Milano si agita, ma manca il progetto. di Mario Unnia
Riceviamo da Mario Unnia e volentieri pubblichiamo:
Un entusiasmo progettuale percorre la città dopo tanto letargo. Il Manifesto per Milano promosso dal Corriere della Sera è emblematico: all’elenco chilometrico delle adesioni seguono incontri e assemblee di cittadini che fanno richieste sproporzionate alle risorse e ai tempi necessari. C’è poco da aspettarsi da questa progettazione collettiva se non un’attivazione dell’opinione pubblica a scopo politico, in vista delle elezioni, e forse un incremento delle vendite della testata.
La voce del popolo in quanto tale ha raramente prodotto qualcosa di significativo e di valido, e d’altro canto le classi dirigenti affidabili non hanno bisogno di adunate per sapere cosa fare. E, se non bastasse, è di qualche giorno l’ultima trovata, ‘Sìamo Milano’, che vede riuniti creativi, artisti, intellettuali, o pseudo tali.
In questo clima si sono mossi anche i Radicali con l’iniziativa dei cinque referendum per la qualità dell’ambiente e della vita a Milano. Rispetto all’attivismo velleitario del Manifesto la proposta è migliore sotto il profilo metodologico. Ma purtroppo il referendum consultivo di indirizzo, previsto nello statuto del Comune di Milano, è ben poca cosa. Il Comune entro 60 giorni dall’esito deve dire se è d’accordo e provvedere (i tempi e i modi li sceglie lui, naturalmente), se non è d’accordo deve spiegare il perché. Dunque anche questo strumento di attivazione popolare può dare origine a infiniti dibattiti prima e dopo la consultazione, ma come tutte le modalità di democrazia diretta può favorire una decisione del governo, però senza vincolarla.
Piuttosto, domandiamoci quale profilo di città evocano i cinque quesiti – mobilità sostenibile, non cementificazione delle aere Expo, riapertura dei Navigli, alberi e verde pubblico, energia pulita. La domanda non è peregrina, e rinvia ad una ricerca fatta dall’associazione ‘Primato Milano’ e presentata nel settembre 2005 in vista delle elezioni comunali. Si trattò di una consultazione tramite questionario scritto di esponenti qualificati della comunità professionale di Milano: l’argomento era duplice, il profilo di metropoli che si immaginava a dieci anni, nel 2016, e di conseguenza il profilo del candidato Sindaco che ne poteva essere il coerente attuatore. I rispondenti furono 230, pari al 53% dei contattati.
Tralascio il profilo del candidato e vengo al profilo della città . Se ne delinearono tre, e ne trascrivo una sintesi dal rapporto finale
Fast Town, la città che compete (indice di convergenza 56%)
Una città con vocazione competitiva, europea, cosmopolita. Centrata sull’ intreccio tra nuova industria e finanza, comprende le attività di ricerca, progettazione, formazione, servizi, e l’apparato terziario, costituito da finanza, borsa, headquarters, authorities. I business portanti sono moda, design, salute, media, università , e il terziario finanziario privato, banche, assicurazioni, fondi e sim. La città privilegia un governo programmatorio e un elevato efficientismo pubblico. Le città di riferimento, citate per la nuova industria, sono Barcellona, Lione, Francoforte, Monaco, e, per la finanza, Londra, Francoforte, Zurigo. Francoforte sembra riflettere l’intreccio “nuova industria e finanza†indicato dagli intervistati.
È tuttavia il modello di città non è esente da contraddizioni. Infatti, è una città mono-dimensionale che rischia di non vedere o addirittura di contrapporsi alle esigenze, ai valori, alle culture, alle etnie diverse o emergenti. È una città che può subire i meccanismi degenerativi della competizione. Da ultimo, è una città più interessata al lavoro che alla qualità della vita. L’impegno nel raggiungimento degli obiettivi economici può mettere in secondo piano il valore della socialità .
