CHICAGO BLOG » Alberto Mingardi http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Autorità indipendenti: perché continuiamo a raccontarci favole? /2010/11/28/autorita-indipendenti-perche-continuiamo-a-raccontarci-favole/ /2010/11/28/autorita-indipendenti-perche-continuiamo-a-raccontarci-favole/#comments Sun, 28 Nov 2010 10:37:20 +0000 Alberto Mingardi /?p=7714 Della situazione paradossale che si è creata con la lettera di “indisponibilità” di Antonio Catricalà, ha già scritto Carlo Stagnaro. Da parte via, vorrei solo aggiungere qualche considerazione.

Si possono dire molte cose, sugli sfortunati giri di giostra che hanno coinvolto il Presidente dell’Antitrust negli ultimi mesi. Prima avrebbe dovuto attraversare la piazza, e spostarsi dall’AGCM alla Consob. La nomina del Presidente di questa Authority è rimasta bloccata per alcuni mesi, presumibilmente a fronte della capacità di interdizione di coloro che avrebbero visto meglio su quella poltrona Catricalà anziché Giuseppe Vegas. A scanso di equivoci: si tratta, in un caso e nell’altro, di tecnici stimati, due figure che si avvicinano quanto possibile in Italia all’identikit di un “civil servant” dal profilo alto. In un caso e nell’altro, l’arrivo alla Consob sarebbe stato in qualche misura anomalo – “poco elegante”, come hanno detto dalle parti del PD. Vegas, che è persona per bene, universalmente stimata, e di sentimenti liberali (il che, almeno da queste parti, è un punto a favore), veniva dal Ministero dell’Economia. Catricalà avrebbe lasciato un’altra Autorità indipendente, prima della conclusione del mandato.

Quando finalmente il governo ha esplicitato la sua preferenza per Vegas (la nomina è su indicazione del Presidente del Consiglio, deve passare per le commissioni parlamentari e poi avere il “bollino” del Presidente della Repubblica), Catricalà è stato dirottato sull’energia – dove si è appena concluso il settennato di Alessandro Ortis. Carlo Stagnaro ha già spiegato come la cinquina di commissari all’energia fosse “figlia di un accordo tra il Pdl, la Lega e la maggioranza interna del Pd, mentre lasciava a bocca asciutta Udc, Idv e Fli”. Tanto vale notare che lasciare a bocca asciutta Fli in fatto di Authority era in tutta evidenza una strategia molto stupida.

Perché? La risposta a questa domanda spiega perché Catricalà non sia riuscito, nonostante la stima di cui gode nelle istituzioni e il supporto di Gianni Letta, a diventare Presidente della Consob. Perché il capo dell’Antitrust deve essere nominato congiuntamente dal Presidente della Camera e da quello del Senato. Il Presidente della Camera di Fli è, come è noto, il leader e fondatore.

Si è scritto che Antonio Pilati non avrebbe potuto fare il Presidente pro tempore dell’Antitrust (essendo membro anziano, nella vacatio a lui sarebbe spettata tale responsabilità) perché “troppo berlusconiano” ovvero fra gli estensori della legge Gasparri. Come la pensi Pilati sullo sviluppo del mercato televisivo in Italia, non è un mistero. Con Franco Debenedetti, ha scritto un libro, “La guerra dei trent’anni”, proprio su questo.

Dichiaro un conflitto d’interessi. Considero Antonio Pilati uno dei miei amici più cari, e quindi è naturale che pensi non solo che avrebbe potuto fare il Presidente dell’Antitrust, e non solo pro tempore, ma che l’avrebbe fatto con la professionalità e l’intelligenza che gli sono propri. Al di là delle persone, però, forse sarebbe utile che utilizzassimo questa ridicola pantomima sulle nomine all’Energia e all’Antitrust per qualche considerazione di ordine generale.

Se l’indipendenza delle Autorità può essere un “dato” nel loro funzionamento concreto, e segnatamente nel rapporto che formalmente le lega agli altri organi dello Stato, l’indipendenza in senso assoluto non esiste. I loro componenti debbono, è vero, esibire requisiti di “riconosciuta professionalità e notoria indipendenza”. Ma che significa? Limitiamoci all’AGCM, dove la nomina del collegio è in capo ai Presidenti delle due Camere. Nella legge istitutiva dell’Autorità, questo avrebbe dovuto garantirla da pressioni politiche le più varie. Quella legge è stata scritta al tramonto della prima repubblica, ed è debitrice ai suoi riti. Allora, i Presidenti delle due Camere erano signori maturi che si ponevano fuori dai giochi. Non proprio il profilo di personaggi come Luciano Violante, Pierferdinando Casini, Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini, tutti politici di primo piano. Allora, una camera andava all’opposizione: convenzione mai più rispettata, dal ’94 in qua.

La composizione dei collegi dell’Antitrust ha sempre riflettuto l’appartenenza dei Presidenti delle due Camere. Il primo collegio, dopo la morte di Francesco Saja, fu presieduto da Giuliano Amato: ragionevolmente considerabile, soprattutto nel 1994, l’uomo della sinistra più vicino a Berlusconi (e un politico non di seconda fila: aveva già fatto, e avrebbe fatto di nuovo, il presidente del consiglio). L’Autorità a guida Tesauro è ricordata da molti con rimpianto, perché composta soprattutto da “tecnici”: bravi studiosi come Michele Grillo e Marco D’Alberti, apprezzati dai colleghi, legittimamente vicini ai partiti di sinistra. Il membro berlusconiano era il giurista bolognese Giorgio Bernini, che era stato ministro del commercio estero e poi divenne presidente di RFI.

Siamo all’era Catricalà. Stimato a sinistra (indimenticabile il suo feeling con Bersani ministro dell’industria), Catricalà era stato capo di gabinetto di Antonio Maccanico al ministero delle poste, poi segretario generale del primo consiglio dell’Autorità delle telecomunicazioni, poi segretario generale della Presidenza del Consiglio ai tempi del secondo governo Berlusconi (2001) fino all’approdo all’Antitrust. Non proprio uno che i politici li ha visti solo da lontano.

Gli altri componenti dell’Autorità sono analogamente stati scelti dai Presidenti della Camera o del Senato, raramente in contrasto con l’appartenenza politica degli stessi. Guazzaloca uscì dal cilindro del sodale bolognese Casini, Pilati era “in quota” al berlusconiano Pera, la nomina di Rabitti Bedogni è riconducibile a Bertinotti, quella di Piero Barucci (figura di grande prestigio, già ministro e presidente dell’Abi) a Franco Marini, Salvatore Rebecchini ha condotto una carriera limpida e integerrima in Banca d’Italia, ma la sua famiglia è stata tradizionalmente vicina a Fini.

Finché i meccanismi di nomina saranno quelli che sono, non prendiamoci in giro: è normale che vengano scelti “tecnici” non insensibili alla politica. Le authority non dipendono dallo Spirito Santo. Varrebbe la pena prestare più attenzione ai requisiti di professionalità, anziché andare a farfalle cercando l’Indipendenza con la i maiuscola. Sarebbe auspicabile rendere più trasparenti i meccanismi di nomina? Indubbiamente. Ma non illudiamoci. Si passi dalle commissioni parlamentari, o dai presidenti delle camere, sempre di scelte riconducibili alla politica si tratta.

