Commenti a: Vita e morte delle grandi città /2009/10/26/vita-e-morte-delle-grandi-citta/ diretto da Oscar Giannino Fri, 24 Dec 2010 22:54:42 +0100 hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Di: cosimo /2009/10/26/vita-e-morte-delle-grandi-citta/comment-page-1/#comment-2407 cosimo Tue, 27 Oct 2009 14:14:29 +0000 /?p=3456#comment-2407 Bellissimo spunto di riflessione. Sono un amministratore locale da pochissimo e mi stavo giusto ponendo in questi giorni certe domande. E' giusto salvaguardare il patrimonio ambientale, senza dubbio, perchè questo rappresenta un bene che in poco tempo può scomparire. Però va anche fatta una valutazione di questo patrimonio perchè un palazzo lungo l'arno non è un capannone agricolo nella piana pratese. E seppur aderente a tipologie tipiche di abitazione della piana, quanto è giusto che nel nome della salvaguardia ambientale si freni la libertà del proprietario o quella dello sviluppo urbanistico? A casa propria si dovrebbe poter fare quello che si vuole. Secondo me è un giusto principio. E' anche vero che in certi contesti un tuo intervento scriteriato su un tuo bene può togliere valore a quello accanto. Così come non so quanto possa essere utile togliere un controllo politico su certi interventi in quanto il controllo dei tecnici non risolverebbe i problemi di fondo: rimarrebbe una centralizzazione degli interessi, rimarrebbero trattamenti di favore a tecnici amici, rimarrebbe l'opinabilità nel giudizio sull'intervento. Mi trovo così molto combattuto a dover votare su obrobri architettonici che d'altro canto però sono proprietà di individui che vorrebbero usufruire al meglio del proprio bene. Bellissimo spunto di riflessione.
Sono un amministratore locale da pochissimo e mi stavo giusto ponendo in questi giorni certe domande.
E’ giusto salvaguardare il patrimonio ambientale, senza dubbio, perchè questo rappresenta un bene che in poco tempo può scomparire. Però va anche fatta una valutazione di questo patrimonio perchè un palazzo lungo l’arno non è un capannone agricolo nella piana pratese.
E seppur aderente a tipologie tipiche di abitazione della piana, quanto è giusto che nel nome della salvaguardia ambientale si freni la libertà del proprietario o quella dello sviluppo urbanistico?
A casa propria si dovrebbe poter fare quello che si vuole. Secondo me è un giusto principio. E’ anche vero che in certi contesti un tuo intervento scriteriato su un tuo bene può togliere valore a quello accanto.
Così come non so quanto possa essere utile togliere un controllo politico su certi interventi in quanto il controllo dei tecnici non risolverebbe i problemi di fondo: rimarrebbe una centralizzazione degli interessi, rimarrebbero trattamenti di favore a tecnici amici, rimarrebbe l’opinabilità nel giudizio sull’intervento.
Mi trovo così molto combattuto a dover votare su obrobri architettonici che d’altro canto però sono proprietà di individui che vorrebbero usufruire al meglio del proprio bene.