Slow Town, la città che vuole la qualità della vita (indice di convergenza 35%)
È un modello di città ‘alternativo’. È una città che auspica e persegue una diversa qualità della vita, valorizza il patrimonio storico-culturale anche come fonte di business, è orientata all’estetica, alle comunità che la costituiscono, al ‘punto di vista del cittadino medio’. È sensibile alle culture e agli stili di vita diversi ed emergenti, al volontariato, in parte alternativa alla tradizione milanese. Lo sviluppo è affidato prioritariamente alle attività culturali ed educative, al turismo, all’entertainment, al non profit. La città privilegia un governo concertativo e caratterizzato dai processi corali/assembleari di gestione del pubblico. Le città citate per la bellezza, il comfort e la qualità della vita sono Ginevra, Amburgo e Copenaghen.
Ma si porta dietro anch’essa alcune rilevanti contraddizioni. Innanzitutto non ha chiaro il profilo di una classe dirigente adatta al suo progetto e privilegia una governance fondata sul metodo della concertazione che comporta eccessive lentezze decisionali. Tende, poi, a non affrontare il problema del come promuovere nuove e adeguate fonti di ricchezza. E, da ultimo, rischia una diaspora ed uno spezzettamento dei valori.
Hard Town, la città che funziona (Indice di convergenza: 9%)
È sostanzialmente una città austera. Ricerca una fase di assestamento, dopo le stagioni dello sviluppo e della crisi, ed è orientata alla manutenzione migliorativa della situazione esistente. L’obiettivo del buon funzionamento della città prevale sulla volontà competitiva. L’opzione minimalista è suggerita da un realismo conformista. L’equilibrio attuale tra attività e servizi non è soddisfacente, ma non va stravolto, bensì migliorato. La città privilegia l’efficientismo di una classe dirigente burocratica. Le città di riferimento sono Barcellona e Monaco (evidentemente per ragioni diverse da quelle che sono un riferimento obbligato per la Fast Town) e Stoccolma.
Anche questo modello di città non è esente da contraddizioni. Si tratta, infatti, di un modello di città sostanzialmente anonima, che tende ad essere utilizzata dai cittadini come un bene strumentale e non mostra forti aperture culturali verso il nuovo e il diverso. Di più: è una città che si considera ‘fredda’ ai valori del business, non supporta prioritariamente l’attività imprenditoriale.
E veniamo alle conclusioni. Il lettore può divertirsi a confrontare, a distanza di cinque anni, la Milano di oggi con i tre profili individuati allora dalla ricerca, e scegliere quello che più si avvicina alla realtà odierna. Può anche essere un esercizio utile.
Tornando al documento, è certamente datato, ma mantiene una sua validità . Innanzitutto ricorda che occorre individuare, attraverso opportuni sondaggi, non una lista di singoli problemi pratici, che sono ben noti a tutti, bensì ‘visioni’ o ‘profili’ della città di Milano. Ciò che manca nel dibattito popolare del Manifesto per Milano e anche nei referendum dei Radicali. I cinque referendum riguardano appunto singoli problemi pratici, ma non delineano un profilo coerente che si richiami, ad esempio, alla Slow Town.
Inoltre ricorda che è velleitario pensare ad una città che ‘armonizzi’ i tre profili indicati: ne risulterebbe un compromesso, e Milano è segnata da una serie di falliti compromessi. Gli alberi in piazza del Duomo o davanti al Cenacolo sono l’ultimo delirio compromissorio. La vocazione della città non può che essere una, preminente, e questa ne definisce la specificità .
Infine, un avvertimento: ogni modello di città richiede una classe dirigente funzionale alla sua vocazione. La scelta della classe dirigente ad hoc presuppone idee chiare nella cittadinanza: ma non sono i Manifesti né i referendum di basso profilo quello che aiuta i cittadini alla scelta migliore.
2 luglio 2010 CittÃ


VOGLIAMO MARCO CAPPATO SINDACO DI MILANO
Il testo dei quesiti referendari si puo’ leggere qui:
http://referendummilano.blogspot.com