L’indipendenza ed efficacia delle Autorità va misurata e controllata decisione dopo decisione, senza mai chiudere gli occhi (e del resto, perché dovrebbe bastare essere “indipendenti” per non fare fesserie?). Sul resto, meglio sarebbe se i nostri politici la smettessero di fingere di credere a Babbo Natale – rigorosamente quando gli fa comodo.

]]>
/2010/11/28/autorita-indipendenti-perche-continuiamo-a-raccontarci-favole/feed/ 1
Le infrastrutture in Italia: quale ruolo per i privati. Live blogging /2010/09/21/le-infrastrutture-in-italia-quale-ruolo-per-i-privati-live-blogging/ /2010/09/21/le-infrastrutture-in-italia-quale-ruolo-per-i-privati-live-blogging/#comments Tue, 21 Sep 2010 09:23:00 +0000 Alberto Mingardi /?p=7107 A Roma oggi viene presentato il nostro primo “Rapporto sulle infrastrutture”. E’ un lavoro ampio e credo molto interessante, con un forte impianto comparato. Il fuoco è il sistema autostradale in Italia. Il convegno è coordinato con la consueta abilità dal direttore di questo blog ed è stato aperto da un intervento di Carlo Stagnaro, che ha riassunto la sua introduzione al rapporto e i suoi risultati più significativi, già presentati qui. Riassumo qui alcune delle cose che stanno dicendo i diversi partecipanti. Va da sé, la scelta dei temi più rilevanti toccati è assolutamente discrezionale.

Castellucci (AD, Autostrade) traccia un bilancio: il piano d’investimenti di Autostrade copre 1100 km, quest’anno investiremo 1 miliardo e mezzo. I privati investono il quadruplo della società Autostrade quand’era pubblica. Quando la società venne privatizzata, non aveva neanche la capacità finanziaria per la quarta corsia sulla Milano-Bergamo. C’è una grande concentrazione dell’investimento laddove c’è traffico: questo porta ad un “riequilibrio territoriale” (per anni gli italiani del Nord hanno pagato le autostrade del Sud). Fluidità migliorata, grazie agli investimenti e ad una oculata gestione di cantieri. Importanti risultati in termini di sicurezza (asfalto drenante e tutor). Autostrade ha il minor debito di tutto il settore: i ritorni per gli azionisti sarebbero stati molto più alti, se si fosse fatto più leverage. Il cash-flow è stato utilizzato per gli investimenti più che per gli investimenti. La preoccupazione degli investitori internazionali è che prima o poi si debba di nuovo, discrezionalmente, modificare il contratto di Autostrade: “l’incertezza costa per tutti” (domanda, mia, un po’ scontata: ancora una volta, un problema di credibilità del nostro amato Paese?). Gli investitori sono disponibili a prendere il “rischio traffico” e il “rischio investimento”, non il “rischio regolatorio”.

Castelli (Vice Ministro, Trasporti): c’è un problema di credibilità del Paese. Al di là delle buone enunciazioni di principio nelle tavole rotonde, investitori internazionali ne vengono poco. Non bisogna riscrivere i contratti, per non minare la credibilità della controparte pubblica. Poi però il Vice Ministro cambia rotta: se arriva una grande tempesta finanziaria, un evento davvero eccezionale, qualche correzione si può fare (?). Castelli difende le tariffe: sono un’equazione. Castelli prende coraggiosamente le distanze da Alemanno (per questa polemica). Non è possibile che nel nostro Paese non si capisca che i cittadini debbono pagare per i servizi di cui usufruiscono. Serve un “contributo ai privati sempre più massiccio”, in linea con un trend mondiale, ed è imprescindibile a causa dei vincoli di finanza pubblica. E’ giusto il momento di far costare meno le opere. Basta alle opere compensative. E’ giunto il momento di porre mano alla legge obiettivo perché non è possibile avere progetti definitivi che costano tre volte i preliminari. E’ giunto il momento di snellire oneri amministrativi. L’intervento dei privati è indispensabile sotto ogni punto di vista, per incentivarlo serve più certezza del diritto.

Paolo Costa (ex Ministro dei Trasporti, economista del ramo, ora all’autorità portuale di Venezia): la privatizzazione “vista da dentro” è stata effettivamente un successo. Il tema vero è quello della stabilità della regolazione: il rapporto IBL insiste su di essa come il cuore del problema. L’impianto concettuale è legato all’idea che vi sia una gara iniziale, e poi pacta sunt servanda. In Italia sfortunatamente “gare iniziali” non se ne fanno. A parte la privatizzazione di Autostrade (pure atipica), le altre concessioni in Italia sono “quasi-imposte”. C’è un problema di storia e di prassi. Siamo di fronte a concessioni date quando ancora la concessione era considerata un istituto pubblico. L’assenza di gare in senso proprio apre la strada alla imprevedibilità e alla discrezionalità dell’attore pubblico. Il regolatore è “catturato” dai concessionari, quasi di norma in questo Paese. Ci vogliono gare effettive, trasparenti, sulla base delle quali venga aggiudicata la costruzione di una singola opera, non di un “pacchetto” di opere. Ogni tanto i patti non sono stati adempiuti per influenza del privato, non “contro” di esso!

Nicola Rossi (economista e senatore PD): quello che è stato fatto nella seconda metà degli anni Novanta (privatizzazione Autostrade), non poteva non essere fatto ed è stato un bene per il Paese farlo. E’ stato un processo non completato, però. Processi non completati di apertura del mercato possono essere pericolosi, creando un effetto boomerang. Lo sforzo deve essere completato: abbiamo ancora tratte significative gestite da un operatore pubblico, e bisognerebbe lavorare perché questo non sia più il caso; resta debole l’impianto della regolazione a causa dei conflitti d’interessi (lo Stato concedente è anche concessionario ed è anche regolatore); il finanziamento delle nuove opere dovrebbe essere lasciato al mercato. Tre problemi da porre all’ordine del giorno: (a) semplificazione delle procedure, anche se sono quindici anni che ci si prova invano. Problemi legati alla tendenza connaturata della PA ad evitare che vi sia un centro di responsabilità riconosciuto come tale; (b) stabilità delle norme è fondamentale, non si cambiano le regole del gioco a partita iniziata, i contratti non possono essere “formati progressivamente” o “modificati in corsa”. Ma come meravigliarsi, in un Paese in cui da destra e sinistra si prendono provvedimenti fiscali “retroattivi”, cosa che ovunque farebbe scendere la gente in piazza? (c) C’è anche un problema di qualità della legislazione: la norma sul pedaggiamento del raccordo anulare era “scritta con i piedi”, la legge elettorale gioca un ruolo, ma c’è il guaio che in provvedimenti “blindati” da governi di destra o sinistra non si può correggere neppure l’ortografia.  Il risultato sono norme inapplicabili o folli, che il Paese nella sua infinita saggezza consapevolmente ignora.