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Di: andrea lucangeli /2009/10/26/vita-e-morte-delle-grandi-citta/comment-page-1/#comment-2388 andrea lucangeli Tue, 27 Oct 2009 07:50:27 +0000 /?p=3456#comment-2388 I piani di assetto territoriale e quelli di pianificazione urbanistica sono una grande greppia da cui (da sempre) amministratori e politici mangiano....- Sarebbe opportuno mettere il tutto in mano a una task-force di (veri) tecnici che si dovrebbero limitare a vietare (tassativamente) le edificazioni in zone di particolare interesse storico/artistico/naturale/paesaggistico.- Tale task-force (protetta da opportune guarentigie onde evitare indebite pressioni di magistratura e dei.....Caltagirone di turno) potrebbe essere localizzata a livello regionale ed avere competenze sui singoli comuni.- Una sorta di "protezione civile" che si interesserebbe dell'edificando e non del già edificato.- Naturalmente una ipotesi del genere - in Italia - è del tutto irrealistica.... I piani di assetto territoriale e quelli di pianificazione urbanistica sono una grande greppia da cui (da sempre) amministratori e politici mangiano….- Sarebbe opportuno mettere il tutto in mano a una task-force di (veri) tecnici che si dovrebbero limitare a vietare (tassativamente) le edificazioni in zone di particolare interesse storico/artistico/naturale/paesaggistico.- Tale task-force (protetta da opportune guarentigie onde evitare indebite pressioni di magistratura e dei…..Caltagirone di turno) potrebbe essere localizzata a livello regionale ed avere competenze sui singoli comuni.- Una sorta di “protezione civile” che si interesserebbe dell’edificando e non del già edificato.- Naturalmente una ipotesi del genere – in Italia – è del tutto irrealistica….

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Di: Gerardo Coco /2009/10/26/vita-e-morte-delle-grandi-citta/comment-page-1/#comment-2358 Gerardo Coco Mon, 26 Oct 2009 21:00:34 +0000 /?p=3456#comment-2358 E’ un piacere vedere ricordata Jane Jacob. Alcuni anni fa quando mi occupavo della costruzione di alcuni quartieri, fui ispirato dai suoi indirizzi di progettazione. Ricordo in particolare la sua insistenza sui “generatori di diversità” quei fattori da tener presente per creare nei luoghi identità e funzionalità. Per poter capire la città, sosteneva, non bisogna considerare le funzioni urbane singolarmente, per categorie o prendere in considerazione i singoli usi ma le loro combinazioni e mescolanze in modo da stimolare la diversità e gli spazi di relazione. Nella città la monotonia è nemica degli scambi sociali ed economici. Come si fonda pertanto la qualità urbana? Secondo la Jacobs con una profonda integrazione tra parti separate della città. Spesso un buon progetto deve anche lavorare sul rovesciamento di senso dei luoghi: la situazione marginale non deve essere vista come punto debole ma strategicamente assunta come condizione privilegiata. Le zone divengono “malate” quando viene a mancare questa specie complessa interdipendenza e la scienza urbanistica deve diventare l’arte di catalizzare ed alimentare un tessuto di relazioni vive costruendo non l’ambiente artificiale ma lo spazio degli eventi, l’ambiente sociale della relazione e comunicazione. E’ vano d’altra parte pianificare l’aspetto esterno delle cose o speculare sul modo di darle una apparenza di ordine senza conoscere quale sia il suo spontaneo ordine funzionale. La Jacobs è stata definita l”antiplanner”, ma la sua è stata secondo me una ricerca ed una riflessione pragmatica per capire ed individuare una strategia utile a comprendere il rapporto tra utenti ed insediamenti per cercare di tradurre i loro bisogni reali in spazi organizzati. L’idea di un luogo, il suo senso profondo ossia la sua vocazione non è lo spazio definito dai progettisti ed architetti ma il luogo delle esperienze e della vivibilità. Un’architettura deve essere pertanto in grado di dialogare con la gente. Sono le esigenze reali della vita che trasformano lo spazio edificato in spazio abitativo, non la retorica accademica degli architetti o le esigenze funzionaliste di un piano regolatore creato da urbanisti burocrati. Se ricordo bene la Jacobs rimproverò a Lewis Mumford l’utopismo nostalgico per l’urbanistica “organica” medioevale che non nasceva da una idea preconcetta ma muoveva di