 mila veicoli l’anno con oltre 20 mila dipendenti. In Polonia, lo stabilimento di Tichy, ormai famoso per la delocalizzazione al contrario a favore di Pomigliano della Nuova Panda, produce lo stesso numero di veicoli dell’Italia intera in un solo stabilimento e con un terzo dei dipendenti.

Questo semplice dato è alla base del ragionamento di Fiat, che al fine di aumentare la produttività in Italia, cambia il metodo di lavoro. Le tre pause accorciate servono ad introdurre una maggiore produttività, ma l’azienda si impegna a retribuire il maggior lavoro agli operai.

La reazione dei sindacati è abbastanza ovvia, dato che in Italia si è abituati a passare per tavoli di concertazione per ogni minimo cambio contrattuale. Marchionne su questo punto è poco italiano e l’ha lasciato capire negli ultimi cinque mesi. Il progetto di investire 20 miliardi di euro nel piano “Fabbrica Italia” per aumentare il numero di veicoli prodotti nel nostro Paese ad oltre 1 milione di unitá, puó essere completato solo se cambiano i rapporti sindacali.

Pomigliano d’Arco è stato l’esempio della volontà di puntare sull’Italia da parte della Fiat, con un investimento di diverse centinaia di milioni di euro per produrre la Nuova Panda nello stabilimento campano.

Non è certo un momento facile per Fiat, alle prese con la crescita negli Stati Uniti e con un mercato europeo in caduta libera.

La stessa trimestrale presentata al mercato la settimana scorsa ha mostrato due facce della medaglia. Da un lato, l’auto che continua a vedere una contrazione delle vendite e una previsione di scendere a meno di 2 milioni di veicoli venduti, contro i 2,15 milioni del 2009; dall’altro lato CNH ed Iveco che mostrano incrementi dei ricavi nel terzo trimestre 2010 di oltre il 22 e 15 per cento rispettivamente.

Lo stesso mercato dell’auto vede il segmento lusso in forte recupero, mentre è proprio Fiat Group Auto che registra i maggior problemi. Lo stesso Brasile, uno dei punti di forza del gruppo, registrerà un 2010 stagnante con una crescita del 2 per cento nelle vendite.

Fiat ha quindi bisogno di aumentare la produttività per restare competitiva a livello globale. E questo può essere fatto soprattutto in Italia e non in Polonia e Brasile, dove gli stabilimenti hanno già un’efficienza molto elevata.

L’aumento della produttività passa attraverso il nuovo orario di lavoro ed in questo caso non vengono ridotti i costi. Infatti lo stipendio aumenterà proporzionalmente all’aumento dei minuti lavorati.

I dieci minuti sono importanti per la Fiat e per aumentare la produttività degli stabilimenti italiani. Non si parla di abbassare lo stipendio a livelli polacchi, ma si parla di aumentare lo stipendio per l’incremento dei minuti lavorati.

Ancora una volta Marchionne, cambiando il modo di proporsi ai sindacati, provoca uno shock all’Italia; uno shock salutare.

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Il punto sulla Spagna – Instabilità e manovra finanziaria 2011 /2010/10/19/il-punto-sulla-spagna-%e2%80%93-instabilita-e-manovra-finanziaria-2011/ /2010/10/19/il-punto-sulla-spagna-%e2%80%93-instabilita-e-manovra-finanziaria-2011/#comments Tue, 19 Oct 2010 16:53:14 +0000 Andrea Giuricin /?p=7338 La Spagna è in ebollizione dopo che il partito di Governo di Jose Luis Zapatero ha raggiunto un accordo con due dei partiti nazionalisti per “far passare” la manovra finanziaria 2011. Qualche insegnamento per l’Italia?