Marco Ponti (economista dei trasporti): sono uno dei responsabili dell’incertezza regolatoria, ma mettere mano al contratto è stato necessario, perché era troppo vago (il price cap era mal definito). Il settore ha una struttura duale: alcune strade hanno determinate regole, altre strade vivono sotto un quadro normativo diverso. La domanda di trasporto ormai è quasi tutta nelle aree metropolitane: questo cambia il quadro in cui ci troviamo.
Ci sono davvero grandi economie di scala nel settore? Occorre dimostrarlo. C’è un “paradosso delle dimensioni”: l’aumento tariffario è distribuito su una platea tanto vasta che consente più facilmente la costruzione di opere inutili.
Non è possibile estendere il business dei concessionari? Le reti locali “fanno schifo” e sono meno sicure, perché non estendere anche lì l’attività dei concessionari? “Privatizzare di più” la gestione delle reti stradali.
La regolazione in Italia è mal fatta, manca un regolatore indipendente. La regolazione deve “mimare” il mercato: come mai in Italia non c’è un concessionario che perda dei soldi? “Se non possono fallire, non sono imprese”.
Pietro Ciucci (Presidente dell’Anas): com’è giusto, Ciucci vuole dare delle risposte ai punti critici sollevati dal nostro Rapporto sull’Anas (“giudizi netti, franchi, alcuni di questo non condivisibili”). Replica a Costa: le gare per fare nuove concessioni si fanno, l’Europa ce le impone, e le concessioni cominciano a scadere (la Venezia-Padova è scaduta, altre, come la Brennero, scadono prossimamente) e c’è un articolo di legge che ha invitato l’Anas ad anticipare i tempi per fare le gare. Non è vero che le tariffe non scendono: le tariffe vengono riviste a termine concessione, e vengono riviste secondo le complesse formule tariffarie. Il principio per cui chi usa un’autostrada paga per quel servizio è scritto in una direttiva europea e recepito dal Parlamento. Il soggetto regolatore non è l’Anas: le leggi non le fa l’Anas. Anas è un concessionario dello Stato che “subconcede” alcuni tratti a pedaggio. La sua vigilanza si limita a queste subconcessioni. Dove sta il conflitto d’interessi? La garanzia del ruolo del privato in Italia è una realtà: se si va oltre le enunciazioni di principio, si vede che in Italia il quadro normativo è stato relativamente stabile. Ruolo del pubblico è complesso: anche abbassare il costo del capitale. Per questo bisogna immaginare una soluzione mista, pubblico-privata.
Replica di Castellucci: due dati interessanti della discussione: (1) nessuno di chi ha partecipato alla privatizzazione di Autostrade mette in dubbio il successo della privatizzazione, (2) tutti sottolineano il valore della certezza del diritto. “Contratto di concessione” è un ossimoro: o è un contratto, o è una concessione. L’UE ci porta a considerare i contratti come contratti, in cui pubblico e privato hanno pari dignità.
Sull’allocazione del rischio: gli investitori sono disposti ad accettare fallimento e rischio.-traffico, sono disposti ad accettarre rischi che conoscono e gestiscono. Non sono disposti ad accettare rischi che non conoscono e non gestiscono: come il rischio di modifica delle regole del gioco. I contratti devono essere “adattabili”, ma non “modificabili” e non a formazione progressiva. Se si rispettano alcuni “requisiti minimi di certezza”, è ancora possibile trovare risorse sui mercati internazionali.

Enrico Morando (senatore PD): i governi cambiano ma i problemi restano. I governi italiani alla domanda: perché non si fanno infrastrutture? hanno risposto, destra e sinistra: perché mancano i soldi. Il rapporto dell’IBL dimostra che così non è: in un’economia globale non mancano capitali, il problema è come attrarli, nel settore della costruzione delle infrastrutture, al fine di aumentare la capacità competitiva del Paese. Noi non riusciamo ad attrarre capitali privati non per assenza di capacità pubblica, ma per problemi che riguardano il funzionamento del sistema-Italia nel suo complesso. Ci sono questioni che travalicano il settore: giustizia e relazioni sindacali “impattano” l’attrazione di capitali per il settore autostradale, molto più della regolazione di settore. Una punzecchiatura a Ciucci: apprendo con stupore che non vi sarebbe un conflitto d’interessi in capo all’Anas.

(Subentra cs perché am ha il pollice dolente)

Morando si chiera a favore del coinvolgimento delle regioni nella regolazione e vigilanza sulle autostrade, purché restino ben distinti questi compiti dall’ingresso in campo come concessionari. Di fatto approva il “modello lombardo” che vede un coinvolgimento dell’Anas assieme alla regione per incentivare la realizzazione di infrastrutture utili.

Giannino si aggancia a quest’ultimo punto per passare la parola a Enrico Musso, senatore del Pdl ed economista dei trasporti che precisa di parlare più da economista che da politico. Musso sottolinea le parole di Morando sulla non pertinenza dei problemi di finanza pubblica: oggi il privato non è più un “esecutore efficiente”, ma può giocare in prima persona, sia per virtù sia per necessità. Il privato, cioè, non è più un mero amministratore (o realizzatore) di redditività, ma un investitore che si assume dei rischi. Quindi, la platea dei privati interessati deve essere necessariamente aperta allo scenario globale: se vogliamo buone infrastrutture, dobbiamo essere in grado di attrarre investimenti. Quali condizioni vanno rispettate? Anzitutto, prosegue Musso, creare vera contendibilità attraverso gare vere e concessioni di durata rapportata all’entità degli investimenti. Un secondo elemento è la flessibilizzazione degli elementi tariffari: il trend è sempre più quello di far pagare la viabilità specie in relazione alla congestione. Dunque il pagamento non è solo corrispettivo della costruzione e gestione, ma riflette anche il valore d’uso, quindi si potrebbero immaginare pedaggi variabili in funzione della domanda. Conclude Musso: la redditività, specie nel trasporto merci, si colloca su un ciclo che spesso è intermodale, non sta sul singolo segmento. Dunque il ruolo del privato può essere valorizzato su interi archi intermodali come i grandi corridoi europei? Infine, ribadisce che le opere devono essere “utili”, e anche allo scopo di discriminare quelle utili da quelle inutili è essenziale che le regole e le norme siano certe. In Italia abbiamo un paradosso per cui il regolatore pubblico è rigido nell’adeguarsi ai cambiamenti ma estremamente volubili all’opinione pubblica e questo contribuisce a creare confusione dannosa. “Il rischio di cattura del regolatore non c’è perché il regolatore non esiste: l’Anas dovrebbe essere abolita e superata da un’autorità indipendente e dalla riassegnazione delle concessioni a soggetti privati”.