bisogno in bisogno attraverso una serie di adattamenti che riuscivano a fondere le necessità pratiche con le esigenze estetiche come se l’urbanistica fosse di fatto governata da una teoria inconsapevole. Mumford vide nella fine dell’ urbanistica medioevale la distruzione dei legami di tipo comunitario e di solidarietà spontanea che ne costituivano il fondamento. Ma sia la Jacob che Mumford miravano alla stessa cosa: un’ urbanistica che reagisca alle esigenze della vita accettando mutamenti ed innovazioni senza lasciarsene distruggere. Come dice giustamente Stefano Moroni la Jacobs ha molto da insegnarci. Con il suo indirizzo la città puo evitare la crescita inorganica, anzi cancerosa con la continua decomposizione dei vecchi tessuti e lo sviluppo eccessivo dei nuovi. La città dovrebbe essere il teatro delle possibilità della vita e non, per dirla con Benjamin, lo spazio del fallimento, la forma materiale delle paure di questa epoca. Gerardo Coco E’ un piacere vedere ricordata Jane Jacob. Alcuni anni fa quando mi occupavo della costruzione di alcuni quartieri, fui ispirato dai suoi indirizzi di progettazione. Ricordo in particolare la sua insistenza sui “generatori di diversità” quei fattori da tener presente per creare nei luoghi identità e funzionalità. Per poter capire la città, sosteneva, non bisogna considerare le funzioni urbane singolarmente, per categorie o prendere in considerazione i singoli usi ma le loro combinazioni e mescolanze in modo da stimolare la diversità e gli spazi di relazione. Nella città la monotonia è nemica degli scambi sociali ed economici. Come si fonda pertanto la qualità urbana? Secondo la Jacobs con una profonda integrazione tra parti separate della città. Spesso un buon progetto deve anche lavorare sul rovesciamento di senso dei luoghi: la situazione marginale non deve essere vista come punto debole ma strategicamente assunta come condizione privilegiata. Le zone divengono “malate” quando viene a mancare questa specie complessa interdipendenza e la scienza urbanistica deve diventare l’arte di catalizzare ed alimentare un tessuto di relazioni vive costruendo non l’ambiente artificiale ma lo spazio degli eventi, l’ambiente sociale della relazione e comunicazione.
E’ vano d’altra parte pianificare l’aspetto esterno delle cose o speculare sul modo di darle una apparenza di ordine senza conoscere quale sia il suo spontaneo ordine funzionale.
La Jacobs è stata definita l”antiplanner”, ma la sua è stata secondo me una ricerca ed una riflessione pragmatica per capire ed individuare una strategia utile a comprendere il rapporto tra utenti ed insediamenti per cercare di tradurre i loro bisogni reali in spazi organizzati. L’idea di un luogo, il suo senso profondo ossia la sua vocazione non è lo spazio definito dai progettisti ed architetti ma il luogo delle esperienze e della vivibilità. Un’architettura deve essere pertanto in grado di dialogare con la gente. Sono le esigenze reali della vita che trasformano lo spazio edificato in spazio abitativo, non la retorica accademica degli architetti o le esigenze funzionaliste di un piano regolatore creato da urbanisti burocrati. Se ricordo bene la Jacobs rimproverò a Lewis Mumford l’utopismo nostalgico per l’urbanistica “organica” medioevale che non nasceva da una idea preconcetta ma muoveva di bisogno in bisogno attraverso una serie di adattamenti che riuscivano a fondere le necessità pratiche con le esigenze estetiche come se l’urbanistica fosse di fatto governata da una teoria inconsapevole. Mumford vide nella fine dell’ urbanistica medioevale la distruzione dei legami di tipo comunitario e di solidarietà spontanea che ne costituivano il fondamento.
Ma sia la Jacob che Mumford miravano alla stessa cosa: un’ urbanistica che reagisca alle esigenze della vita accettando mutamenti ed innovazioni senza lasciarsene distruggere.
Come dice giustamente Stefano Moroni la Jacobs ha molto da insegnarci.
Con il suo indirizzo la città puo evitare la crescita inorganica, anzi cancerosa con la continua decomposizione dei vecchi tessuti e lo sviluppo eccessivo dei nuovi. La città dovrebbe essere il teatro delle possibilità della vita e non, per dirla con Benjamin, lo spazio del fallimento, la forma materiale delle paure di questa epoca.
Gerardo Coco

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