È di ieri la conferenza stampa del leader di Coalizione Canaria, Paulino Rivero, nella quale ha annunciato il sostegno al Governo in cambio di maggiore indipendenza economica e di “modifiche di facciata”; infatti, uno dei punti chiave voluti e ottenuti dal leader della CC è il cambio di denominazione delle acque internazionali di fronte alle Isole Canarie, pur essendo queste sottoposte a legislazione internazionale. Vi sono altre contropartite ottenute dalla CC in cambio dell’appoggio alla manovra finanziaria, quale ad esempio un maggiore investimento nel sistema aeroportuale canario.

Questo accordo è necessario al Governo di Zapatero per cercare di avere i voti necessari in Parlamento e chiudere un anno particolarmente difficile. Tuttavia, se si crea una certa stabilità nel Governo centrale, si apre una crisi di governo alle Canarie, poiché la Coalizione Canaria era alla guida dell’arcipelago con il Partito Popolare.

Il patto è stato duramente criticato dal PP perché arriva a distanza di pochi giorni da quello concluso tra il Governo e il Partito Nazionale Basco. I Paesi Baschi sono sempre stati fonte di attrito tra PP e PSOE e la maggiore indipendenza economica ottenuta con l’accordo di pochi giorni fa, ha alzato i toni della polemica. In particolare è stato dato potere al Governo Regionale di gestire le risorse per la formazione dei lavoratori disoccupati. Queste risorse non sono di poco conto, poiché la disoccupazione è superiore al 20 per cento e lo Stato Spagnolo investe grandi somme di denaro (inefficientemente) nella formazione dei disoccupati.

Il patto siglato tra PSOE, PNV e CC permette a Zapatero di passare un altro scoglio importante della legislatura.

Arrivare alle elezioni del 2012 sembra ormai abbastanza naturale, anche se non sono da escludere colpi di scena.

Questo accordo registra e consolida un cambiamento nella politica di Zapatero. Il leader ha dimostrato di voler abbandonare gli accordi con la sinistra, siglando alleanze con i partiti nazionalisti. Solo in questo modo può sperare di fare alcune delle riforme necessarie.

Il prossimo obiettivo del Governo è di alzare l’età pensionabile da 65 a 67 anni, ma la riforma rischia di essere “monca” senza una modifica dei parametri che definiscono il valore della pensione.

Molte delle riforme attuate dal PSOE con i partiti nazionalisti non hanno avuto la forza necessaria per attuare quei cambiamenti obbligatori per un Paese con un deficit nel 2009 superiore all’11 per cento del PIL.

Tutto questo mentre il consenso di Zapatero cade ai minimi e i sondaggi danno un distacco del PSOE di oltre 10 punti percentuali rispetto al Partito Popolare guidato da Mariano Rajoy.

Perché Zapatero continua a perdere consenso? I dati macroeconomici sono la fonte di tutti i problemi del Governo Spagnolo. La disoccupazione è salita oltre il 20 per cento e difficilmente prima delle elezioni potrá scendere sotto il 15 per cento. La Spagna è inoltre l’unico dei grandi Paesi dell’Unione Europea che chiuderà il 2010 con una contrazione del prodotto interno lordo.

Le riforme fatte dal Governo sono sembrate troppo timide e ormai la gente ha perso la fiducia nei confronti delle promesse di Zapatero. Un dato interessante è quello che il leader dell’opposizione, sconfitto dal leader del PSOE nel 2004, ha un indice di gradimento inferiore a quello del capo del Governo. Questo dato indica che Mariano Rajoy non è visto come la soluzione, ma che gli spagnoli hanno voglia di cambiare di Governo.

In Spagna non è la prima volta che i partiti di maggioranza quali il PSOE e il PP devono trovare alleati per restare al Governo, dato che la legge elettorale del 1985 rende difficile avere maggioranze assolute.

Questa volta, tuttavia, gli accordi che Zapatero trova di volta in volta, sono visti come una sorta di galleggiamento. E i galleggiamenti non piacciono ai votanti. Qualche insegnamento per il caso italiano?

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