Interviene Luigi Grillo, presidente della commissione trasporti del Senato. Grillo ripercorre le principali tappe degli anni recenti: svalutazione della lira nel 92, legge Merloni nel 93 che ha l’effetto – secondo lui – di paralizzare gli investimenti in opere pubbliche fino al 2001. La ragione è che le procedure sono talmente macchinose da impedire la realizzazione delle opere. Le cose cambiano con la nomina di Lunardi a ministro. Quindi legge obiettivo, legge delega e legge 166 che modifica la Merloni. Grazie alla riforma del 2002 che ha sbloccato il project financing gli investimenti sono ripartiti. Cita statistiche sulle gare e l’investimento di capitali privati per dimostrare che effettivamente una modifica ha potuto liberare forze importanti, stoppate dall’intervento a gamba tesa di Di Pietro che cancella il diritto di prelazione. I project riprendono quando, nel 2008, il centrodestra re-introduce il diritto di prelazione. Dunque, dice Grillo, se fai norme appropriate ottieni i risultati: “abbiamo poche risorse pubbliche, molte risorse private e il sistema bancario più forte d’Europa”. Grillo critica il veto Tremonti sul project di terza generazione, che avrebbe consentito una serie di investimenti senza onere per il pubblico. Il PF di terza generazione consente ai privati di prendere l’iniziativa per un investimento, senza che la decisione debba nascere in prima battuta dagli enti pubblici. In sostanza si tratta di una evoluzione della normativa esistente per esaltare il ruolo dei privati, che sarebbe molto efficiente specie al nord dove la PA funziona. Grillo propone la tariffazione delle superstrade (circa 6.600 km) per consentire investimenti necessari in capacità e sicurezza. Tutto questo, secondo Grillo, funziona o può funzionare: cosa non funziona? Certo, la macchinosità delle procedure. Ma l’anno scorso una norma ha sbloccato 11 concessioni autostradali. Pochi mesi dopo si è ritenuto che queste concessioni già sbloccate dovessero essere riportate al Cipe, che le ha riapprovate nelle condizioni precedenti alla norma: siamo al punto di partenza e sono ancora bloccate, con ingenti investimenti in attesa. Altro grande problema è responsabilizzare il ruolo dei magistrati per curare le patologie della giustizia. Sull’Anas, Grillo ritiene che il controllo andrebbe assegnato ad altri soggetti, separandolo dal ruolo di concedente e concessionario. A differenza di Musso, però, Grillo ritiene che il controllo non dovrebbe essere assegnato a un’authority ma al ministero.

Giannino lascia la parola a Francesco Ramella per le conclusioni.Ramella parte con due buone notizie: (1) non ci sono più i soldi perché abbiamo capito che né il debito né le tasse sono utili. (2) I soldi pubblici non servono. Quali opere servono? Servono opere dove c’è congestione, cioè sulle tratte più redditizie. Il sistema, se lasciato a se stesso, si auto-equlibra. Il problema è che continuiamo a fare opere che non servono, o perché non ci sono abbastanza persone che la usano, o perché non sono disposte a pagare abbastanza.  Poiché gran parte del traffico è locale, prosegue Ramella, finanziamo le opere pubbliche a livello locale: è un modo per discriminare tra opere utili e no. Conclusione: lo stato più che fare dovrebbe lasciar fare e smettere di fare le cose sbagliate.

]]>
/2010/09/21/le-infrastrutture-in-italia-quale-ruolo-per-i-privati-live-blogging/feed/ 0
“The Rational Optimist” gratis su Amazon. Scaricatelo! /2010/09/16/the-rational-optimist-gratis-su-amazon-scaricatelo/ /2010/09/16/the-rational-optimist-gratis-su-amazon-scaricatelo/#comments Thu, 16 Sep 2010 08:59:36 +0000 Alberto Mingardi /?p=7053 The Rational Optimist di Matt Rildey è un libro veramente notevole. L’autore è un apprezzato giornalista scientifico (fra i suoi libri Il gene agile. La nuova alleanza tra eredità e ambiente, edito in Italia da Adelphi, e La regina rossa. Sesso ed evoluzione, edito da Instar), in passato è stato fra i caposervizio dell’Economist, e – sull’onda del suo interesse per la teoria dell’evoluzione – ha sviluppato una vera passione per lo studio degli “ordini spontanei”.

Ho scritto una recensione di The Rational Optimist appena uscito, ne sono uscite di ben più autorevoli, dall’Economist in giù, a suo modo una eccellente testimonianza sul valore del libro è il bilioso commento dell’ex-hayekiano ed ex-thatcherofilo John Gray (sul New Statesman)

Questo libro straordinario è ora ridisponibile gratis (gratis) in versione Kindle (HT Massimiliano Trovato), lo potete scaricare qui. I diritti italiani di The Rational Optimist sono stati comprati da Rizzoli, che dovrebbe pubblicarlo l’anno prossimo.

Se avete amato questo libro fantastico, se conoscete i precedenti lavori di Ridley, o se semplicemente in questi tempi bui avete bisogno di una iniezione di “ottimismo razionale” non potete mancare al “Seminario Mises” di quest’anno. Proprio Matt Ridley terrà infatti la “Franco Forlin Lecture”, evento centrale del seminario di Sestri.

]]>
/2010/09/16/the-rational-optimist-gratis-su-amazon-scaricatelo/feed/ 8
Tony Blair sulla crisi /2010/09/03/tony-blair-sulla-crisi/ /2010/09/03/tony-blair-sulla-crisi/#comments Fri, 03 Sep 2010 10:10:23 +0000 Alberto Mingardi /?p=6940 Dopo che altri hanno già insistito sul monito al Partito Laburista contenuto nell’autobiografia di Tony Blair, A Journey, oggi il Wall Street Journal riporta alcuni passi del libro dedicati alla crisi finanziaria che ha contribuito prima a una straordinaria risalita di Gordon Brown nei sondaggi (sembrava “un keynesiano al posto giusto e al momento giusto”) e poi invece alla sua sconfitta elettorale.

Vale la pena di riportarli anche in questa sede. In primo luogo, scrive l’ex primo ministro, “non ha fallito il mercato., ha fallito una parte del settore”. Ma anche lo Stato “ha fallito. Le normative hanno fallito. I politici hanno fallito. La politica monetaria ha fallito. Indebitarsi era diventato eccessivamente conveniente. Ma non si è trattato di un complotto delle banche, è stata una conseguenza della confluenza (apparentemente fortunata) di una politica monetaria troppo facile e della bassa inflazione”.

Blair ha una visione piuttosto disincantata anche della “Obamanomics” neokeynesiana. “In ultima analisi, la ripresa non verrà stimolata dai governi, bensì dalle attività economiche, dalle imprese e dalla creatività, dall’ingegnosità e dall’intraprendenza degli individui. Se i provvedimenti che adotteremo per rispondere alla crisi diminuiranno i loro incentivi, soffocheranno la loro imprenditorialità, indeboliranno il clima di fiducia in cui esis operano, la ripresa diventerà estremamente incerta”. Una formula elegante per non sconfessare in maniera eccessivamente plateale i compagni di partiti, eppure porre in controluce l’interrogativo di Pietro Monsurrò: “Ma esiste uno straccio di prova che gli stimoli fiscali servano a qualcosa?”.

La cosa più interessante dell’articolo del WSJ è però un’altra citazione, dalla quale sembrerebbe emergere che la lettura della crisi di Blair non si allontana troppo da quella  spiegata molto bene da Jeffrey Friedman nella sua introduzione alla special issue di Critical Review sulla crisi. Per Friedman (e per Arnold Kling, vedasi il suo Unchecked and Unbalanced), la crisi non è stata dovuta a un “fallimento del mercato” quanto piuttosto a un “fallimento cognitivo” dei diversi attori in gioco, attori di mercato ma anche (forse soprattutto) regolatori.

Senza la raffinatezza intellettuale di Friedman, scrive Blair:

Quella che è mancata è stata la capacità di capire. Non l’abbiamo proprio vista arrivare. Si può sostenere che avremmo dovuto, ma così non è stato. Per giunta (e questo è un aspetto essenziale per capire in che senso indirizzare la regolazione del settore) non è vero che, se avessimo visto l’approssimarsi della crisi, non avremmo potuto fare niente per prevenirla. Il problema non è stato un fallimento della regolazione dovuto al fatto che le autorità non avevano il potere di intervenire. Se i regolatori avessero fatto sapere ai leader politici che era imminente un’enorme crisi, non avremmo replicato: “non possiamo farci niente fino a che non avremo introdotto nuove normative”. Avremmo agito.

PS: A scanso di equivoci: nulla di quanto sopra vuole esprimere apprezzamento per l’operato di Blair come primo ministro – operato che è molto controverso, contrassegnato assieme da grandi innovazioni sul piano del linguaggio politico e da severe compressioni dei diritti civili, in nome della “war on terror”, che per fortuna il nuovo governo britannico è determinato a rivedere. Ma il fatto che uno dei grandi protagonisti della scena politica mondiale degli ultimi trent’anni dia una lettura della crisi non troppo distante da quella costantemente avanzata su queste pagine e poche altre, pare significativo.

]]>
/2010/09/03/tony-blair-sulla-crisi/feed/ 15
La pianta del tè /2010/08/29/la-pianta-del-te/ /2010/08/29/la-pianta-del-te/#comments Sun, 29 Aug 2010 08:10:42 +0000 Alberto Mingardi /?p=6880 Oggi Washington è stata letteralmente invasa dagli ammiratori di Glenn Beck, per una manifestazione enfaticamente intitolata “Restoring Honor”, pensata a sostegno delle forze armate Usa ma anche dei valori di “fede, speranza e carità” incarnati da figure esemplari della società civile. L’evento è stato in prima battuta un fund raiser per la Special Operations Warrior Foundation – e poi un test per la popolarità del conduttore radiofonico. In diversi hanno associato questa manifestazione ai “Tea Party” ma effettivamente si è trattato di un evento molto diverso da quello che lo scorso 12 settembre ha visto un numero straordinario di americani correre nella capitale per dire il loro “no” alla cultura dei bail-out.

L’evento di Beck è stato una manifestazione bella e imponente. Il colpo d’occhio era spaventoso (vedete le foto nel post scattate col cellulare, ma anche e soprattutto quelle sul sito ufficiale), ad essere bella era la gente, i partecipanti.

Persone normali, pulite, semplici. Nonne e nonni coi nipotini, mamme coi passeggini, veterani e ragazzine acqua e sapone con una “Liberty Bell” tatuata a pochi centrimetri dall’ombelico. È vero, come hanno scritto i media mainstream, che era a dir poco difficile trovare un partecipante di colore (pur avendo navigato la folla in lungo e in largo, ne avrò visti sì e no una decina, di cui uno con la maglia di Balotelli). Ma è anche vero che c’erano persone diversissime, per età, background, e soprattutto reddito. Gente che per venire a Washington s’è fatta sedici ore di macchina, dormendo sul sedile posteriore. Madri di famiglia che nella capitale non c’erano mai state, e nel pomeriggio hanno preso d’assalto i musei. E smaliziati manager abituati a passare da un lounge d’aeroporto all’altro. Tutti assieme, confusamente, con un grande senso di solidarietà, una forma di rispetto profonda, riuniti da un’amicizia imprevista ma non banale. Non s’è sentito uno slogan razzista, ma anzi grandi applausi e profonda commozione nel ricordo di Martin Luther King.

Lo show (costato un paio di milioni di dollari) era tecnicamente perfetto. A me non era mai capitato di ascoltare Beck, ma non faccio fatica a capire perché gli riesca facile mobilitare tanta gente. Sul messaggio, si può discutere. Può piacere o non piacere. Nel mio caso, davvero non era “my cup of tea”: in quaranta minuti ho fatto il pieno di Dio, patria, famiglia e onore per i prossimi tre anni.

Detto questo, guardandosi attorno, interrogando questi “compagni di gita” e standoli a sentire,  l’impressione era davvero quella di stare in una manifestazione della “maggioranza silenziosa”.

La stessa maggioranza silenziosa che poi si è sciolta e riunita a grappoli per eventi più piccoli, quelli sì organizzati da gruppi vicini ai Tea Party. In questi eventi, anziché nominare Dio invano si faceva più modestamente ma anche più costruttivamente riferimento alla Costituzione e ai padri fondatori. L’obiettivo di queste organizzazioni è schiettamente politico: andare a influenzare l’esito delle elezioni di Novembre, all’interno del partito repubblicano di cui perseguono “un’opa ostile” (così Matt Kibbe e Dick Armey nel loro “Tea Party Manifesto”). Da alcuni punti di vista, l’enfasi “religiosa” di Beck fa persino pensare che la sua manifestazione sia stata un tentativo di fare rientrare nella politica americana proprio quei temi che i Tea Party avevano contribuito a mettere fra parentesi, focalizzando l’attenzione di nuovo sulle intrusioni dello Stato nella vita economica. Va detto però che gli appelli al Signore di Beck non sono in nessun caso diventati indicazioni politiche (pro o contro il matrimonio omosessuale, l’eutanasia, l’aborto….) – ma hanno preso piuttosto la forma di un richiamo etico-religioso.

Circa i patiti del tè: attenzione a non esagerare descrivendo come fossero una realtà omogenea i Tea Party, che invece sono contraddittori e plurali come inevitabilmente tutti i movimenti che crescono dal basso e restano acefali. Alcuni gruppi grass-roots (FreedomWorks e Americans for Prosperity su tutti) cercano di dare loro un’infarinatura di cultura politica, come ha ben documentato Kate Zernike sul New York Times, dopo aver partecipato ad uno di questi seminari). L’impressione è che effettivamente mobilitino persone che sono rimaste fino a pochissimo tempo fa “politicamente apatiche”. L’opinione pubblica, anche da noi, è nettamente divisa: da una parte gli ammiratori acritici, dall’altra gli animosi critici.

Avendo seguito una delle convention tenutesi a Washington in questi giorni, posso solo dare alcune impressioni:

  • i consumatori di tè tendono ad essere, almeno retrospettivamente, critici dell’amministrazione Bush – e alcuni di essi arrivano a leggere le scelte stataliste di Obama in sostanziale continuità con essa. In Italia, alcuni commentatori paventavano l’“isolazionismo” dei Tea Party. A me farebbe piuttosto paura la tendenza a difendere a scatola chiusa tutte le decisioni di politica estera della passata amministrazione repubblicana. Alcuni consumatori di tè lo fanno. Non tutti, per fortuna;
  • i consumatori di tè sono un gruppo molto eterogeneo, sia per età che per reddito. La cosa notevole però è che l’eterogeneità non produce la stessa “divisione del lavoro” che si vedeva in passato: i ricchi che ci mettono i soldi, i poveri che ci mettono le braccia. Al contrario. Anche fra persone di ceto elevato, c’è molta voglia di contribuire donando tempo e passione. Anche fra persone di mezzi modesti, c’è il desiderio di mettere il proprio, per quanto piccolo, obolo a disposizione;
  • i consumatori di tè sono un gruppo numericamente consistente. Se preferite l’opera ai concerti rock, è naturale che i loro meeting vi mettano un po’ a disagio. Il volume della musica  è molto alto, si tende a parlare per slogan, si urla e si applaude. Non troverete fra i consumatori di tè analisi politiche particolarmente raffinate. È normale. Perché un movimento di massa dovrebbe funzionare come un covnegno?
  • se c’è una cosa che unisce i consumatori di tè (anche nella variante del tè aromatizzato al Glenn Beck), è la preoccupazione per un fatto che risulta palmare quando vi mettete a girare per i tanti negozi che a Washington vendono merchandise politico. Quali che siano le sue posizioni in politica estera, Obama impersona come nessuno prima la “presidenza imperiale”. C’è un culto della personalità che travalica in manifestazioni imbarazzanti. Alla Union Station di Washington potete comprare un fumetto sulla vita di Barack, “child of hope”, e un libretto da colorare sulla “Obama family”. I bevitori di tè sono preoccupati dal fatto che un Presidente così popolare possa finire per accentrare e consolidare enormemente il potere;
  • i libertari da sempre sottolineano come sia irrazionale separare libertà “economiche” e libertà “civili”. È vero, ma è un dato di fatto che nella più parte del mondo le persone che desiderano pagare meno tasse sono anche quelle che vogliono che la marijuana sia illegale. Non sarà una grande prova di intelligenza, ma bisogna prenderne atto. Gruppi come FreedomWorks e Americans for Prosperity fanno un eccellente lavoro nel canalizzare queste energie sul fronte delle libertà economiche, cercando di far sì – il meccanismo è noto da tempo – che nei diversi collegi si affermino non solo dei “repubblicani”, ma dei repubblicani fiscalmente responsabili. È un meccanismo che estende per scala quanto in passato aveva già provato a fare il “Club for Growth”.

È possibile immaginare qualcosa del genere anche in Italia? Qualcuno ci sta provando – per esempio Tea Party Italia e il Movimento Libertario.

Inoltre, per ora, da noi manca l’evento catalizzatore: che in America è stato sostanzialmente lo “stimolo” obamiano. Inoltre, le differenze fra noi e gli Usa sono fin troppo ovvie. Rispetto al “metodo” (influenzare le elezioni collegio per collegio) è evidente che è impossibile pensare di procedere nello stesso modo, grazie alla nostra sciagurata legge elettorale.

Questa “maggioranza silenziosa” è tale perché è cresciuta in un orizzonte simbolico nel quale sono centrali Costituzione e Dichiarazione d’indipendenza. Al netto di qualsiasi, più approfondita discussione fra federalisti/antifederalisti, etc, queste persone leggono i documenti fondamentali della storia americana come un manifesto del governo limitato. Potranno giocare a fare i rivoluzionari, ma a tenerli uniti è l’idea che ci sia una “tradizione” degna di essere preservata. “Restore” America contro un “change” presuntuoso e socialisteggiante: ancora, al netto di qualsiasi “inquinamento” di quella tradizione politica che possa esserci stato dal New Deal in poi (non è certo Obama ad aver fatto degli Stati Uniti uno Stato tutto fuorché “minimo”).

Che dire? Il messaggio forse è semplice, ma il fatto che sia semplice non significa che non possa essere giusto. Gli obiettivi del movimento sono ambiziosi. Staremo a vedere se davvero i Tea Party riusciranno prima a fare eleggere dei candidati effettivamente sostenitori del governo limitato, e poi soprattutto se sapranno vigilare contro l’inevitabile tendenza al compromesso che quelli stessi candidati potrebbero sviluppare, una volta eletti.

]]>
/2010/08/29/la-pianta-del-te/feed/ 6
Andrew Keen e i privilegi della classe creativa /2010/08/25/andrew-keen-e-i-privilegi-della-classe-creativa/ /2010/08/25/andrew-keen-e-i-privilegi-della-classe-creativa/#comments Wed, 25 Aug 2010 11:59:54 +0000 Alberto Mingardi /?p=6846 L’Aspen Forum del Technology Policy Institute si è chiuso con un discorso di Andrew Keen, personaggio di cui ignoravo l’esistenza fino ad oggi  ma il cui libro è stato anche tradotto in italiano. Colpa mia non averlo né visto né letto, e se qualcuno invece l’ha fatto m’interesserebbe molto sapere che ne pensa.

Keen è un personaggio singolare, che alza la bandiera della “cultura del secondo novecento” (in Italia diremmo: post-sessantottina) sostenendo che si tratti del massimo prodotto di sempre della creatività umana. Prodotto che egli legge come in buona misura frutto di un “eco-sistema culturale” che ha consentito ai “creativi” (cinematografari, scrittori, musicanti) di trarre abbondante soddisfazione dal proprio lavoro. Di qui, parte con una filippica contro Internet, che di quella cultura sarebbe l’assassino. Sostanzialmente: lo sviluppo della rete avrebbe segnato una svolta ideologica per cui la qualità nella produzione culturale (si tratti di una rivista o di un CD) non dovrebbe essere più considerata degna di remunerazione monetaria. Questo ingenera una estrema “democratizzazione” della cultura, per cui tutto, non avendo prezzo, ha lo stesso valore: zero. Quei modelli di business che puntavano sulla costituzione di “piattaforme per la condivisione di contenuti” sperando di potere poi remunerare gli autori attraverso la pubblicità (un modello di per sé non certo nuovo: pensate alla televisione commerciale) sarebbero per Keen già obsolete, e in realtà sarebbero state sin dall’inizio votate al fallimento. Perché? Perché, banalizzo, “la qualità si paga”.

È un discorso affascinante anche se di dubbia consistenza. In prima battuta, a me possono piacere molto sia Bob Dylan che Saul Bellow e Philip Roth, ma prima di sostenere che i loro siano prodotti culturali intrinsecamente superiori a, chessò, Richard Strauss o Edvard Grieg piuttosto che Stendhal e Vittorio Alfieri ci penserei non due ma mille volte. Società diverse, in momenti diversi, hanno “pagato” gli artisti, i filosofi, i giornalisti, i musicisti in modo molto diverso. E siccome le preferenze sono individuali, ciascuno di loro può avere una diversa idea della moneta con cui desidera essere pagato.

C’è però un elemento di verità, o perlomeno a me sembra, nel discorso di Keen. Soprattutto grazie ad Amazon (Kindle) e a Apple (iPod/iTunes e giornali/iPad) si stanno affermando su Internet anche soluzioni per cui “la qualità si paga”. Questo vuol dire che tutto ciò che non è a pagamento fa schifo, oppure sia destinato a scomparire, perché dal momento che tutti hanno a disposizione tempo in quantità limitata lo dedicheranno solo ai contenuti “premium” per cui sborsano fior di quattrini? O, ancora, ciò che è gratuito sarà ridotto al rango di “assaggino”, per indurre all’acquisto, per esempio, di file audio o video?

Forse la faccenda è un po’ più complessa. Mi pare evidente che, con buona pace dei discografici, non esiste alcun tabù sociale che metta alla pari il donwnload illegale (com’era del resto ieri, con le videocassette copiate) con il furto. Mi pare altrettanto evidente che, con buona pace dei tecnofili, il libro va bene così com’è, non c’è bisogno di trasformarlo in una sorta di raccolta di link, e iniziative come il Kindle abbiano successo proprio perché ci consentono di procurarci in modo più pratico i cari vecchi libri.

Internet ci ha stupiti sin qui, e ci stupirà negli anni a venire. Non sarà tutta gratis, non sarà tutta a pagamento. I contenuti gratuiti, spiega Keen, danno l’impressione che “tutti siano uguali”, avvantaggiano il dilettante rispetto al reputato professionista delle arti e delle lettere. Ma siccome anche per leggere questo blog uno spende del tempo, davvero pensiamo che i lettori non sappiano giudicare e filtrare da sé i contenuti, investendo come meglio credono tempo e denaro?

È curioso che un “autoritario di sinistra”, come si definisce Keen, pensi che solo un prezzo in moneta possa rendere giustizia al valore di un’opera dell’ingegno – soprattutto perché, in tutta evidenza, anche al di fuori di Internet (pensiamo a libri o cd) i prezzi non riflettono solamente il “valore intrinseco” dell’opera, eterna chimera degli apologeti della “classe creativa”.

PS: Seth Godin sceglie di pubblicare in proprio sul web. La qualità che si paga, o la disintermediazione degli editori?

]]>
/2010/08/25/andrew-keen-e-i-privilegi-della-classe-creativa/feed/ 2
Manuel Ayau, un uomo di cui non sentirete parlare /2010/08/04/manuel-ayau-un-uomo-di-cui-non-sentirete-parlare/ /2010/08/04/manuel-ayau-un-uomo-di-cui-non-sentirete-parlare/#comments Wed, 04 Aug 2010 18:56:19 +0000 Alberto Mingardi /?p=6713 Difficilmente ne avrete sentito parlare, ma Manuel Ayau (nato il 27 dicembre 1925 e venuto a mancare ieri) è un uomo la cui vita ha avuto un senso. Pochi hanno fatto quanto lui  per la libertà individuale e la scienza economica, nel suo disastrato Guatemala e non solo.
Ayau era un imprenditore ma a partire dagli anni Settanta prese a dedicare una quota sempre più ampia non solo dei suoi averi ma del suo tempo e più in generale delle sue energie a quell’universo di idee caro anche ai lettori di questo blog. Partecipò attivamente ai lavori della Mont Pelerin Society che, prima di Internet, era pressoché l’unico strumento di cui per tenersi in contatto disponeva la piccola comunità di studiosi che a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta gettò le basi della lenta e progressiva “rinascita” del liberalismo classico dopo le due guerre. “Muso”, come lo chiamavano gli amici e tutti coloro che in qualche maniera finivano per sentirlo amico pur avendo avuto scambi episodici con lui, era per molti come per Bob Higgs “un eroe”. Qui qualche cenno biografico e qui il podcast di un bel documentario-conversazione del Liberty Fund. E’ stato uno straordinario “imprenditore intellettuale”, cui dobbiamo (così lo dobbiamo a Ralph Harris, a Jacques Garello, a Leonard Read e a pochissimi, temerari altri) la sopravvivenza delle idee di mercato in una stagione terribile, cui l’ingresso nelle sedi ufficiali del dibattito pubblico era loro interdetto, grazie a delle piccole e agili “istituzioni corsare”.
Ayau ha fatto tantissime cose della vita. E’ stato un uomo d’impresa fra i maggiori del suo Paese, ha fatto il consigliere d’amministrazione di imprese importanti, non si è sottratto all’amaro calice della politica, ha fondato nel 1959 il primo think-tank liberale del suo Paese e dell’America latina (il Centro de Estudios Economico-Sociales) ma la sua grande opera è stata l’Universidad Francisco Marroquin. Una straordinaria università privata, che ha fatto nascere e crescere, con l’obiettivo (raggiunto) di farne un centro di eccellenza in grado di accompagnare il progresso civile del suo Paese. Credo sia l’unica università del mondo dove gli studenti si trovano a passare a fianco di busto di Ludwig von Mises (cui è intitolata la biblioteca) e a uno di Friedrich von Hayek. E’ sicuramente l’unica che pubblica una rivista chiamata “Laissez Faire”. Tutti gli studenti undergraduate, indipendentemente dalla specializzazione, debbono sostenere un corso di economia e uno di “filosofia sociale” (basato sul pensiero politico di Hayek).
Ci sono signori che spergiurano di voler fondare una “università del pensiero liberale” e che potrebbero mantenerne a dozzine, ma al massimo ne parlano il 26 di dicembre di ogni anno, se proprio non c’è di meglio da fare, e palesando una curiosa idea di corpo docente che andrebbe da Tony Blair a Putin.
Muso Ayau è stato un uomo che, con disponibilità immensamente inferiori, ma credendo in qualcosa, una vera “università del pensiero liberale” l’ha costruita – coinvolgendo a vario titolo Friedrich von Hayek, Milton Friedman, Jim Buchanan, Gordon Tullock, Vernon Smith. Lascia un’eredità destinata a fiorire sempre di più, in un Paese non facile, grazie alla sua determinazione, alla sua tenacia, alla sua straordinaria fiducia nella capacità delle idee di cambiare le cose. Gli sia lieve la terra.
]]>
/2010/08/04/manuel-ayau-un-uomo-di-cui-non-sentirete-parlare/feed/ 5
Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/5 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni5/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni5/#comments Mon, 12 Jul 2010 10:34:30 +0000 Alberto Mingardi /?p=6483 Breve secondo giro di tavolo. Pilati è un “ottimista tecnologico” e invita a considerare la televisione non in se stessa, ma rispetto ai suoi competitori per l’attenzione del pubblico (YouTube, etc). Sulla Spagna, segnala come la tv pubblica senza canone abbia fatto bilanci disastrosi, e così pure i privati in un mercato “frammentato” (quello vantato positivamente da Gentiloni): il finanziamento dei contenuti, nel mondo di oggi, spinge ai consolidamenti. Le economie di scala sono molto rilevanti.

Sulle tlc, Pilati sottolinea differenza fra privatizzazione e liberalizzazione. La liberalizzazione del settore ha funzionato bene (pensiamo al mercato della telefonia mobile). Se mancano gli investimenti sulla rete, dipende dal modo in cui Telecom è stata privatizzata: Telecom non è stata in grado di difendere l’asset che aveva ricevuto in eredità dalla SIP (la rete). Il problema di oggi è che dopo aver caricato il debito delle acquisizioni sul patrimonio della società a Telecom mancano risorse. Gli operatori mobili hanno bisogno di risorse trasmissive in quantità maggiore di oggi: serve un riassetto delle frequenze, che ne sposti dal settore televisivo (dove sono usate in modo inefficiente) alla telefonia. Bisogna “aprire il trading delle frequenze” consentendo agli operatori di negoziare i diritti di uso che hanno accumulato nel tempo. Altrimenti si rischia saturazione reti operatori mobili.

Dopo la richiesta di un commento sulle assicurazioni da Bellasio, Pilati nota come l’indennizzo diretto non abbia fatto scendere i prezzi. Per Pilati, il differenziale di prezzo delle polizze con gli altri Paese va spiegato anche alla luce di una lettura del contesto italiano: troppi sinistri, troppa litigiosità, incertezza del diritto, frequenza delle frodi.

Bellasio nota come il PD faccia tutto fuorché incalzare il governo sulle liberalizzazioni.  Sulla tv, Daniele chiede a Gentiloni se non sia stato sbagliato, per la sinistra, evitare sempre il tema di privatizzazione della Rai. Gentiloni risponde che le forze di centro-sinistra hanno “problemi al loro interno”, e cita la vicenda del referendum sulla privatizzazione (cosiddetta) dell’acqua. Dice però che è dalle parti del Governo che le liberalizzazioni sembrano mordere il freno (“manca pure il ministro del ramo”).

Sul mercato del lavoro, Gentiloni sostiene che per salvaguardare il maggiore grado di apertura del lavoro vanno cambiati gli ammortizzatori sociali (per evitare “effetti boomerang” anche sul piano sociale). Evitare il cortocircuito con una forma di “flexecurity”.

Gentiloni è d’accordo con Pilati sul tema delle frequenze, siamo fra i Paesi più avanzati per accesso alla banda larga sul mobile, vanno redistribuite le frequenze ma c’è un “problema di posizione dominante dei grandi soggetti, che vogliono tenersi le frequenze anche se è evidente che oggi non sanno che farsene”. Gli operatori scommettono sull’innovazione, accaparrando frequenze pensando di potere poi andare all’incasso in un secondo momento. Per questo, il sacrificio non lo possono fare solo le tv locali “deve essere fatto a tutti i piani del palazzo dei televisionari”. La sua proposta è quella di un’asta pubblica delle frequenze (e non libero scambio dei diritti d’uso fra operatori, come proponeva Pilati).

Il dibattito è chiuso, Bellasio auspica che ci rivedremo l’anno prossimo “superando la soglia psicologica del 50%”. Come dalle migliori tradizioni italiche, ora si passa al buffet.

]]>
/2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni5/feed/ 0
Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/4 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni4/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni4/#comments Mon, 12 Jul 2010 10:14:47 +0000 Alberto Mingardi /?p=6480 Interviene Gentiloni. Gentiloni comincia notando come le liberalizzazioni purtroppo sembrino inattuali: sembra problematica la “prosecuzione di un disegno”, quello dell’apertura dell’economia, che ha coinvolto “prima la destra e poi la sinistra” fra la caduta del muro e l’attentato alle torri gemelle. “Avverto il pericolo che dopo il trionfo delle idee liberali a fine Novecento si inneschi ora una controtendenza”.

Gentiloni è “preoccupato dalla dottrina dell’antimercatismo del nostro ministro dell’economia” che non è “sufficientemente attenuata dai discorsi sull’art.41″ ma pure dal fatto che il leader del Pse all’Europarlamento, Schulz (sì, il “kapò” di Berlusconi), parli di “riscoprire le radici anticapitaliste della sinistra”. Segnala che il governo non ha licenziato la legge annuale sulla concorrenza “idea che non va mitizzata ma neanche fatta cadere”.

Gentiloni ha un punto interrogativo sul tema della tv: la tecnologia ha abbassato le barriere all’entrata, ma non è convinto sulla scelte del benchmark spagnolo. In Spagna, spiega Gentiloni, c’è un mercato frammentato e un operatore pubblico poco pesante, ma una regolamentazione ex ante fortissima.

Sui servizi pubblici locali, Gentiloni segnala come ci sia una sorta di “union sacreé” contro ogni genere di riforma effettiva. Mancano i regolamenti attuativi del decreto Ronchi, c’era stata la rivolta di mezza maggioranza contro il Lanzillotta. Questo perché, dice Gentiloni, evitando la liberalizzazione in un quadro di crescente devoluzione si può finire per consolidare situazioni ibride, che servono a piazzare persone e in alcuni casi ingenerano fenomeni di corruttela. Il fatto che si vada avanti a non fare nulla, per i veti di poteri locali e forze anti-mercato, è grave.  Il risultato potrebbe essere non “meno Stato, più società” ma “più ingerenza pubblica nell’economia e (di conseguenza, aggiungo io) più fattori corruttivi della politica”.

]]>
/2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni4/feed/ 0
Live blogging. Indice delle liberalizzazioni/ 3 /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni-3/ /2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni-3/#comments Mon, 12 Jul 2010 09:54:02 +0000 Alberto Mingardi /?p=6478 Stagnaro conclude citando Rahm Emanuel: non bisogna sprecare una buona crisi. Bellasio giustamente sottolinea come purtroppo Emanuel e Obama abbiano approfittato della crisi non certo per andare nella direzione della libertà economica.

Interviene Antonio Pilati. Servizi pubblici locali, gas e tlc sono per Pilati l’ambito su cui rilanciare l’azione liberalizzatrice. Non sono riuscito a sentire tutto l’intervento di Pilati e mi scuso per la sintesi.

Interviene Maurizio Sacconi. Esprime espressamente per il rapporto “che segnala delle strozzature” anche se si può essere in disaccordo sui contenuti delle “liberalizzazioni”.  Siamo condizionati da tre fattori strutturali che rendono difficile crescere: la “condizione del debito sovrano” e la necessità di intervenire sul debito pubblico,  il declino demografico, la contrazione dei consumi interni.  Sacconi: serve meno Stato e più società, in cui c’è anche “più mercato”. Bisogna snellire le strutture dello Stato, e soprattutto evitare che con il pretesto della “ri-regolamentazione” si aumenti la regolamentazione: “è opportuno continuare a parlare di deregolamentazione”. Questa riflessione va fatta a tutti i livelli: il fatto che esista la Calabria non può servire sempre da alibi per le Regioni del Nord (più efficienti, ma solo rispetto al benchmark). Bisogna ridurre la spesa e la spesa liberata va usata per ridurre le tasse. Il cambiamento è necessario perché noi siamo in competizione con democrazie molto più “semplici” della nostra, con Stati più snelli. Pomigliano, continua Sacconi, è un caso di scuola: Fiat non ha chiesto più soldi, ma ha accettato di fare un “patto con la società”. Passare “da più Stato a più società” significa passare da relazioni segnate dall’intervento pubblico, a momenti di cooperazione spontanea fra individui e corpi sociali. “In questo senso Pomigliano fa scuola”. Anche i percorsi del mercato del lavoro non sono necessariamente formalizzabili in forma di legge: si sostanziano fuori da ogni centralismo regolatorio e si sostanziano in una vasta deregolamentazione. Lo stesso Statuto dei Lavoratori potrebbe essere sostituito non da norme di legge ma in parte può essere rimesso alla deregolabilità ed alla adattabilià  delle parti sociali. Il piano triennale per il lavoro che Sacconi presenterà alle parti sociali si intitolerà “Liberare il lavoro per liberare i lavori”. Sacconi chiude con due rilievi: manca la giustizia, nell’Indice (l’eliminazione del patto di quota lite, dice in polemica con le liberalizzazioni di Bersani, porterebbe ad aumento del “contenzioso temerario”). L’incertezza che grava sulla giustizia è forse il principale problema per le imprese. Sulle telecomunicazioni, Sacconi trova l’indice troppo “generoso” – l’osservazione è però rivolta allo stato degli investimenti sulla rete dell’incumbent.

]]>
/2010/07/12/live-blogging-indice-delle-liberalizzazioni-3/feed/ 0